Mentre riposavo all’ombra di alcune frasche sulla spiaggia più segreta di Antiparos, Cicladi, Grecia, mi è venuto in mente che viaggiare significa diventare scenografi dei propri pensieri: cambiare set, illustrare le ombre delle idee, i capovolgimenti di luce e iconografia, lo stile la cadenza e il trotto delle associazioni.
Visito Antiparos da quattro anni, e da quattro anni ho dato una dimensione privata e intima alla parola più abusata del mondo: riposo. “Rip”, come taglio, come tagliuzzare il tempo della vita, e ritagliare un altro tempo: ma anche “oso”, come osare, come costruire una vita e una carriera in un’isola, l’isola della vacanza, l’isola della possibilità (e non la “possibilità di un’isola”).
Essendo Antiparos la scenografia ideale per letture e immersioni concettuali, dialoghi e conversazioni, voli mentali e affondi felici di splendide incursioni nella storia della conoscenza, della mia conoscenza, che non è mai solo mia se è vera conoscenza, e non è mai vera conoscenza se rimane a riposo con me – se non ci dà un taglio, rip-off, ma osando davvero verso gli altri, diventando scuola sotto il sole, scuola orizzontale sotto il sole verticale, e dovete sapere che ad Antiparos c’è sempre il sole ad agosto, con uno scarto di un giorno al massimo, forse due. Per questo ad Antiparos bisogna essere pienamente estivi, e coraggiosi, e riposati, e muoversi in ogni direzione concessa dall’elastico della mente.
L’anno scorso ho letto ad Antiparos La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, pubblicato a Londra da Laurence Sterne nel 1760 – uno dei pilastri non solo del romanzo moderno, ma anche della “mente” moderna, della nostra mente polifonica e digressiva – è comparsa una di quelle idee cui non si può resistere. Se scrivo di un libro fatto quasi integralmente di fughe in avanti e in ogni direzione, perché non concedermene una anch’io? Perché non concederla al lettore? Così ho pensato di usare un meccanismo narrativo che ho inventato e applicato al mio nuovo romanzo, intitolato La scomparsa di me, e basato su un’idea semplice: un uomo muore e si risveglia per 365 volte nella testa di tutte le persone che ha conosciuto: amici, mogli, figli, collaboratori, tassisti… Ma cosa succederebbe se un giorno si risvegliasse nella testa di qualcuno che non ha conosciuto? Cosa avrebbe fatto l’eternamente curioso Tristram Shandy? Forse avrebbe scelto il suo eroe intellettuale. E io ho fatto lo stesso. Così ho esteso un out-take impossibile dal mio libro, immaginando che un alter-ego del protagonista, io in questo caso, si risvegli alle sette di mattina nella testa del proprio eroe. Nel mio caso, l’artista e scrittore Douglas Coupland, canadese di cinquantasette anni che ha definito con il suo lavoro una parte importante di ciò che definiamo “sensibilità contemporanea”. Ho cominciato a immaginare, e il resto si è svolto come lo leggete qui sotto.
Lo confesso: da Coupland si è diramato il mio amore per il mondo contemporaneo, dal mio amore per il mondo contemporaneo si è diramato il casino della mia vita privata, e dal casino della mia vita privata si è diramato il cosmo post-mortem in cui sono ora: il libro si chiamava Generazione X, io avevo l’età giusta e non capii molte delle implicazioni e delle note relative ai personaggi, alle scene, agli ambienti, alle citazioni, per molto tempo. Ci vollero dieci anni di letture, di ascolti, di viaggi, di visite ai musei, perché all’improvviso saltasse fuori un dettaglio che avevo immagazzinato senza capirlo.
Leggevo Generazione X nella stanza che occupavo con mio fratello – senza mio fratello a quel punto, però, visto che si era sposato a 24 anni abbandonando me e la casa – nel letto a castello, rannicchiato insieme alla radio, un programma basato su complicati giochi di cultura musicale alla Trivial Pursuit con gli ascoltatori, fatti principalmente per mezzo della segreteria telefonica, che all’epoca insieme al videotel era il più potente mezzo di comunicazione sofisticata immaginabile.
Coupland era sempre stato più avanti di tutti, e meno centrale di tanti altri, e proprio per questo capace di acquisire centralità in un mondo che diventava sempre meno indulgente con le creature culturali che allignavano nelle specializzazioni. Era un artista, era un giornalista, era un organizzatore di linguaggi: era un saggio: era una spugna. Lessi tutti i suoi libri man mano che uscirono, nel corso degli anni, in italiano e in inglese. Ce ne fu uno, Microservi, nel quale un personaggio scrive “alla maniera di Prince”, cioè usando la U al posto di you e 2 al posto di “to”, etc, e questo molto tempo prima che il dialetto scritto di internet portasse milioni di persone a usare quella stessa brevità, quella stessa intensa sintesi senza qualità. Coupland era il mio eroe. Per questo quando mi svegliai dentro di lui provai un moto di gioia – una doppia gioia, o tripla: perché era un eroe, perché era la dimostrazione che il gioco in cui ero intrappolato prevedeva scarti ed eccezioni (non si può dire che davvero facesse parte della mia vita quotidiana, non avendolo mai incontrato), e infine perché amavo la semplice fortuna di essere dentro qualcosa che consideravo molto acuto. Ero dentro Coupland. Ero dentro un angolo acuto. Fu molto strano, purtroppo, rendersi conto che alle sette stava dormendo, alle otto stava dormendo, alle dieci stava dormendo, a mezzogiorno stava dormendo. Quando una persona dormiva io non vedevo nulla, perché usavo gli occhi come finestre, erano proprio tecnicamente delle finestre: perciò a occhi chiusi corrispondeva una totale cecità. I minuti passavano, mentre mi domandavo se fosse injet lag, o ubriaco, oppure avesse abitudini di inversione notte-giorno. Tutto poteva essere. Negli ultimi tempi mi ero incarnato in persone molto diverse, alcune molto tristi – perciò non vedevo l’ora che aprisse gli occhi per vedere il mondo dal suo punto di vista. In fondo era l’ultima grande novità, l’ultima grande eccitazione che la dopovita mi riservava: il fan che legge il mondo dal punto di vista della mente del suo autore prediletto. Wow. Ma i minuti continuavano a passare, e si sentiva solo il respiro – talvolta interrotto da un’apnea, da un russare. E poi, dopo l’ultima incarnazione, ricordo bene, avevo bisogno di un uomo di successo. Mi aveva letteralmente depresso l’ultima incarnazione: l’insuccesso, d’altronde, può dare frutti non immaginati e pieni di risvolti impensabili.
Si svegliò alle tre di pomeriggio, Douglas Coupland. Era un po’ più grosso e un po’ più bianco di come lo immaginavo. Bianco di carnagione e di capelli – e di barba. Dopo aver scritto alcuni messaggi col cellulare, essersi fatto una doccia, aver controllato diversi siti e bevuto alcuni caffè, dopo aver messo un pezzo di Arthur Love con l’i-Pod, dopo esser stato in silenzio a guardare fuori dalla finestra, il cielo composto di Vancouver, venne il momento di uscire. Ci furono alcune telefonate, da cui capii che stava lavorando di notte, e dopo una certa età hai proprio bisogno di tempo e di sonno, specialmente quando finisci di scrivere alle cinque o alle sei. Ci fu un pranzo e alcune chiacchiere, e poi uno svagato ritorno a casa. Ci fu un articolo letto con attenzione, tanto che riuscii a leggerlo anch’io:
Immaginate una spiaggia desolata a una ventina di miglia a sud di San Diego – il confine tra Usa e Messico. Intorno alla spiaggia: il paludoso delta del fiume Tijuana. Intorno al delta: detriti, rifiuti, liquami. In mezzo, una staccionata di lastre di acciaio corrose dal sale marino che durante la Prima Guerra del Golfo erano state usate per atterrare nel deserto e qua sono state conficcate a minima distanza l’una dall’altra, in virtù dell’alchimistica politica americana di riutilizzo dei materiali militari – quel che si stendeva a terra per adagiare i jet da guerra sta in piedi per tener lontani gli esseri umani. Sopra, nella parte bassa del cielo, cinque o sei elicotteri militari. Accanto, da qualche parte i patrolmen americani sulle loro jeep: a volte scendono, a volte girano a vuoto, a volte sparano. Immaginate i giovani intellettuali che chiamano chi sta dall’altra parte, tirano fuori dallo zaino una palla da volley e semplicemente, come si conviene, cominciano a giocare. La sfera inizia ad attraversare il confine in quel modo teso e ballonzolante che è la dialettica tra palleggio e schiacciata – e suona curioso come la pallavolo sia essenzialmente una metafora plastica della migrazione. La partita dura un’ora, e viene filmata, perché l’idea di venire fin qui e giocarla è stata di Brent Hoff, il direttore della magnifica rivista su DVD chiamata Wholpin, e di tre suoi collaboratori. I polsi si uniscono nella ricezione. I palmi si bruciano al contatto dei granelli sulla curva di plastica della palla in corsa. Si sentono le urla dall’altro lato. Dopo un po’ non si capisce più chi stia vincendo e chi stia perdendo. Dopo un po’ arriva la guardia a stelle e strisce che non trova nulla di illegale – ma se la palla fosse un bene e ogni volta che passa si dovessero pagare i diritti doganali? I ragazzi lo invitano a giocare, ma lui sta lavorando. Alla fine del match, la prima partita di pallavolo di confine mai giocata, è stato segnato un punto netto e poetico, forte e dinamico, contro la tetra burocrazia doganale. Hans-Peter annuisce, mentre la signora aggiunge: trasformare in realtà uno sport immaginario in un luogo così tragico e simbolico è un gesto di lirismo politico. Continuiamo ad annuire. Poi osserviamo il telefono. Poi ci sediamo ai nostri posti. Poi mi appare senza preavviso la chiarissima voglia di volare, e gli aerei che abbiamo preso insieme, e che in alcuni casi ciò che mi succede non è affatto diverso dall’amicizia: stare con qualcuno, stare dentro qualcuno, stare così tanto con qualcuno che si finisce per stare dentro quel calcolo e scontro, dati ed esperienza, il lato interno della fronte, così come si avverte la profonda intesa, quando capisci ciò che si capisce senza dire ciò che si potrebbe non dire. E nel frattempo, nell’aria compressa del velivolo, qualcuno prega perché qualcun altro allacci le cinture di sicurezza…
Poi Douglas si mise al lavoro aprendo il foglio di Word e cominciando a correggere e copiare e incollare pezzi di diverse stesure dello stesso libro, e immagini, e strani grafici. Facevo fatica a seguire perché apriva di continuo nuove finestre, poi scriveva a mano sul tavolo, poi rispondeva a un messaggio, poi metteva un pezzo su iTunes, poi controllava la pagina Facebook, poi selezionava paragrafi che sembrava conoscere alla perfezione, poi si alzava per andare a far la pipì e mi concentravo sui dettagli della casa.
Poi ci furono altre telefonate: poca attenzione al testo, anche perché continuava a ripetere che ci lavorava di notte, che era un periodo ‘testuale’ (anche se a me sembrava un periodo di assorbenza, come se tutto ciò che di paradossale e curioso si producesse al mondo venisse a bussare alla sua porta, e lui lo accogliesse): giunse l’ora della cena, ci fu una preparazione non rapida e la chiamata di una vettura Uber. Douglas scese di fretta, colpendo nervosamente il corrimano delle scale che lo separavano dall’androne della palazzina. Non si guardò riflesso in alcuna superficie occasionale, tipo finestrino di un’auto. Mise gli auricolari. Entrò nella macchina che arrivò con un minuto di ritardo. Confermò l’indirizzo e scambiò qualche veloce convenevole e un sorriso che non potevo vedere perché era dalla parte sbagliata del sedile posteriore rispetto allo specchietto sopra il cruscotto. Infilò di nuovo gli auricolari. Quando qualcuno ascoltava la musica nelle orecchie, va detto, io esplodevo: letteralmente: mi sentivo sbrindellato, scaraventato, anche se è difficile associare queste sensazioni con l’assenza di dimensioni fisiche. Ma era così. Funzionava così.
Said he was an actor, bit of a photographer
But made his living out of laughter which made him a comedian
Waiting for his million that was soon coming
But for now he was bumming
He looked in the mirror, looking back at an era
And finished up his brush stroke and laughing at a private joke
He saw the self-hate in his self-portrait
That would one day hang in the Tate next to a Rembrandt
But still couldn’t pay the rent, man
He said he was a musician who had this ambition
For everyone to listen to his natural rhythm
But for now he was chilling
Just saying this
It’s a matter of time before I get mine
You could call it fate
I’m just waiting for my break
I’m just waiting for my break
Non avevo mai sentito questa canzone hip-hop, ma la musica di Douglas non deludeva. Quello che trovai deludente fu la conversazione a cena – interamente in tedesco, una lingua che avrei voluto conoscere ma non conoscevo. La mia memoria raccoglieva perfettamente i suoni ma, come dire, rimanevano suoni. La cena in tedesco fu una cena in tedesco, e riuscivo solo a distrarmi associando i titoli dei libri di Douglas a piccoli isolati ritagli di bocche intente a mangiare, a spostare bottiglie, ad arrotolare sigarette, a darsi la spinta per alzare il busto e il corpo e muoversi dal tavolo con qualche stoviglia in mano. Erano amici, e lui – questo lo ricordavo – era nato in Germania, in una base militare americana nella quale lavorava il padre. Pensavo a Memoria Polaroid. Pensavo agli anni novanta. Pensavo a quando siamo cresciuti nell’altro secolo. Pensavo a cosa serve accumulare tutti questi dati e queste vicende se poi si finisce così vicini a perdere tutto. Senza accorgermene, scoccò la mezzanotte, e come nella regola della fiaba mi trasformai ancora – nella tetra molecola del metano. Il mondo non ha senso senza le nostre trasformazioni. È la magia della coscienza. La stessa che trovate in Sterne, nel Tristram Shandy, nelle sue molteplici avventure mentali.
Nel VIII capitolo del settimo volume de La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, capolavoro modernista e cubista incastonato nel pieno XVIII secolo, si legge:
“Quando gli irruenti desideri di un individuo fanno galoppare le sue idee novanta volte più in fretta che il veicolo su cui viaggia – guai alla verità! E guai al veicolo!”
Il veicolo della velocità a riposo, il veicolo per far decollare la mente, si chiama Antiparos.