Un vento aspro spirava sul lago e nella sua furia gli faceva schioccare la stoffa del giaccone. Mungo non aveva mai assaporato un’aria tanto tersa, e vedendo che Gallowgate guardava altrove, ne approfittò per reclinare la testa all’indietro e cacciare fuori la lingua. Il vento aveva un sapore verde di erba di primavera, ma c’era in esso anche un marrone preistorico, quasi che avesse esplorato umidi glen torbosi e antiche foreste per millenni, in cerca della propria strada.
Se avesse conosciuto le parole per descriverlo, Mungo avrebbe detto che vi percepiva la fragranza delle foreste di pini, l’aroma vivace del mirto di palude, della veccia e della ginestra, e poi, in sottofondo, il muschiato umido della terra fertile, l’incessante pioggia purificatrice. Per lui invece era solo verde e marrone, era solo umido e pulito. Non aveva le parole per quel vento. Sapeva solo che odorava di magico.
Non era mai stato in un posto dove il verde prima o poi non si interrompesse. Una volta aveva vagato per i campi incolti intorno al sobborgo di Garthamlock, ma quelli erano deturpati da macchine date alle fiamme e divani sfondati e non potevi correre nell’erba alta senza il timore di ferirti le caviglie. Adesso, mentre attraversavano il bosco, il pensiero di appartenere al ristretto numero di persone che potevano mai essere state lì gli dava il capogiro. Non c’erano rumori, niente uccelli, niente animali che strisciassero tra il fogliame. Era confortante far parte di qualcosa di così incontaminato.
A un certo punto si imbatterono nel teschio e nelle ossa sbiancate di una vecchia pecora. Gallowgate passò le dita sulle corna curve e spiegò che era un ariete, “il maschio della pecora”. Mungo rovistò nella tasca della giacca a vento finché non trovò la macchina fotografica usa e getta che Jodie gli aveva prestato. Il rullino era già consumato per metà, sprecato per stupide istantanee della stessa Jodie alle prese con una frangetta tagliata in casa. Il cric-cric della rotellina di avvolgimento ruppe il silenzio assoluto, il lampo fermò le foglie nel loro ondeggiare. Persino St Christopher smise di lamentarsi per un momento.
Attraversarono in fila indiana una buia radura. Gallowgate si accovacciò; volle mostrare a Mungo che aspetto avevano le ortiche, e quando raggiunsero un oceano di quelle piante urticanti si issò sulle spalle il ragazzo coi calzoncini corti. Gallowgate avanzava nel sottobosco come un mulo carico della sua soma. Nitriva quando con i suoi sballottamenti strappava a Mungo una gorgogliante risata. Più Mungo rideva, più lui accelerava il passo, finché gli ululati del ragazzo non riecheggiarono dalla fitta volta del bosco e Gallowgate cominciò ad ansimare pesantemente.
Era stato strano, all’inizio, avvolgergli le gambe nude intorno alla vita, eppure a cavalluccio dell’uomo Mungo si sentiva al sicuro. Poi Gallowgate lo rimise giù e gli sfregò gli stinchi per scaldarli. Mungo ebbe il dubbio di averlo giudicato male. Si girò senza riuscire né a vedere né a sentire St Christopher alle loro spalle. Ma Gallowgate non sembrava preoccupato. Sputò nel tappeto di felci e riprese la marcia.
Raggiunsero la sponda del lago quando il sole stava ormai tramontando dietro le colline. Dopo la sensazione di claustrofobia respirata nel bosco, il lago si aprì all’improvviso, quasi troppo vasto perché Mungo potesse abbracciarlo tutto con lo sguardo. Barcollò fino al limite dell’acqua.
Il giorno stava ritirando i suoi ultimi colori, e mentre i viola e gli albicocca più soffusi colavano al di là dell’orizzonte, Mungo rimpianse che non fossero arrivati prima. Reclinò la testa all’indietro e prese a girare su se stesso. Il cielo sopra di lui era di un blu sempre più scuro sporcato da tenui pennellate color limone. Non immaginava che il cielo potesse racchiudere tutte quelle sfumature, o forse semplicemente non ci aveva mai fatto caso. Figurarsi se a Glasgow c’era qualcuno che guardava in alto.
Dalla bocca gli sfuggì un lieve sospiro di meraviglia. Tutta quella bellezza nel cielo era riflessa nel lago come se Madre Natura si stesse pavoneggiando. Gallowgate sorrise orgoglioso. «Aspetta di vedere il cielo stanotte. Non l’hai mai visto, un nero come quello.»
Gli offri le spalle su cui salire di nuovo, in modo che Mungo potesse ammirare la sponda lontana prima che venisse ingoiata dal crepuscolo. Da quell’altezza Mungo stimò che il lago fosse ampio due o tre chilometri e lungo duecento.
A delimitare la sponda opposta si ergevano massicce colline i cui versanti erano solcati da fenditure, come se la roccia sottostante ne avesse squarciato il tessuto. Tutti i colori erano a chiazze irregolari e Mungo aveva l’impressione che le colline fossero ammantate da un gigantesco tappeto liso. In alcuni tratti il verde del muschio e il marrone chiaro sembravano cancellati con una gomma e li affiorava il grigio del granito, quasi che fosse il basamento stesso su cui poggiava il paesaggio. Qua e là c’erano sprazzi di fiori di brughiera e ginestra dorata, oltre a piccoli residui di neve bianca ostinatamente aggrappata alle spaccature più profonde.
Verso sinistra il lago digradava via via fino a perdersi all’orizzonte. Sulla destra, invece, piegava pigramente sparendo dietro un muro di pini. Mungo pensò che dovesse essere dieci volte più grande del quartiere dove viveva, forse addirittura più grande della stessa Glasgow.
Due volte aveva visto il mare in vita sua. Al mare l’acqua era sempre agitata e vorticosa. Qui invece le onde erano pigre, la superficie vitrea come quella di una pozzanghera. Non si muoveva nulla a eccezione di un nugolo di ronzanti moscerini neri che volavano a pelo d’acqua provocando un’increspatura di pesci affamati. Il lago doveva essere più freddo e profondo di quanto lui potesse immaginare. Si mostrava triste, come se fosse stato dimenticato. Silenzioso, come se custodisse segreti.
Gallowgate lo rimise giù. Sfregò con le mani la gelida schiena del ragazzo e poi scattò lungo la distesa di sassi che bordava la riva del lago. Contro un pendio ricoperto di muschio era addossato un cumulo di massi appena sbozzati che ricordava vagamente un rifugio di montagna. Del rudere sopravvivevano solo due muri paralleli ma vi si riconoscevano ancora la porta crollata e gli spioventi del tetto. Davanti alla casupola, Mungo vide una buca per accendere il fuoco e un semicerchio di massi più grandi sui quali sedersi. Grossi moscerini assetati di sangue ronzavano fra le ombre.
«Ci farai l’abitudine» disse Gallowgate porgendogli una foglia di romice. «Sfregati le gambe con questa e vedrai che non ti mordono.»
Mungo si sfregò le gambe nude finché non divennero verdi e lucide di clorofilla. I moscerini non ne sembravano affatto scoraggiati.
St Christopher sbucò claudicando dal limitare del bosco. Si lasciò cadere per terra sulla sponda del lago e affondò i piedi nell’acqua gelida. Con le sue ossa spigolose e il tweed grigio della giacca, avrebbe potuto essere scambiato per una delle tante rocce disseminate lungo la riva.
Fu Gallowgate a dirigere l’allestimento del campo intorno alla buca per il fuoco. Si tolse il bomber all’ultimo grido e jeans firmati gli si bagnarono immediatamente mentre in ginocchio svuotava le varie sporte di plastica. Estrasse dallo zaino due leggere tende da campo e montò la più grande, da due posti, all’interno del rifugio diroccato. Quella singola la picchettò dal lato opposto dell’accampamento, su un tratto di ciottoli asciutti, come se volesse piazzarla il più lontano possibile dall’altra. Mungo lo aiutò a piantare i picchetti ricurvi nel terreno con un sasso. «Non dovrebbero essere più vicine, le tende?»
Gallowgate guardò il ragazzo e scosse la testa. Il suo sorriso avrebbe dovuto essere cordiale, in apparenza, ma era completamente privo di calore, e Mungo ebbe l’impressione di vedere un lampo di minaccia attraversare le sue labbra sottili. Forse, come a Hamish, non gli piaceva che la sua autorità venisse messa in discussione.
«No. Meglio stare a distanza dal fuoco» rispose Gallowgate. Poi tornò a occuparsi del tirante. Lo fece vibrare per verificare che avesse la giusta tensione. «Non le vuoi vedere le stelle?»
Estratto da Il giovane Mungo di Douglas Stuart, pubblicato da Mondadori, traduzione di Carlo Prosperi.