La Romania ha poco più di un secolo. Comprendere la Romania significa comprendere che, per molte persone, non è Romania. Un tempo, era molti posti e molte cose per molte persone diverse.
Le civiltà rurali che oggi formano questo Paese sono state disgregate, divise, dominate e domate per secoli. Per un certo periodo prosperavano, per un periodo più lungo guerreggiavano. I suoi confini sono stati fatti e rifatti, cuciti e impunturati nel tessuto delle sue comunità, lasciando cicatrici che ancora oggi danno forma al paesaggio fisico e psichico. Siamo partiti per il nostro viaggio dalla seconda città rumena più importante, Cluj, immersa nel verde intenso della campagna, e in auto siamo passati accanto a cupi isolati sovietici che saldano perfino la più piccola cittadina, ricordo dell’ultima occupazione del Paese, non tanto remota.
Arrivando a Sâncraiu, dalla nostra prima conversazione stentata abbiamo capito subito che la Romania odierna crea divisione: per coloro che ci vivono esiste una linea di confine. Qui vivevamo tra ungheresi, non rumeni, e la Transilvania apparteneva all’Ungheria, non alla Romania, ha dichiarato il nostro ospite István. Ci ha guidato intenzionalmente verso un libro plastificato nelle vicinanze le cui pagine, mentre le sfoglia, una sopra l’altra, illustrano con chiarezza la differenza tra il patrimonio culturale della Romania e quello dell’Ungheria. Questo è un territorio intriso di racconti, e c’è molto da raccontare.
Ascoltato e sentito. Riformulato e ri-raccontato. Un libro di immagini di grandi dimensioni. Una terra che si allunga davanti ad alte montagne ammantate di alberi. Enormi foreste. Ogni foglia una sfumatura diversa dal verde a rosso. Una selva di somiglianze e contrasti.
Spire di vapore si innalzano dai pentoloni sui tetti. Foschia fluttuante in sacche nitide. Tracce di brina. Rose potate alla perfezione. Singole file, alti fili d’erba, che si intridono dell’aria e del sole di ottobre.
Lungo la strada sorge una vecchia casa. L’epoca di costruzione e i nomi sono incisi su una cancellata di legno, tra i tulipani. Ogni finestra in cui si sbircia è risplendente di vasi in equilibrio pieni di marmellata. I cornicioni pesanti di ricordi e di attimi inosservati.
In corridoi rivestiti di pizzo, cavoli accoccolati. L’uva riempie intere ciotole. Ghirlande di aglio e granoturco riposano.
Una panchina fuori, sul davanti, il sorriso riluttante, l’espressione pensosa: lì una donna, dalla pelle invecchiata dal tempo, è seduta in ascolto.
Un fienile si innalza alla sua estrema sinistra, soffice terra fluttua dalla sua bocca. Galline si aggirano libere.
Pesanti carri si lamentano. Cavalli trottano su scarpe rivestite d’acciaio. La scena è pronta. Clip, clop, clack.
Entrando in quest’area geografica per vedere che cosa mi avrebbe dato, sono stata circondata dall’abbondanza. La mia mente ha iniziato a riempirsi di storie, mature al punto giusto per essere raccontate. Ogni cosa è reale. Mitica, carnale, misteriosa. La Romania è stata un’ammaliatrice impossibile da ignorare. Alcune cose si possono comprendere soltanto andandoci. Non dovevano avere senso.
Gioventù senza età
Siamo qui per una festa. Un pomeriggio luminoso e frizzante ci accoglie per la Vendemmia, un incontro annuale per il raggiungimento della maggiore età.
Catene d’argento indossate sotto il vestito tradizionale. Trecce di capelli chiuse da nastri, iPhone in mano, foulard annodati accuratamente intorno alla vita, mozziconi di sigaretta schiacciati a terra. I familiari si ritrovano mentre i ragazzi e le ragazze in età di cresima arrivano per sfilare nelle strade. Le ragazze si accalcano su un carro mentre i ragazzi montano a cavallo e perfino i ragazzini più piccoli che indossano maschere montano a dorso d’asino per seguirli. La tradizione poco alla volta sta scomparendo spiega una delle ragazze più giovani quando le chiediamo perché una di loro arrivi montando il cavallo del suo ragazzo. Alza le sopracciglia vistosamente.
Un cambio d’abiti e giri di ballo concludono questa effimera celebrazione della gioventù, e quando l’orologio scandisce le dodici si separano e si lasciano, fino alla prossima volta. Le giovani coppie vorticano sulla pista da ballo, mentre molti altri più anziani siedono a bordo pista e guardano. La sera sorseggiamo acquavite e mangiamo ciorbă, il piatto tipico della Romania fatto di brodo acidulo, carne e verdure di stagione. Mentre i giorni trascorrono, rimescolo il contenuto della mia scodella e i miei pensieri, centellinando ogni cosa.
Ripensandoci, quella cerimonia ci era parsa fuori luogo nel nostro viaggio. Non sono sicura di sapere perché, fino a quando non mi rendo conto che la risposta va cercata nel mare di giovani volti che abbiamo incontrato. Per quell’unico giorno, la fontana della giovinezza del villaggio. Qui lo spopolamento è molto evidente: i giovani crescono, raggiungono l’età adulta e se ne vanno. Gli uomini e le donne con i quali parliamo raccontano dei loro figli e delle loro figlie che vivono a Bucarest, la capitale della Romania, o perfino all’estero, in altre città.
In viaggio per Maramureș. Nella gola dei formidabili Carpazi, montagne le cui cime hanno scongiurato molte invasioni che interessarono le terre della Romania senza montagne e non altrettanto fortunate. In automobile ci arrampichiamo e discendiamo orizzonte e storia. Dietro, attraverso e al di là dei boschi, c’è legname ovunque, la linfa vitale della Romania.
Vita senza morte
Terreni boscosi, chiese di legno, croci di legno nei cimiteri. Tronchi, ceppi, assi, pioli, bastoni, fusti. Intagliati, abbattuti e piegati. Ci hanno detto ovunque che il legno è della massima importanza, ha creato e protetto questa nazione di successo e autosufficiente. Mentre guidiamo e ci spingiamo ancora oltre, dal mio sedile del passeggero noto un numero incalcolabile di nidi di cicogna abbandonati, corone di rami in cima a piloni di cemento.
Con Karin, la nostra guida locale, scopriamo i manufatti culturali e religiosi nelle quattro valli di Maramureș, Viseu, Iza, Cosău e Mara e tra molti racconti apprendiamo il complicato processo di edificazione delle iconiche chiese di legno della regione. Tradizione vuole che il legno sia tagliato all’equinozio di primavera, sia benedetto da un sacerdote e lasciato asciugare per sette anni. Ammiriamo una chiesa eretta nel 1643, ancora intatta e possente. I caratteristici campanili alti e sottili, eretti su pietre di fiume, sono ricoperti da tegole di legno, ben sessantamila. Ogni cosa è fatta a mano. Non avevamo nient’altro dice Karin, facendo spallucce, così abbiamo usato il legno.
La lunga sopravvivenza di queste chiese si deve alla loro fabbricazione. Quando arrivarono gli invasori mongoli, tatari o musulmani, le chiese furono spostate. I loro incastri di legno sono realizzati come tessere di un puzzle, un antico sistema che permette a un luogo di devozione di essere completamente smontato e rimontato in un luogo più sicuro. Anche le recinzioni e le case di legno sono progettate in questo modo.
Ingegnosa e resiliente, la chiesa di Maramureș incarna lo spirito del popolo rumeno e la sua ossessione per la difesa, dice Karin, e ci racconta che cosa si nasconde nell’iconografia tradizionale e nelle decorazioni all’interno di queste stoiche mura giganti e che cosa è stato tralasciato. A Maramureș, si scopre la magia, riflette Karin trepidante, la più importante, quella scolpita nel legno.
Camminiamo varcando porte sacre intagliate in alto con vari simboli. Il seme della vita, la doppia fune, una spirale, l’ouroboros – un serpente che mangia la sua stessa coda. Entrando in una chiesa vediamo una porta intagliata con una geometria sacra mistica: in alto, sul soffitto, Gesù è circondato dal Sole, dalla Luna e dallo zodiaco, in sostituzione di più consueti cherubini e aureole.
We walk through sacred portals carved above with symbols. The seed of life, the double rope, a spiral, the ouroboros snake eating its own tail. Entering one church we see a doorway fixed with mystical sacred geometry, on its ceiling Jesus surrounded by sun, moon and the zodiac: replacing the customary cherubs and halos.
Karin spiega che quella di Maramureș non è una comunità religiosa normale. Radicata saldamente nel Cristianesimo ortodosso, presenta elementi di antiche credenze, usanze e superstizioni che poco alla volta hanno attecchito nell’universo del sacro. Si tratta di simboli pagani in una chiesa ortodossa dice. Non è normale, non fanno parte della chiesa cristiana, eppure sono presenti. Non ho mai capito come potessero coesistere. O si è superstiziosi o si è religiosi. Karin assume un’aria perplessa e aggiunge che in qualche modo qui si è entrambe le cose.
Dopo chiese e monasteri, per un po’ abbiamo seguito la morte, visitando cimiteri, e siamo stati accolti per prendere parte a un funerale in un paesino. Un emozionante servizio funebre nel cortile di uno dei familiari del defunto si è svolto in grande tranquillità, in modo paziente e struggente, con versi e inni, mucchi di candele in cera d’api e doni edibili avvolti in sacchetti gialli di plastica, portati da un furgoncino bianco. Quella forma di commemorazione è stata bellissima. Abbiamo pianto mentre la celebravano.
Con un ultimo sospiro,
Rovina e Disperazione,
hanno abbattuto la casa, sotto un cielo immenso,
asse per asse,
una casa costruita sul terreno bruciato, una grande
recinzione di ferro con un cancello di ferro.
Questa è stata una nuova fine.
Buona parte della tradizione rispettata in Romania è andata perduta. La campagna non è esente da spinte alla modernizzazione provenienti dall’Europa dell’est in pieno immaginario post-sovietico. Per quanto folcloristico possa sembrare il nostro modo di visitare quei luoghi, l’invasione della modernità ha portato a desiderare il disincanto. Qui e adesso è normale bruciare le case di legno. Alloggiamo all’Hotel Village, una vivace ricostruzione storica che salvaguarda la tradizione architettonica rumena, fatta di case e mobili scampati al fuoco. Via il vecchio, dentro il nuovo. La tradizione poco alla volta sta scomparendo: la frase ascoltata a Sâncraiu risuona nelle mie orecchie. Vorrei coprirmi gli occhi completamente e tacere davanti agli sfrontati isolati di edifici della nuova tendenza. Molti non sono terminati, e si espandono adagio dentro e attorno Breb, la nostra base. Ma anche questo fa parte della storia.
Chiacchierando con la nostra guida Karin, un tema ricorrente conferma che la vita di un tempo poco alla volta sta abbandonando Maramureș. Molti artigiani e molte botteghe artigianali ci vengono descritti come gli ultimi. Ci dicono che stiamo vedendo ciò che resta. Nella stessa frase, però, Karin parla di un indomito tentativo di preservare tutto, di salvare ciò che è autoctono prima che svanisca per sempre. Non-ti-scordar-di-me. Una volontà precisa, dichiarata anche da molti altri che incontriamo.
Lungo la via incantata
Prima che arrivi il gelo invernale, chi vive in campagna in Romania passa le ore del giorno nei campi. Ci dirigiamo dunque in campagna per conoscere un signore del posto, Vasile Oanea, famoso per aver scattato istantanee alla comunità di Breb per decenni. Vasile Oanea è nel suo orto, e lavora al suo ennesimo covone di fieno. Il covone rumeno è diverso da quello occidentale: antropomorfici, i covoni di fieno sono disseminati ovunque, in ogni ettaro di terreno accanto al quale passiamo durante il nostro viaggio. I covoni rumeni svettano alti, fatti di rami e fieno, per nutrire il bestiame durante gli implacabili inverni senz’erba di queste parti.
Ogni covone è il trionfo dell’artigianato agricolo, gli si dedicano grandi cure, come Vasile è felice di mostrarci, intrecciando il fieno rastrellato attorno alla sua struttura in legno. Soltanto allora si inizia a fare il mucchio, sollevando il fieno con il forcone per poi pettinarlo alla fine per garantire che la pioggia scorra via. Per svolgere bene il suo lavoro, il fieno deve essere perfettamente asciutto.
Questi covoni, la preparazione dei quali si tramanda di generazione in generazione, sembrano apportatori di speranza. Li si innalza anno dopo anno per sostenere la vita. Le vestigia del passato continuano a essere onorate anche nel presente.
Si elevano allegramente
vicini,
uno, due, tre,
srotolano i loro arti,
raccolti per uno scopo più elevato.
Taglia-e-ritorna.
Il sole picchia forte e i rovi ritirano le loro spine,
un pavimento di nocciole e mele riempie il nostro campo visivo.
Piedi delle colline di una sfumatura viola.
Ortiche all’interno di muschiose falesie.
Piante sovrastanti, da foglie cadute, in boccio.
Un terreno d’abbondanza.
“Anche questo passerà” si racconta la storia.
Le stagioni sono cicliche, la morte dell’inverno non è la fine, precede la primavera, l’inizio. Nella religione cristiana, Gesù muore per risorgere. In natura un albero perde le foglie ed è potato per facilitare i nuovi germogli. Una chiesa di Maramureș viene smontata per essere assemblata di nuovo, più solida. Forse, quando una cultura e tutto quello che essa comprende è portato quasi alla morte, trova invece nuova vita, ricresce, con un significato maggiore. Rinasce.
Per le tradizioni della Romania, la rinascita arriva dalla voglia di turismo. La gente arriva qui in massa, alla ricerca di fiabe, lupi, orsi, oro e castelli. Le favole spesso non hanno un lieto fine, ma questo dipende da chi le racconta.
Perché le tradizioni rumene abbiano un lieto fine, devono essere il progetto non soltanto di coloro che vengono a scoprirne la bellezza, ma anche del popolo e del governo della Romania. Sono loro a decidere che cosa sopravvivrà o si estinguerà. Ricordo di averne parlato con Karin, che con palese disappunto ha esclamato: Avresti mai pensato che la Romania non aveva nemmeno un suo sito web per il turismo?
Altra ciorbă, altra acquavite. Nei nostri incontri riceviamo tante informazioni, sparse ovunque adesso nella mia mente e da rimettere a posto in seguito. Perché raccontiamo favole? Al loro interno ci sono moniti, lezioni. Ispirano la nostra immaginazione. Ci aiutano ad affrontare le nostre paure. Ci incoraggiano a sviluppare un pensiero critico. Ci insegnano a vivere in un mondo dove bene e male coesistono.
La Romania è una favola vivente. Un equilibrio di luce e oscurità, bellezza fuori dal tempo, grande avversità, e determinazione. Con il passare del tempo, una favola è riformulata, ri-raccontata. Ascoltata e sentita in molti posti diversi da molte persone diverse.
Sotto la luna piena, nell’ultima notte che trascorriamo qui, mi addorme,nto al suono di un ruscello nelle vicinanze.
Tap, tap, tap.
È l’alba, mi sveglio e vedo che la portafinestra del mio balcone chiusa a chiave è spalancata. Un picchio bussa alla parete. Alcune cose potevamo comprenderle soltanto sul posto. Non dovevano avere senso per forza.