Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione non può mai sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tener gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedono tutte le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà. […] Quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino.1
A differenza del viaggiatore che, anche quando si sposta, non esce mai dal suo mondo abituale e quindi dalle sue abitudini, il viandante ci invita a esporci all’insolito dove è possibile scoprire, ma solo per una notte o per un giorno, come il cielo si stende su quella terra, come la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote, come la religione aduna le speranze, come la tradizione fa popolo, la solitudine fa deserto, l’iscrizione fa storia, il fiume fa ansa, la terra fa solco, in quella rapida sequenza con cui si succedono le esperienze del mondo che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e di disporle in successione ordinata, perché, al di là di ogni progetto orientato, il viandante sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia.
Camminando senza una meta all’orizzonte per non perdere le figure del paesaggio, il viandante scopre il vuoto della legge e il sonno della politica che ancora non hanno scoperto che tutti gli uomini sono uomini di frontiera. Qui cade l’abissale differenza tra il viandante e il viaggiatore che, avendo in vista solo la meta, non conosce l’intervallo tra l’inizio e la fine.
Per chi vuole arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio è nulla. Le terre che egli attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per arrivare, non per viaggiare. Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore l’esperienza che la via dispiega al viandante, che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio. […]
Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, così scrive: “Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: la costa scomparve – ecco anche la mia ultima catena è caduta –, il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo; orsù! coraggio! vecchio cuore!”2 […]
Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora il nomadismo del viandante ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l’apertura che chiede sfiora l’abisso dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare.
Gli anni che stiamo vivendo hanno visto lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se “morale” o “etica” vogliono dire costume, è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine in favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come etica del viandante.
È un’etica che non si appella al diritto, ma all’esperienza, perché, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel cielo stellato e nella legge morale3 che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione.
Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento dell’umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati che sono nel segno della de-territorializzazione.
Fine dell’uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell’uomo sempre meno soggetto alle leggi del Paese e sempre più costretto a far appello ai valori che trascendono la garanzia del legalismo. Il “prossimo”, sempre meno specchio di me e sempre più “altro”, obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito.
Fine del legalismo e quindi dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita di quell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico “cielo delle stelle fisse”, perché anche questo cielo è tramontato per noi.
E con il cielo la terra, perché è stata scoperta come terra di protezione e luogo di riparo. Tagliati gli ormeggi, l’orizzonte si dilata, il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento, come incontro della terra con il suo cielo: “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave!” scrive Nietzsche. “Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più ’terra’ alcuna!”.4
1 F. Nietzsche, Umano troppo umano (1878-1879), § 638: “Il viandante”
2 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885), tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, Parte III: “I sette sigilli (ovvero il canto ’sì e amen’)”, p. 281.
3 I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788), tr. it. Critica della ragion pratica, Roma-Bari, Laterza,1955, “Conclusione”, p. 199.
4 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., 1965, vol V, 2, §124, p. 129.
Testo estratto da L’etica del viandante © 2023 Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano.