La Domus Aurea in disfacimento di Barjac è cresciuta come una foresta, fatta di oggetti, di invenzioni, di reperti. Passeggiando, ti domandi di chi siano le mani che, in silenzio, con ostinazione, pazienza e temerarietà, dedite a un “interminabile giorno lavorativo”1, hanno dato forma a questo mondo impossibile, muovendosi nella notte dell’incertezza, quasi moltiplicandosi, per rispondere a un’urgenza espressiva. Memore di quel che aveva scritto Rilke al cospetto delle sculture di Rodin, ti chiedi: “Che uomo è mai?”2. Subito intuisci che si tratta di un individuo animato dal desiderio di “penetrare totalmente, con tutte le forze, nell’essenza umile e severa del suo strumento”3. Ho deciso, perciò, di andare a nord di Parigi. Circa trenta chilometri dalla capitale. Non lontano dall’aeroporto Charles de Gaulle. Direzione Croissy-Beaubourg. In cielo, il continuo e assordante suono degli aerei. Intorno, uffici e depositi di multinazionali di trasporti. Aria di periferia, che soffia come un benefico veleno, una “medicina famigliare e tuttavia estranea”4. Un’anonima zona, con marciapiedi deserti. Lunghe arterie di periferia, percorse solo da automobili. Il taxi mi lascia all’ingresso di uno strano complesso industriale. Dove mi trovo? Al di là del cancello, vedo serre piene di opere, gabbie con frammenti eterogenei, aerei grigi dismessi. In fondo, due freddi padiglioni, alti quanto un palazzo: circa venti metri. A quelle architetture prive di ogni abbandono decorativo sono stati attribuiti i nomi di due tra i protagonisti del poema Gilgamesh: Enkidu e Ninsun. Varco l’ingresso, e mi trovo in un’immensa distesa – come una piccola città. Circa 36.000 metri quadrati, tra strade, viali, piazze, incroci. Sei preso subito da sentimenti diversi: stordimento e ipnosi. Passeggi, ed è come sfogliare le pagine di una divagante epica di pietra. “Ecco come potresti descrivere i tuoi atelier: non sono giganteschi e nemmeno immensi, ma grandi esattamente quanto basta perché i cani credano di essere all’aria aperta”, ha detto, con un misto di affetto e di ironia, Ransmayr in dialogo con Kiefer5.
È, questo, lo spazio di cui Kiefer ha bisogno, conseguenza del respiro cosmico della sua poetica. Tra queste mura si nasconde ogni giorno, per dimenticare la notte che pesa, con i suoi presentimenti. Quotidianamente, egli celebra qui una liturgia sempre uguale ma anche sempre diversa, indossando un abito di scena classico: un camice semplice, come una tonaca su cui si depositano schizzi di colore. È nel rifugio di Croissy che si manifestano i suoi gesti prometeici, inseguiti durante giornate passate a raccogliere, a selezionare e a interpretare presagi. Nella consapevolezza che, dietro la vita, si nascondono l’assurdo, il delirio, la mancanza di significato.
Sono in una sorta di fabbrica dove, in solitudine, da diversi anni vive e lavora un artista che ha confessato: “Non smetto mai di essere affascinato dagli spazi abbandonati, dal vuoto claustrofobico, dalle fabbriche dismesse, che continuano a essere piene di mormorii e di tracce degli operai che vi lavoravano. Scopro delle somiglianze con i miei quadri quando infine, dopo essere stati coperti di fango e acqua, sembrano ritrovare la pace, sebbene portino ancora su di sé le tracce della disperazione, dello sforzo, del fallimento e la cui superficie è il riflesso delle guerre perdute. Un vero e proprio campo di battaglia”6. E ancora: “Gli ambienti industriali mostrano un groviglio di tubi e di condotti che mettono in collegamento i diversi elementi, in un costante va-e-vieni di flussi, le cui diverse funzioni sono difficili da capire per uno spettatore”7.
Trascorrere qualche giornata nel mondo di Kiefer – solo nel mondo di Kiefer. È un’esperienza molto diversa rispetto a quando si vedono i suoi quadri e le sue sculture in un museo, in una galleria o nella casa di qualche facoltoso collezionista. Solo a Croissy puoi quasi aderire alla tensione muscolare della mano che dipinge, scolpisce, allestisce. Qui hai davvero la possibilità di abitare in maniera intima, dall’interno, l’universo di un pittore che non ha mai smesso di sentirsi straniero al mondo e ai suoi commerci, incline a proteggersi nel silenzio del mestiere, lontano dalle dinamiche della realtà. È qui che Kiefer pensa, studia, scrive, crea, conserva, distrugge, corregge, reinventa, cancella. Accedi al luogo dove sostanze diverse vengono ininterrottamente assemblate in opere maestose. Sei nel tempio dove si svolgono le avventure dell’iconoclastia, “il conflitto sulle immagini”8. Vi “circolano le idee ereditate dai secoli passati” che, quando si lambiscono in un inafferrabile punto, producono quella “sorta di cristallizzazione chiamata Arte”9.
Si respira il senso della vastità e, insieme, una segreta intimità. Forse, potrà sembrare paradossale. Ma, anche se in maniera ipertrofica, questo studio ha qualcosa del leggendario atelier parigino di Giacometti, al numero 46 di rue Hippolyte-Maindron. Una specie di antro, abitato da uno scultore solitario, impegnato a interrogare un numero ridotto di figure e di temi, privati di ogni abbandono aneddotico. Un ambiente che vibra: le precarie pareti sono piene di graffi a matita e a carboncino lasciati in maniera casuale, come solchi su una caverna o fogli di viaggio. Un po’ ovunque, ammucchiati, personaggi filiformi, dolenti, consunti, eternamente incompiuti, come piccole larve allungate. Qui, ha ricordato Michel Leiris, è possibile “credere che l’atelier ingombro di una profusione di oggetti che vi si fabbricavano non fosse soltanto teatro di lavoro e spunto per motivi da trattare, sebbene per degli sfondi, ma potesse all’occasione collaborare pienamente con colui che ne aveva fatto a poco a poco un annesso della sua persona”10.
Sono, queste, parole che affiorano alla mente quando si va a Croissy. È come entrare in una macchia del tempo. Si sente la frenetica tessitura della storia, che viene sottoposta a interminabili riscritture e riarticolazioni. Un serbatoio di reperti dissepolti e offerti a noi, viandanti smarriti. Croissy come geroglifico della testa del pittore, allora. “È una sorta di modello, l’atelier di Croissy, un modello del mio cervello. Di sera cammino tra gli oggetti e i dipinti e certe volte si stabilisce una nuova connessione nel mio cervello”11, ha detto Kiefer. E, poi: “Camminando tra questi spazi, ritroverete i ricordi che si sono depositati in me, registrati nelle mie cellule”12. Sei in una sorta di dilatazione dell’invisibile stanza interiore del pittore, attento a far coincidere volontà e opera, incline a muoversi tra suggestioni, strumenti e materiali, tra dubbi, ripensamenti, tremori e incertezze. Un palinsesto di dissonanze. Che, in alcuni momenti, ricorda da vicino lo studio-discarica londinese di Francis Bacon, a South Kensington. Uno sfrenato disordine. “In posti troppo ordinati non riesco a lavorare, mi risulta molto più semplice dipingere in un luogo come questo, che è in disordine […]; quando comincio, posso avere delle idee, ma la maggior parte del tempo, ho soprattutto l’idea di fare, e questo non ha niente di molto ordinato nella mia testa: rispondo a un’eccitazione. […] Questo disordine qui […] è un po’ la stessa cosa di quello che è nella mia mente ed è forse una buona immagine di ciò che succede dentro di me”13, ha detto Bacon.
Ma non solo. Cammini, ed è come smarrirsi tra i sogni e le intenzioni di un pittore. A Croissy, si coglie il senso di quella che resta una nostra ineliminabile, quasi ontologica, condizione: siamo condannati a essere nel progetto. La vita di ogni uomo è sempre segnata da quell’inclinazione a pianificare, a discutere, a cancellare, a rivedere e a riarticolare ipotesi che conduce verso una dimensione parallela ed eterogenea, disconnessa e fuori sincronia rispetto al normale scorrere del tempo. Si tratta di esercizi di pre-visione, che ci sottraggono alle tentazioni del finito e agli obblighi della comunicazione. Proposte che hanno l’ambizione di modificare il ritmo lineare del mondo, annunciando un avvenire possibile, diverso.
A questa tensione utopistica rinviano i tanti piccoli indumenti che ho visto a Croissy. Vesti talari fatte di piombo. E tante camicette cucite in base ai modelli forniti dall’artista a una sarta algerina: alcune hanno le dimensioni di neonati o di bambole, altre sono poco più grandi del dito di un bambino. Sono gli abiti dei non-nati, come ama ripetere Kiefer. Una comunità invisibile, ignota, misteriosa. “È meravigliosa […], ha scritto Ransmayr, la pura possibilità, tutto ciò che attende di essere creato, realizzato, completato, qui, nella nostra vita e lassù, nello spazio, meravigliosa”14.
1 R. M. Rilke, Rodin, cit., p. 66.
2 Ibid., p. 13.
3 Ibid., pp. 66-67.
4 A. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2023, cit., pp. 182-183.
5 L’affermazione di C. Ransmayr è in A. Kiefer, Paesaggi celesti, il Saggiatore, Milano, 2022, cit., p. 210.
6 Id., L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit., p. 155.
7 Ibid., p. 189.
8 Ibid., p. 173.
9 Ibid.
10 M. Leiris, Sul rovescio delle immagini (1980), SE, Milano, 1988, p. 97.
11 Id., Paesaggi celesti, cit., p. 165.
12 Id., L’arte sopravvivrà alle sue rovine, cit., p. 175.
13 F. Bacon, Conversazioni con Michel Archimbaud (1992), Le Mani, Recco, 1993, pp. 76-77.
14 C. Ransmayr, Radiosa fine / Il non nato, trans. G. Giri, Macerata, liberilibri, 2009, cit., p. 77.
Testo estratto da Prologo celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer © 2023 Giulio Einaudi Editore.