Ormai i nostri viaggi incedono tra disfatte e miracoli. Miracoli di una scoperta temeraria alla luce della strada, disfatta di un mondo sotto il controllo di una globalizzazione devastante della diversità, tra altre seccature. Tale è l’operato della civilizzazione che ci immerge in un’epoca nuova: l’Antropocene. Non vi è più possibilità di fuga. Non vi è più una scappatoia culturale e geografica. L’Homo industrialis è ovunque, condiziona l’universo. Se ormai è possibile mangiare un hamburger tanto a Parigi quanto a Pechino, se ormai ci si può collegare ovunque ai propri social network, perché continuare a viaggiare? Rinunciare a un’abitudine condizionata dall’industria turistica, facilitata dalla tecnica e così ben integrata al capitalismo non è semplice, ne dobbiamo convenire. Ma, al di là dell’automatismo determinato dal mercato mondiale, la tentazione geografica dipende forse da una struttura antropologica tanto antica quanto lo è l’Homo sapiens. La seduzione del viaggio è radicata dentro di noi.
Pare dunque irrealizzabile abolire i viaggi, percorsi che apportano significati particolari, per il fatto che ormai si tratterebbe solo di turismo. Tuttavia, quest’ultimo ne rappresenta una manifestazione imprescindibile, conforme alle abitudini contemporanee che fanno del viaggio qualcosa che si autogiustifica, dotato di un magnetismo particolare: in molti sono travolti dal desiderio di viaggiare e considerano il fatto di viaggiare per viaggiare un’azione motivante a priori. Il viaggio vale la pena, non ha bisogno di altre giustificazioni esteriori.
Al di là della motivazione individuale, è in atto un processo socio-storico, frutto di una progettazione precisa che si fa carico del desiderio di viaggiare per organizzare materialmente il viaggio. Il turismo è a uno stesso tempo un desiderio alimentato dai promotori del mercato, che prospettano un immaginario particolare del mondo, e un modo di organizzare la realtà per renderla attraente e accogliente. Si può facilmente constatare una rifinitura turistica della realtà, tradotta in luoghi determinati da e per l’industria turistica.
Ad aver permesso il ricorso generalizzato all’altrove sono state alcune condizioni particolari: per esempio, per rendere praticabili e attraenti gli spostamenti, è stato necessario alleviare, o per meglio dire eliminare, la fatica fisica dello spostamento stesso, eliminando le incertezze e i pericoli, rendendo sicuro il mondo per garantire una buona circolazione delle persone sul terreno, sull’acqua, in aria. Per aumentare il piacere e non scoraggiare la domanda, spostarsi non deve più essere una fatica fisica o psicologica. Quest’ultimo aspetto si attiene all’isolamento dovuto all’esilio temporaneo che la lontananza presuppone. Le nuove tecnologie l’hanno ridotto pressoché a zero, mantenendoci sempre [collegati alle] nostre reti, ovunque andiamo. L’industria del turismo, aiutata dagli operatori urbanistici del territorio, si è fatta carico di controllare gli itinerari, di concepire gli spazi appositi, di proporre le tecnologie adeguate. I poteri pubblici e gli operatori privati vi si sono impegnati di comune accordo, convinti dall’attrattiva del guadagno. E così, se il viaggio spera di attraversare la realtà per scoprirla, tutta curve e ammaccature, a rischio talvolta di scontrarvisi, il settore turistico promuove adesso i suoi scenari, costruiti secondo parametri conformi alle norme della comodità, della qualità e della sicurezza. Il turista è il cliente del sistema turistico che si articola in linee di circolazione, luoghi di transito e di soggiorno. Dei tre elementi principali di attrazione di questo sistema – il luogo, le infrastrutture e le attività –, soltanto il primo non sempre è facilmente delocalizzabile1. Per altro, è proprio il luogo a subire gli eccessi della frequentazione turistica, senza che sia facile trovargli diversivi. A quei tre elementi potremmo aggiungere il turismo eliotropico di coloro che amano il Sole, o quello di coloro che amano il suo contrario, comune tra chi ambisce a fuggire dalla canicola. Tra questi motivi d’attrazione vi sono molteplici combinazioni che compongono un’offerta, il prodotto turistico. Questo sistema turistico è presente in tutto il pianeta. Si estende dal proprio domicilio alla destinazione finale e sono pochi i luoghi che non ne fanno parte. Chi si sposta deve essere trasportato e accolto in strutture conformi alle sue aspettative; a questa condizione, ognuno pagherà il prezzo necessario a beneficiare di tali agevolazioni.
Ci si potrebbe domandare, a questo punto, se il viaggio non vada oltre il turismo: sì, lo trascende, perché in teoria accompagna ogni forma di spostamento, poiché si considera il viaggio non soltanto un desiderio, ma anche il risultato dell’esperienza corporale, psicologica, sensibile e intellettuale legata al fatto di muoversi nello spazio, a prescindere dalle forme e dalle motivazioni dello spostamento. Il viaggio appare in verità una mossa dello spirito, un’esperienza particolare della mente e del corpo. In altre parole, è un’esperienza del mondo che le infrastrutture turistiche compromettono e che invece farebbero bene a preservare.
Teoria dell’evasione
L’attenzione data al viaggio tradisce un bisogno palese di evasione, che ha ispirato molteplici pubblicità che decantano i meriti e le bellezze di posti perfettamente accoglienti dall’altra parte del mondo. Tutto ciò appare assai banale. Tuttavia, ben prima che si stuzzichi questo desiderio, dall’avvento della modernità industriale, alcune persone dalle inflessioni alla Rimbaud hanno imboccato la strada per estraniarsi dalla loro quotidianità, col pretesto che la vera via si trovi altrove, come forse avrebbe detto per l’appunto il poeta francese Arthur Rimbaud. Questa affermazione per la cui la vera via è altrove rinvia, come in un’eco dialettica, a un’altra secondo cui la falsa via è qui.
Ricordiamo allora la seguente riflessione del sociologo Jean Duvignaud: “Dallo spostamento e dal cammino di iniziati e avventurieri deriva una riconquista dell’essere che si dovrebbe essere: vivere significa poter vivere al di là dei limiti e dei confini stabiliti dalla città o dalla civiltà. L’uomo civilizzato non è affatto adeguato alla sua essenza, e lo sa. Vivere fino in fondo significa varcare le frontiere, penetrare nel viaggio come in una matrice”. Questo brano di Esquisse pour le nomade la dice lunga sui sentimenti provati da coloro che, quando non era ancora un passatempo o una moda, percepivano tutta l’attrazione delle terre lontane e sapevano usare le loro gambe. Nei muscoli e nella testa avevano “la voglia di vivere fino in fondo”, vale a dire esplorare al massimo le loro potenzialità esistenziali, trasportati dalla voglia di varcare i confini che delimitano le frontiere della geografia, della società, dell’esperienza e del pensiero.
Una caratteristica dei tempi moderni è aver ispirato e lasciato che si esprimesse la voglia di uscirne. E di aver dato a quella voglia i mezzi tecnici per farlo, primi tra tutti in particolare la macchina a vapore e il motore a scoppio. È probabile che la violenza sociale della rivoluzione industriale e la coercizione che essa ha fatto pesare sulla vita quotidiana, perlopiù tramite il lavoro, abbiano reso quest’ultima detestabile agli occhi di alcuni. I movimenti rivoluzionari e sovversivi hanno rappresentato la dimensione collettiva di questo odio, mentre alcune iniziative individuali ne hanno comunicato la tendenza individualistica. L’una e l’altra miravano a un’emancipazione. I racconti degli esploratori circolavano già, apportavano nuove conoscenze, alimentavano il sogno. Le innovazioni tecnologiche facilitavano i trasporti, alleggerivano la fatica e le scomodità materiali e psicologiche. Si sono così venute a creare le premesse per tradurre i desideri in azioni e i sogni di viaggi in viaggi.
“Penetrando nel viaggio come dentro una matrice”, secondo la formula sessualizzante del sociologo Duvignaud, il viaggiatore persegue probabilmente una forma d’estasi, dovuta al fatto di proiettarsi fuori da sé, oltre i suoi consueti ambiti di riferimento. Più di ogni altra cosa, egli cerca una forma di iniziazione, una possibilità di rinascita, un’esperienza al termine della quale non ritornerà indenne. E questo, al costo di rischiare il peggio per avere il meglio. La trasformazione cercata dalla trasgressione dei punti di riferimento della quotidianità porta a quella che Duvignaud considera “una riconquista dell’essere che si dovrebbe essere”. Approccio esistenzialista che questa visione di un’umanità incompiuta parta alla ricerca di sé stessa, con la realizzazione del proprio potenziale alla fine. L’obbiettivo è raggiungere una completezza della natura antropologica e trovare, al termine dell’esperienza esistenziale del viaggio, una pienezza dell’essere. “L’uomo delle civiltà non è affatto adeguato alla sua natura, e lo sa”: ecco quello che distinguerebbe l’umanità moderna, che ragiona all’infinito e si affranca dalle istituzioni verticali create da Dio e dai monarchi. E per questo, esulando dagli obbiettivi, essa non regge più, e al tempo stesso cerca un posto nel mondo dalle frontiere più mobili, dalle tradizioni meno delimitanti, che lascino il posto alle avventure più azzardate.
Si comincia a questo punto a comprendere il combinarsi di forze specifiche necessarie alla potenza creatrice del viaggio. L’evasione attiene a questo triplice desiderio originale: 1) l’emancipazione dai punti abituali di riferimento – desiderio di evadere; 2) l’esperienza dell’ignoto – desiderio di conoscenza concreta; e 3) la realizzazione interiore, trasformatrice e creatrice di sé per mezzo dell’esteriorità – desiderio d’iniziazione.
Evasione e creazione – realizzare quello che si è in potenza, per natura, crearsi tramite quello che si sperimenta e si esplora. La disputa tra essenzialismo ed esistenzialismo non regge. Il viaggio li riconcilia avvicinando l’ignoto, dentro di sé e al di fuori.
Contro l’invivibile…
Il mondo del viaggio per forza di cose è un universo mobile. La coscienza, una volta in pista, diventa mobile e resta in attesa. Si nutre di incontri, visita altre forme di umanità, esplora la non-umanità della natura, incrocia uomini e animali, guada fiumi e respira esalazioni ai bordi delle strade. Se compie l’esperienza della diversità del mondo, il viaggiatore ne prova al contempo l’unità. La solidarietà. Ogni cosa è collegata. Dal grande fuori al grande dentro si instaurano scambi. Si dipana un’unificazione. Il viaggio, contrariamente a ogni apparenza, non è una dispersione spaesata. Quanto più l’esperienza si approfondisce, tanto più diventa una ricollocazione poetica dell’essere, di sicuro un po’ paradossale perché il movimento gli serve da filo conduttore e da radicamento. Il viaggiatore si scopre e si riconosce dietro la figura dell’estraneità, condivide l’umanità degli uomini e delle donne che incontra, avverte la presenza delle moltitudini arboree che premono da ogni lato del suo itinerario. Si addormenta con il rumore del mare nelle orecchie. Esposto, fuori dal suo domicilio, è attraversato dal mondo che egli attraversa. L’altrove diventa il qui, tra questi due termini la relazione diventa intercambiabile, ed essi non si contrappongono più in un contesto binario. Tra il viaggiatore e gli esseri che egli incontra, sui quali si posa il suo sguardo, sui quali egli adagia un’attenzione rigenerata, si instaurano rapporti. Si accendono percorsi. La strada è un divenire, noi esistiamo grazie ai nostri itinerari. Compongono la nostra biografia, le donano spazio. E allora, non siamo forse tutte e tutti viaggiatori?
La strada crea legami, mette insieme le diverse realtà, ne struttura anche l’unità. La strada insegna la sintesi, l’alleanza tra persone eterogenee; mi suggerisce che dopo essere uscito da me stesso, dopo essermi ritrovato al livello interiore, è giunto il momento di essere contemporaneamente fuori e dentro, vale a dire non del tutto fuori e non del tutto dentro. Essere tutto ciò a uno stesso tempo, e niente in via esclusiva, ancora una volta porta verso l’universale. Fare una sintesi tra queste posizioni, come nell’immagine circolare dello yin e dello yang. Diventare universo. Ecco, è questo. È a questa condizione indispensabile che il viaggio diventa una mutazione volontaria. A quel punto, il viaggiatore ascolta dentro di sé tutta la storia e le potenzialità umane, diventa quel “catalizzatore dell’universo” di cui parlava Antonin Artaud nei suoi “Messaggi rivoluzionari”. Accoglie il cosmo nelle sue viscere e scopre in esso l’uomo universale. Beninteso, non tutti i viaggi si concludono in siffatta luce. Forse, sarebbe meglio parlare di illuminazione. Si tratta dell’apice, del punto culminante della coscienza, rara e fragile, ma è sufficiente esservi passati accanto per esserne profondamente trasformati. Può anche succedere che da ciò emerga un senso della vita, la consapevolezza di un destino.
Allorché tocca terra, questa metafisica del viaggio si trasforma in un interrogativo cruciale: come posso essere e sentirmi a uno stesso tempo uomo di un mondo particolare e uomo di tutto il mondo? Questa nostra epoca di globalizzazione iper-mediatizzata rende generica questa domanda, con una forza inedita, anche se probabilmente è antica quanto il genere umano. Sono rari, tuttavia, coloro che per mancanza di acutezza e di senso della fatica si attardano sulle sue implicazioni antropologiche e filosofiche. Il viaggio, da tutta l’eternità, ci immerge dentro l’enigma sconcertante della nostra appartenenza al mondo. Si tratta di un enigma e la chiave per risolverlo resta in quel luogo fondamentale nel quale la coscienza e il mondo, l’interiorità e l’esteriorità, diventano tutt’uno. Il principio della partenza include quello del ritorno. La vera via è qui, oggi più che mai.
Ritorno a Terra. Nell’epoca dell’Antropocene, non c’è più una via di fuga possibile. L’unica via è affrontarla. Cambiare il mondo con spostamenti geografici non è più realistico, oggi. Dimenticare l’Invivibile in luoghi particolarmente organizzati, corredati da prestazioni di servizio, è una chimera della società commerciale. L’Invivibile ci agguanta, saturando i nostri bronchi di polveri sottili e i nostri tessuti cellulari di molecole di plastica, distruggendo la biodiversità, sconvolgendo l’atmosfera con implacabili eventi meteorologici estremi… Il turismo è a uno stesso tempo un sintomo e il responsabile della crescente invivibilità del mondo. Esercita pressioni sulle società e sui territori, sostituisce l’abitante con il visitatore e frappone ostacoli alla libertà di circolazione che si supponeva dovesse promuovere: pedaggi, tasse, quote, frontiere interterritoriali, tanti impedimenti che il turismo provoca nel tentativo di regolamentare i suoi eccessi e selezionare i suoi consumatori. Tuttavia, il turismo esagerato, termine che potremmo dire di moda, non è un fenomeno recente. È consustanziale al turismo non appena un luogo diventa attraente. Da molto tempo influisce su territori circoscritti: l’opera di Jon Krakauer2 intitolata Aria sottile, pubblicata in versione originale nel 1997, mostra che l’Everest è un luogo degradato da molto tempo da un numero eccessivo di alpinisti. Sono cresciuto in Francia, nel massiccio della Chartreuse e negli anni Ottanta alcuni luoghi conobbero problemi di presenze eccessive che sfociarono in gravi scontri. Ciò spinse le autorità a costruire alcune infrastrutture per gestire meglio i flussi dei visitatori: parcheggi, guardiole, barriere. Di conseguenza, quei luoghi furono oggettivamente trasformati e anche l’esperienza soggettiva che se ne faceva. Di nuovo oggi c’è che il turismo esagerato colpisce le capitali europee che non hanno più la capacità – o la volontà? o la possibilità? – di accogliere l’assalto dei turisti. Di conseguenza, non è più possibile ignorare le massime concentrazioni provocate dal turismo.
Se spostarsi è stato il gesto più decisivo del XX secolo che, come risultato, ha portato allo sviluppo di luoghi intercambiabili, la sfida del XXI secolo sarà quella di reimparare ad abitare un mondo reso vivibile e solidale. L’invivibilità avanza all’incrocio delle crisi sociali, ecologiche, economiche, sanitarie e psichiche. L’ecologia sociale apporterà le sue risorse. Il progetto contro l’invivibilità è immenso. Affronta la rigidità dei dogmi, sconvolge gli stili di vita, passerà attraverso la socio-diversità, vale a dire lo sviluppo di nuove modalità di convivenza.
Ormai, non resta che ribaltare l’ordine delle cose, uscire dall’incanto grazie al viaggio di ritorno: non facendo ricorso alla grande partenza verso terre siderali e sideranti, ma ritornando alla Realtà. Ritornare alla realtà come si ritorna alla ragione, per immaginare le vie di uscita dai vicoli ciechi dei consumi e della gestione del mondo. È indispensabile apprendere a fissare i luoghi a noi vicini, a reinterrogare le ovvietà, a disfarsi dei luoghi comuni abituali di una destinazione ideale all’orizzonte di un progresso chimerico e caricaturale. È proprio qui che è necessario pensare e agire, rimettere in discussione il nostro stile di vita, per immaginare in pratica gli altri. Il qui è anche altrove, perché non dimentica nessuno, coinvolge tutti, come l’altrove è un qui lontano. È proprio qui che dobbiamo far fronte all’invivibilità sempre maggiore del mondo. Con la pandemia, una soglia è stata varcata. L’allarme continua a suonare: dobbiamo ascoltarlo.
1 In effetti, se a seconda delle circostanze appare possibile sostituire la Sardegna alla Corsica, come in passato si è sostituito il Sahara libico al Sahara algerino, al contrario nessuna altra città potrebbe sostituire alla perfezione Venezia, Siviglia, Barcellona o Parigi.
2 Jon Krakauer, Tragédie à l’Everest, Paris, Presses de la Cité, 1998.