Da Milano a rue des Trois Frères Carasso 3, Marsiglia, che un tempo si chiamava Rue Jardin des Plantes. Da casa mia all’indirizzo dove nacque Antonin Artaud, lungo la costa che si dice azzurra, dormendo nelle case di artisti che scelsero la California d’Europa come base per il loro lavoro, nutrimento e paesaggio. L’idea è quella di un pellegrinaggio atipico e sbilenco: andare a visitare il luogo natale di Antonin Artaud dell’Himalaya, cresciuto tra Smirne e la Svizzera, Saint-Malo e Procida, la Parigi surrealista e la Berlino del cinema eroico, la Bruxelles granborghese e il Messico messianico, l’Irlanda e i tristi elettroshock di Rodez.
Nulla accade per caso, e infatti il più esplosivo dei viaggiatori nacque proprio nella città che fu teatro delle derive narcotiche di Walter Benjamin, il borgo degli irrequieti, di Rimbaud, e dei Surrealisti in fuga dal nazifascismo, che lì aspettavano di imbarcarsi per le Americhe. Il classico porto di mare, e difatti proprio lì finì i suoi giorni Nadar, non più il ritrattista della mondanità culturale parigina, ma il fotografo estremo e sperimentale, quello che scalava il cielo sui palloni aerostatici, e che a 79 anni suonati calava macchine fotografiche a Cap Pinède, per esplorare il silenzioso mondo degli abissi.
Quello che avevo in mente era un viaggio inteso come pratica devozionale, erratica e un po’ randagia, sghemba e fuori norma, non fatto per scoprire cose sconosciute, ma per andar a trovare amici sui generis, amici che ancora non conoscevo. Una gita picaresca insomma, e quindi fatta in due persone, perché da soli si è sempre un po’ vagabondi, e in tre si fa già famiglia. Ecco che Fabio Quaranta, oltre che designer illustre e sensibile poeta stilista, per un’estate si è fatto paziente oggetto di transfert multipli, quelli tra le mie mappe e il suo volante, tre la lenti delle polaroid e il paesaggio sotto i nostri piedi, tra i pastis, i rosè e la voce di Robert Wyatt che ci guidava come quella di una sirena.
Cinquecentotrentun chilometri si potrebbero percorrere in poche ore, ma l’idea era quella di un cammino frammentato in tante tappe, fatto a singhiozzo, fermandosi alla tana di Asger Jorn ad Albissola, riposando al Cabanon di Le Corbusier, e dormendo nella casa studio di Anna-Eva Bergman e Hans Hartung ad Antibes, un magnifico compound che sembra di essere alle Cicladi, ma disegnate dagli scenografi di 007. Un itinerario disegnato collegando tra loro una specifica collezione di dimore, ma compiuto stuzzicando il fato come nei primi film di Wim Wenders, tanti momenti selvatici on the road, non pianificati e non pianificabili. A conti fatti, l’idea di fondo era di inventarsi una versione scroccona e di lusso di Airbnb, e autoinvitarsi a casa dalla crème de la crème della riviera che fu. Non mi interessava la super Costa Azzurra raccontata da James Ballard, ma questi speciali spazi domestici, un accesso previlegiato ed esclusivo a queste intime barriere coralline. Doveva avvenire di notte, un turismo delle tenebre, per dirla tutta, per rinverdire i fasti della fotografia spettralista con ironia e malcelata convinzione. Piccoli crepuscolari enigmi scattati al buio, questo infatti è il racconto di un itinerario insonne; fuggire la chiarezza per illuminare tramite l’oscurità, sembra un controsenso, ma è invece uno stratagemma efficacissimo per evitare l’esotismo, la meraviglia, lo stupore, per negare ogni possibile distacco estetico, eliminare sul nascere quell’atteggiamento che tramuta le cose inclassificabili in rarità, le inscatola, le depotenzia, e le rende quindi innocue.
Tutte residenze private, tutti esemplari unici e speciali di una precisa categoria dell’abitare, un piccolo regesto di gusci e bozzoli, di carapaci autoriali, di rifugi dagli obblighi mondani, calcificazioni segrete, scritture privatissime. Croste, uova, membrane, placente, nidi, marsupi, l’elenco di metafore per descrivere queste residenze potrebbe non aver mai fine… per provare a spiegarle viceversa, si potrebbe parlare di case fabbricate come incrostazioni, edilizia granulare, o perché organica, o perché stratificatissima, sempre e comunque ad personam, come un tatuaggio.
Il senso di protezione e isolamento è quello dei bambini che si costruiscono la tana, ma qui al posto di due coperte e di un divano ci sono legni tagliati con l’accetta e cementi a presa rapida, o cataloghi di memorie visive centrifugate come a Villa Kérylos, supremo pastiche ellenista e buen retiro dell’archeologo Théodore Reinach.
Floridissime solitudini avventurose, come quelle religiose di Jean Cocteau, e i suoi affreschi nelle cappelle di Saint-Pierre des Pecheurs, a Mentone, o meglio ancora, a Notre-Dame-de-Jérusalem, nel mezzo del Fréjus. È difficile trovare scanzonati capricci ecclesiastici di tale caratura, e veder tanta libertà giocosa all’opera senza remore, tra santi e cristi, in un morphing sbarazzino e impossibile di epoche e stili diversi, che mescola passato presente e futuro, Matisse e Lascaux, Picasso, i fumetti di Milo Manara e il miglior Francesco Clemente.
Un’infilata di templi privatissimi e di paleoarchitetture, autonomie autarchiche al sapore di mare, rifugi coriacei come patelle. Non pensiate al ragno, la cui pazienza è tutta per la preda, ma alla perla, che rimugina la sabbia che s’intrufola nella sua tana, incapsulandola in uno sferico scrigno di madreperla. Che poi, quello che a me interessa davvero, è l’estrema dolcezza dell’essere uomini che raccontano questi regni personali, son tutte storie raccontate a se stessi, come uno che parla da solo, ma lo fa per così tanto tempo che mica bisbiglia, o balbetta incerto, anzi, mattone dopo mattone ecco fiorire un vocabolario di geroglifici, complesso e completo, come nei sarcofagi dei faraoni conservati a La Vieille Charité, a Marsiglia.
La riviera transalpina è tutto un fiorire di questi ripari rustici, frutti di un linguaggio solitario, paguri non replicabili, vestiti sartoriali per i desideri più intimi. Roulotte, caravane, camper, forse non ci avrete mai fatto caso, ma le parole che usiamo per nominare questi spazi di autonomia momentanea sono tutte di origine francese, e non sarà certo una casualità: qui il riferimento subconscio è il crostaceo, l’ostrica, le coquillage, l’escargot, il padrone indiscusso della costa, da Mentone fino a Sète. Restando a tavola, la Bouillabaisse è una zuppa di pesce tradizionale marsigliese, uno stufato di mille pesci, un trionfo d’aglio, pane, sughi, fumi e peperoncino; il principio è quello del minestrone, del chi più ne ha più ne metta, lo stesso con cui Asger Jorn ha customizzato la sua casa ad Albissola, che è stata la prima tappa di questo nostro cammino. Trattasi di grotta a cielo aperto, incontenibile giardinaggio realizzato incollando conchiglie su ogni superficie disponibile, dipingendo su ogni spazio stabile, orticoltura fatta di sassi, stalagmiti e colonne di ceramica isolante, di quelle che nei tralicci ad alta tensione evitano cortocircuiti devastanti. Casa, studio e laghetto sorgivo, un’oasi sulla collina, esempio sopraffino di ars topiaria inversa, che al posto di forzare la vita vegetale alla geometria, conduce l’uomo a farsi energia minerale, maestro di decorazioni geologiche.
Un viaggio di solito lo si fa per pulirsi gli occhi, raccoglier vento, celebrar l’aperto. Il paradosso è che noi si macinava chilometri per barricarci in case dove il fuori non esiste, l’esterno non è quasi contemplato, e non son quindi previsti sguardi verso il mondo: queste case sono capsule sigillate e autosufficienti, come rifugi antiatomici, hortus conclusus fatti e finiti. Se vi si incontrano finestre queste sono piccoli pertugi, buchi per far entrare la poca luce necessaria, come al Cabanon di Corbu, o se invece andate a trovare Hartung nel suo studio, lì al contrario le finestre sono così grandi che non ci son serrature, sono enormi quadri di vetro, telai giganteschi che incorniciano il paesaggio in un quadro, rendendolo immagine, e non cosa viva.
Casa Hartung è una mansion californiana, pura come un diamante di luce, accecante e spigoloso. Più che una casa studio d’una coppia di artisti, fa pensare a un centro di ricerca aerospaziale sofisticatissimo, anche se la piscina al centro del patio un po’ inganna. Non ha nulla a che fare con gli involucri organici, irregolari e butterati visti fin qui, ma se non nell’aspetto, di certo nell’anima è anche questa una casa spugna; il suo vero nucleo è lo studio, un hangar in miniatura tutto foderato da gocce di colore rappreso, dripping, spruzzi, proiezioni di autostima assorbiti dai muri per decenni, e che ora ti osservano come testimoni di un Big Bang informale.
L’avrete notato, queste fantasie domestiche sono scene diverse di un unico romanzo, son acquari di pesci diversi cha appartengono a una sola razza, progettisti utopici allevati nelle acque nel secolo ventesimo. È il viaggio mistico di chi sprofonda nella sua oscurità materica, ma mica per nascondersi, all’opposto, per capirsi fin in fondo, un po’ come l’autoreclusione di Jean Des Esseintes nel capolavoro di Huysmans: A ritroso, verso il futuro.