Un frammento

Testo di Davide Coppo
Fotografie di Delfino Sisto Legnani


A volte apre il cassetto della scrivania, ci infila il braccio fino al fondo e cerca la scatola. È di plastica blu, e si apre come uno scrigno. Dentro, una volta, doveva esserci un anello, c’è ancora un cuscinetto bianco. Era di sua madre. Però adesso non contiene più un anello ma un frammento di pietra marrone, di forma triangolare, con un rilievo rotondo al centro. Sono trent’anni che ce l’ha e che la tiene lì. Qualche volta quindi apre il cassetto e cerca la scatola, la trova, e si passa quel pezzetto di roccia tra le mani. Aveva dodici anni quando l’ha raccolto. Al sito archeologico di Teotihuacán, in Messico, nel DeFe. L’ultimo viaggio vero, e lungo, e avventuroso, che aveva fatto con i suoi genitori. Allora l’aveva messo in tasca come un ladro o un trafficante di reperti antichi e per tutto il resto del viaggio si era guardato le spalle, sia dalla polizia sia da altre presenze più misteriose. Aveva visto in quei giorni un telefilm che parlava di alieni e di Aztechi e di Maya, e c’era tutta una storia di contatti tra quegli alieni e quelle popolazioni del Messico, e lui non ci aveva capito troppo ma era rimasto molto colpito e pensava allora di aver trovato un pezzetto di magia.

Quando apre il cassetto della scrivania e cerca la scatola significa che qualcosa non va. Non è sempre una cosa precisa, ma lui lo sa che è così, perché prima arriva l’istinto e poi, solo dopo, la coscienza. Adesso lo fa perché ha consegnato un servizio fotografico che gli è venuto male, o magari non male ma sicuro non come avrebbe voluto, e poi la paga era stretta e i giorni di lavoro troppi pochi e allora lui ha lavorato nervoso, e anche ansioso, e non gli è riuscito di fare quello che voleva fare. Quando ha visto i primi provini ha pensato che con la post si sarebbe potuto sistemare qualcosa ma non molto, e lui poi non è abituato a farla e nemmeno troppo bravo. Gli sarebbe piaciuto che venissero bene così, al prima colpo o quasi, senza metterci troppo le mani a pasticciare.

Quando tocca quel pezzetto di roccia si estranea. Pensa a quando, da bambino, voleva fare l’archeologo, ed era sicuro che ce l’avrebbe fatta, cosa mai poteva fermarlo. Poi invece all’università non si era iscritto, perché la vita in quegli anni si era presa una sbandata strana, ed era andato avanti a viaggi in giro per il mondo, lavoretti di fotografia come assistente, poche pubblicazioni su giornali che però ancora pagavano bene, un mese o più per un servizio soltanto, e poi poteva contare su un supporto dei genitori che arrivava sempre. Si era trovato a trent’anni a decidersi di dover fare qualcosa per non vivere più di espedienti e fortune familiari, alla fine la fotografia gli era funzionata abbastanza bene: prima si era attaccato a una fotografa famosa di moda, poi si era messo a fare i primi lavori da solo, adesso ci guadagnava pure. Gli piaceva poco, però, perché gli erano toccati quei lavori per gli e-commerce in cui fotografava centinaia di vestiti appesi a delle grucce sotto le luci giuste, la Nikon sempre su un cavalletto immobile, a fare clic, clic, clic, e via così. 

Guillermo l’ha conosciuto la sera dopo, in cui ha pensato comunque ancora a tutte quelle cose lì e non è riuscito a scrollarsele di dosso. Sono sere che arrivano più spesso in inverno che nelle altre stagioni, a prescindere dal lavoro. È seduto in un bar in cui sa di poter andare da solo e starci bene lo stesso, si è messo al bancone e vicino a lui, dopo un’oretta buona, è arrivato Guillermo. Ha parlato con il proprietario del vino, poi si è girato e ha sorriso così forte che ad Alessandro è sembrato impossibile resistergli. Ha i capelli neri e ricci e una bocca grande. Ordinano una bottiglia insieme, Guillermo dice: io non so niente di vino, Alessandro allora gli fa un po’ di discorsi vaghi sperando che Luca, che è l’oste ed è diventato un po’ suo amico, non lo senta troppo. Poi sono usciti, hanno detto: andiamo in un club? E Alessandro ha cercato su Instagram un posto lì vicino, da andarci a piedi, che gli sembrava che ci fosse una serata. L’ha trovato, e la serata c’era. Sono finiti in bagno per pippare, la cocaina ce l’aveva Guillermo, ma si sono baciati subito. Dopo due ore in cui continuavano a rintanarsi in bagno, a baciarsi e pippare ancora, sudati e fuori di testa per gli ormoni e i tagli schifosi di quella busta, e gli altri battevano i pugni sulle porte e loro uscivano ridendo, Guillermo ha detto: io devo andare adesso, il mio aereo è tra cinque ore. Alessandro ha protestato, ma Guillermo ha detto ancora di no. Sembrava diventato severo tutto di colpo. A casa, Guillermo gli ha scritto su Instagram: vorrei essere con te. Lui ha detto: allora vieni. Non ha mai risposto.

Con Guillermo si scrivono per un mese, dicembre diventa gennaio e il freddo è forte uguale, forse di più. Si mandano foto e a volte si chiamano. Si eccitano. Alessandro va a trovarlo a Barcellona, dove Guillermo è per un lavoro. Lui fa il rappresentante di qualcosa, cose informatiche per aziende grosse, è un lavoro vero, e forse per questo Alessandro non lo capisce. A Barcellona scopano subito nella casa del Raval in cui sta Guillermo, che gli affitta un’amica. La notte parlano del Messico, e Guillermo gli racconta dell’architettura, dei pericoli della città, dei San Pedro che crescono alti come amaranto selvatico, di un posto vicino a Puerto Escondido con edifici progettati da Tadao Ando e Álvaro Siza e pieno di contributi dei migliori architetti del mondo. Alessandro pensava di saperne di architettura ma Guillermo è molto più esperto di lui, e non si vanta, quindi lo sta ad ascoltare come un bambino ascolta le storie di un adulto. Ti piacerebbe da morire, dice. Anche quella volta Guillermo deve partire, però la sera gli dice: potresti venire con me a Città del Messico. Alessandro ci dorme sopra ma si sveglia ancora eccitato all’idea. Pensa: se queste cose non le faccio adesso. Torna a Milano, attende una settimana e prenota un volo. Scrive a Guillermo: l’ho fatto. Guillermo gli risponde dopo sedici ore: ti aspetto.

Alessandro ha paura ma è felice. È la prima volta che fa una cosa così stupida e gli sembra finalmente di avere uno scopo e una commissione che non sia solo il lavoro, sopravvivere, pagare i debiti, ma qualcosa che gli piace davvero. Qualcosa per cui vivere. Arrivato al Benito Juárez Guillermo non gli risponde per due ore, Alessandro non ha una sim messicana per cui aspetta dentro dove può usare il wi-fi. Poi gli scrive su Instagram, gli dà appuntamento in un bar, dice: sono qui con degli amici, raggiungimi, poi però staremo fuori. Lui ci arriva in taxi con un borsone nero che pesa una decina di chili. Il bar è bello, divertente e sporco al punto giusto. Parla con un’amica spagnola di Guillermo, ma con lui parla poco, perché il tavolo è lungo e stretto e Guillermo circondato da amici e amiche. Capisce lo spagnolo ma non lo parla molto. Sa che dormiranno insieme e più si avvicina la mezzanotte più vorrebbe dirgli: io vado, sono stanco. Oppure: dammi un po’ di attenzione, ho attraversato l’oceano per essere qui. Invece è Guillermo che si alza, gli si inginocchia vicino e gli dice: senti, voglio essere sincero, ma io non so se me la sento. Alessandro annuisce, dice: non c’è problema. A letto dormono nello stesso letto ma ognuno dalla sua parte, rigidi come estranei. Il giorno dopo, quando Guillermo è andato a lavorare in silenzio, ha fatto dei piani. Prenota un albergo, vicino all’Holiday Inn in cui stava con i suoi genitori. Chiama un taxi, si fa portare lì dopo essersi lavato con l’acqua fredda. Fa check-in, risale sul taxi e si fa portare a Teotihuacán. La Piramide del Sole è impressionante come la prima volta. Si ricorda dell’entusiasmo che aveva provato, che si era immaginato gli alieni al lavoro per costruirla, Aztechi e navicelle tutti uniti da quell’impresa. Ma non ci perde tempo: invece si mette a girare intorno ai templi più piccoli e si tasta nella tasca dei pantaloni la pietra che si è portato da casa, per trovare il luogo in cui l’aveva raccolta più di vent’anni prima. Anche questo è uno scopo, forse più importante di Guillermo. Non sembra funzionare: la roccia non combacia, non è nemmeno simile. Poi entra in una specie di corte, ascolta una guida tedesca che dice: Palacio del Quetzal… Non capisce la parola intera. Gli sembra l’illuminazione: i ricordi si ricompongono, e si rivede tra quelle colonne, bambino, a raccogliere il frammento di roccia. Passa un’ora e mezza a cercare tra le colonne la nicchia giusta che accoglierebbe il suo pezzetto. È color mattone, e le colonne sembrano le stesse. E poi cosa farebbe? Niente, si dice, è solo per mettere un pezzo al suo posto. Dopo tutti quegli anni, dopo migliaia di chilometri, dopo tutti quei ricordi. Non lo trova. Fa molto caldo e ci sono dei turisti che fanno canti e suonano tamburelli tutti vestiti di bianco e si arrampicano sulla Piramide del Sole. Gli tocca rinunciare.

In hotel i cuscini sono enormi, freschi come gli sembra di non averne trovati mai e morbidi da affondarci. Mentre si addormenta pensa che probabilmente in quei vent’anni hanno sostituito il pezzetto di roccia scheggiato, perché lui non è pazzo, la scheggia è lì, nella sua mano, e viene da Teotihuacán. Forse, pensa un’ultima volta, i ricordi sono esseri viventi con una vita tutta loro, che vivono dentro di noi come fossero parassiti. Come i batteri che stanno nello stomaco e che ci fanno digerire quello che mangiamo, scomponendolo, i ricordi si nutrono di quello che viviamo, e lo mordicchiano, e lo digeriscono, e quello che ne rimane può allora essere diverso da come l’avevamo vissuto la prima volta. Si addormenta senza sviluppare oltre quel ragionamento contorto.

Al mattino ordina la colazione in camera. Passa un’ora a riempire un quaderno di date, itinerari, voli aerei. Consulta i siti del “New York Times”  e di “Vogue México” e di decine di blog che millantano itinerari fuori dai soliti tracciati, infine prenota un volo per Oaxaca. Scrive a Guillermo: io me ne vado. Lui non risponde.

A Oaxaca tutti i ristoranti sono fissati con il mole. Cerca di evitarlo, ma si trova a masticarlo controvoglia, gli riempie la bocca e non ci fa il palato. Prende un taxi e si fa portare da dei mezcaleros a nord, fuori città. Beve molto quel pomeriggio, sente l’affumicato del liquido che gli riempie la bocca gli annega la lingua e per la prima volta da quando è lì si sente davvero bene. A Oaxaca, quella volta con i suoi genitori, aveva pranzato in un hotel di lusso mangiando pechuga de pollo empanizada e aveva vomitato tutto quasi subito perché l’aria condizionata era troppo forte, troppo fredda. Ha una sensazione di case colorate e chiese assolate, ma non riesce a richiamare niente dei suoi ricordi, e questo lo mette a disagio. Allora prende un’auto a nolo e si dirige in un posto che non aveva visto mai, a sud, verso Puerto Escondido, la città di quel film di Gabriele Salvatores.

Ma il posto fa schifo: è pieno di italiani tamarri con il sogno del Messico e della cocaina, brutti hotel e bar con la musica a palla. Un barista gli consiglia di andare più giù, in un paese che si chiama Mazunte. Riprende l’auto, sulla strada ci sono dei dossi pericolosi, alti e squadrati, li chiamano topes, e dicono che alcuni sono messi lì apposta dai bar disposti lungo la carretera o dai meccanici per spaccarti le sospensioni e costringerti a fermarti. A Mazunte ci sono meno persone, onde grandi, molti surfisti, tanta gente nuda, con culi e cazzi di fuori. Alessandro a questo punto è in balia degli eventi. Guillermo sembra appartenere a un’altra vita. Anche Città del Messico, con la sua sabbia vulcanica e le architetture moderniste e il traffico infernale. Una ragazza lo abborda al bancone del bar mentre mangia un’insalata. È americana. Dice: stasera c’è una festa qui vicino. Lui protesta: non ha ancora cercato un hotel. Lei gli dice che un posto glielo si troverà, di non preoccuparsi. Si chiama Laura e ha la macchina lì dietro, la vedi quella Opel. La festa inizia presto, perché anche il sole tramonta presto. Sullo schermo del cellulare si illumina una notifica di Guillermo, dice: scusa, mi sento una merda. Lui lo gira a faccia in giù. Dopo un’ora Alessandro è sulla veranda di questo hotellino che affaccia su una delle baie più belle che ha mai visto. Laura adesso è con un gruppo di sei persone, alcuni sono europei, e questa cosa, stupidamente, lo fa sentire a suo agio. Gli avvicina, tenendolo su un dito, un pezzetto di carta spessa e sfilacciata. Dice: mangialo.

Facendo il bagno, alcune ore dopo, lui si spaventa quando vede una macchia nera che sporge dall’acqua. Pensa a uno squalo, ma poi vede altri che urlano di gioia, saltano e spruzzano. La gobba è il carapace color mogano di una tartaruga: enorme. Sembrano tutti fatti, e anche lui inizia a vedere il mare più brillante, le palme che si muovono languide, le sue mani al rallentatore. L’entusiasmo di quella gente si spegne in fretta, perché la tartaruga è alla deriva, moribonda. Ha un becco grande come la sua faccia, sembra un mostro antichissimo e si lascia trascinare dalla corrente. Venti persone, forse tutte in acido, provano a girarla e spingerla verso il mare, ma non c’è verso. Alessandro prende coraggio, si avvicina e le mette una mano sulla testa, è rovinata come una vecchia statua. La tartaruga ha uno scatto improvviso. Ma è uno scatto di morte, e dopo quello si lascia trascinare verso il bagnasciuga. Anche lui sente qualcosa scattare, di rimando. Quando poco dopo esce dall’acqua gli gira la testa, non riesce a stare in piedi, e deve stendersi sulla sabbia, più in là, vicino alle palme e alle rocce che si affacciano dalla boscaglia. Laura non è in vista. Riapre gli occhi che il cielo è violaceo per il crepuscolo, sente la testa formicolare. Ora ci sono dieci persone in cerchio in un punto della spiaggia come in una riunione. Riesce ad alzarsi, ad andare lì vicino. Gli appare tutto lecito, tutto possibile, estraneo e allo stesso tempo familiare.

Infila la testa nel cerchio quando lo spettacolo è già iniziato, e tutti assistono all’evento in un silenzio religioso. Da un mucchietto di uova mezze sepolte escono centinaia di microscopiche tartarughe che corrono come pazze verso il mare. Non tutte. Alcune vanno dalla parte sbagliata, verso la giungla, verso i sassi. Moriranno. Nessuno le ferma. Proprio lì, in quel momento, Alessandro si accorge di non sapere dove siano i suoi vestiti, con le chiavi della macchina, il telefono e i documenti, ma è il vecchio frammento di tempio che in quel momento lo preoccupa di più. Sente un freddo rigido che dalla nuca si fa strada verso l’insellatura delle spalle. Fa per tornare alla veranda dell’hotel, ma gli viene difficile camminare, ha paura di schiacciare le tartarughe e l’acido lo rende scoordinato come un neonato. Si ferma. Una mano lo accarezza sulla schiena, tra le scapole, come un brivido. Anche Laura non sembra in sé mentre dice: è un miracolo.

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