Atavismi Del Gusto Sardo

Conversazione con lo chef Roberto Petza
Testo di Carlo Spinelli
Foto Luca De Santis
Set Design Kyre Chenven

Tutto potrebbe iniziare dalla magia, dal rito dell’acqua profumata di cui lo chef Roberto Petza mantiene ancora il ricordo d’infanzia. In un’antica terra dove il caldo brucia brullamente e nel frattempo si mescola alle tombe dei giganti e alle maschere Mamuthones della lontana cultura sarda agro-pastorale, un tempo le donne di casa erano solite raccogliere i fiori e le erbe aromatiche in campagna per profumare l’acqua mentre recitavano le loro litanie. Questo liquido veniva fatto poi macerare per una notte e il giorno successivo usato per lavar via impurità e malocchio a tutta la famiglia. Con le stesse erbe infine si preparavano zuppe e insalate, come in un circolo virtuoso. Questa storia è solo una pedina del grande gioco della Sardegna, altri incantesimi hanno da venire. 

Come la magia di aprire un ristorante nel nulla dell’entroterra di Cagliari, a Siddi, e scoprire improvvisamente di essere uno dei cuochi più affascinanti del mondo. Roberto Petza con il suo S’Apposentu incarna passato e presente dell’isola, ha nell’emoglobina le leggende millenarie della cultura sarda, ma anche il desiderio di trasformarle in cucina contemporanea. “Il mio sogno da piccolo era quello di continuare il lavoro di mio nonno, il falegname, ma i miei genitori ritenevano che fosse un mestiere troppo duro e pesante. All’insaputa di mia madre mi iscrissi quindi all’alberghiero. Dopo aver assaggiato il mondo, tra mezza Europa, Asia, Africa e Sudamerica, compiuti i 30 anni decisi che era arrivato il momento di tornare a casa, e portare avanti la mia rivoluzione nella cucina sarda!” Le tappe sono ormai note negli zibaldoni delle biografie Michelin: nel 1998 l’apertura del S’Apposentu a San Gavino Monreale, suo paese natale; nel 2002 apre poi a Cagliari e infine, ma per un nuovo inizio, nel 2010 si trasferisce nella regione storica della Marmilla, per iniziare quel percorso che lo ha portato a Siddi e alla sua cucina ricercata per il territorio. 

Petza sembra essere in questo momento l’unico cuciniere a voler spalancare veramente lo scrigno aureo della Sardegna, e a farlo esplodere. La metafora è forte: lui che scava a mani nude nella terra piena di vermi e fiori, terreno secco e sudore di animali, per scoperchiarne i tesori. La sua è una cucina che prende forma dalla sublimazione della cultura. Petza è un distillatore che ottiene solo l’essenza della cucina sarda, il meglio, dopo però aver sputato sangue nell’esplorarla e studiarla, nel setacciarla e custodirla dentro un alambicco. Come racconta lo studioso sardo Roberto Flore – che lavora ormai da anni al Nordic Food Lab dello chef René Redzepi a Copenhagen –, “ci sono tutti gli elementi in questa terra per sperimentare cose nuove, rievocando la magica tradizione”. 

Gli esempi abbondano per chi vuole osare: il casu marzu o casu fràzigu è il formaggio di latte ovino che mantiene in seno le larve della mosca casearia, per arricchire di proteine il coraggioso assaggiatore; il caglio di capretto cazu de crabittu è di origine neolitica ed è presente nella cucina sarda da più di 700 anni; il formaggio “fiore sardo” dei pastori in Barbagia, dalla forte personalità, a volte presenta asprezze organolettiche decisamente antimoderne, soprattutto quando è molto stagionato; l’intestino di pecora e il suo sangue, usati nei riti arcaici, da sempre puliti e fatti bollire. Invece, per chi ama il genere vampiresco, è prelibato il sanguinaccio di pecora, il sambeneddu delle zone interne dell’isola: il sangue si cuoce dentro lo stomaco della pecora, si aggiunge sale, il timo o altre erbe aromatiche, cipolle e pane carasau (richiamando storicamente le briciole di pane harasau, conservato dentro le bisacce dei pastori semi-nomadi); quindi viene fatto bollire ancora e cotto in pentola con la menta puleggio. Infine viene lasciato asciugare e stagionare per diventare un salume.

Se il casu marzu e il caglio del capretto sono afrodisiaci, rigeneranti e rinvigorenti, in passato il vino Vernaccia e l’ubriachezza erano i detonatori per gli atti divinatori, i sacrifici e le feste baccanali per scacciare i sortilegi o per accattivarsi i demoni. A Cabras dei paleobotanici hanno recentemente scoperto semi di vite di 3000 anni fa, dentro dei pozzi scavati nelle rocce dagli abitanti dell’epoca per conservare gli alimenti. In questi “protofrigoriferi” sono stati trovati anche noci, nocciole, semi di fico, pigne da pinoli, leguminose, carne di cervo… 

La cucina sarda è dunque adattamento estremo alla terra e Roberto Petza è nato e sguazza da anni in questo fermento millenario, un fermento che ama la fermentazione dei latticini, le cotture lunghe sottoterra come il maialino da latte, il porceddu, e la semplicità primordiale della fregola (semola, acqua e nient’altro) in brodo, piatto ormai scomparso dalle case delle nonne. In carta del S’Apposentu si riprendono queste meraviglie e le si adattano ai tempi, nei gusti e nelle tecniche di cottura, come i primi maniscalchi fecero col ferro appena scaduta l’età del Bronzo. In questa direzione va il gelato di casa allo zafferano, da cui lo chef crea un dessert nato dai pochi elementi dolci della tradizione sarda: lo zafferano, la ricotta delle formaggelle e il gattò/croccante di mandorle. Quanti ululati di invidia emergono dalle altre zone della Terra, dove gli ingredienti preziosi si contano a malapena sulle dita di una mano? Petza risponde fiero: “In un lavoro di qualche anno fa dei ricercatori dell’Università di Cagliari è emerso che in un comune del Goceano c’erano ben 57 tipi di piante utilizzate a uso alimentare. Gli esempi sono tanti e di certo non si può dimenticare s’erbuzzu di Gavoi, una zuppa fatta con l’utilizzo di venti tipi di erbe spontanee raccolte in primavera dalle casalinghe nella regione del Gennargentu”. 

Ma non solo prodotti dalla Sardegna, anche storie e storytelling, marchiature del gusto arcaico e marketing del folklore contadino, misticanze selvatiche e masticanze da menu stellati. È l’aspetto mistico, religioso e cerimonioso a incutere altrettanta curiosità nel rapporto ancestrale tra cucina/cibo e religione. Sempre lo chef di Siddi racconta dove sono i luoghi più energetici e misteriosi vicino al suo ristorante: “Sulla Giara di Siddi c’è una tomba dei giganti del XVI secolo a.C., mentre a Baradili c’è la fontana di Santa Margherita, scavata nella roccia in epoca nuragica; e infine c’è il Parco Sa Fogaia di Siddi, un bosco ai piedi di una reggia nuragica dove fino a due anni fa organizzavo una cena con amici da tutto il mondo.” 

Da qui, passare alle forze soprannaturali è un transito quasi naturale: la terra sarda ne è piena. Tradizioni religiose si intrecciano a credenze pagane, con il fil rouge della parola “cibo”, dando vita a riti rimasti illibati nel tempo: i falò alimentati dall’erba de piricoccu, detta erba di San Giovanni, raccolta al chiaro di luna e tenuta per un anno a scacciare l’invidia dall’ingresso di casa e alimentare poi il fuoco purificatore. Questo è un esempio che affonda le sue radici nelle piante tossiche usate in antichità per cacciare: la Euphorbia (lua) veniva utilizzata per uccidere anguille e pesci, da cui deriva proprio l’esclamazione parece alluao!, “sembri avvelenato” o in stato confusionale. O ancora l’epifania del su nenniri, il grano germogliato al buio dalle donne di casa durante la Settimana Santa e poi buttato nei dirupi; questa è una pratica collegata ai culti pagani e misterici del dio greco Adone. E poi, per continuare all’infinito, fuochi e maschere, cultura pagana e cristiana che si abbracciano di continuo, divinazione del dio Sole e del culto dell’acqua, fonti sacre in ogni angolo remoto della macchia mediterranea.

Si urla “Sardegna” e sottovoce emerge una cucina ancestrale fatta di riti e credenze da secoli, e che abbiamo quasi rischiato di perdere negli ultimi decenni, sotto le influenze della globalizzazione, del rifiuto delle origini e della voglia di stare al passo dei tempi, mistificando il passato. Roberto Petza continua nella sua ricerca per scoprire ed esaltare quei prodotti che fanno parte della dieta dei centenari, quella che contempla tanti legumi, erbe spontanee e carni poco comuni come la pecora, un patrimonio che purtroppo viene utilizzato solo in poche occasioni. Il suo è un investimento culturale per far capire che l’industria in Sardegna non funziona molto, bisogna investire nell’agroalimentare. 

D’altronde non esiste a caso la storia del demone Ammutadori, che agisce durante il sonno della preda provocando una sensazione di angoscia, soffocamento e oppressione nel malcapitato. Un tempo, proprio a causa sua, i pastori sardi avevano paura ad addormentarsi, magari all’ombra degli alberi, per timore di un’aggressione del demone che poteva strangolarli durante il sonno. Si pensava che questo fenomeno avvenisse al passaggio tra la veglia e il sonno, o viceversa. In questa fase particolare, il corpo si trova addormentato mentre la mente risulta essere ancora cosciente. Ecco, Roberto Petza non dorme più: lui i demoni del passato li cucina e li trasforma in pasto del futuro.

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