Geografia umana

In conversazione con Parag Khanna
di Jacopo Ottaviani 

Era il 2018 quando ho parlato per l’ultima volta con Parag Khanna del futuro del genere umano. A quel tempo mi trovavo a Nairobi, avevo una connessione wi-fi instabile e di certo a nessuno di noi venne in mente che prima della nostra chiacchierata successiva sarebbe potuta scoppiare una pandemia. Poi, mentre guidavo una motocicletta a Filicudi – una delle isole più remote delle Eolie – “Cartography” ha deciso che per me era arrivato il momento giusto per tornare da Parag Khanna e di parlare de Il movimento del mondo. Le forze che ci stanno sradicando e plasmeranno il destino dell’umanità (2021). Scopo dell’intervista, naturalmente, è chiedergli un’opinione aggiornata sulla situazione della società globale ed analizzare con lui le prossime grandi sfide e opportunità che il futuro ci riserva. 

JO: Ne Il movimento del mondo lei pone quesiti molto interessanti legati al concetto di mobilità, in cui si mescolano questioni pratiche e filosofiche. Le domande che lei pone sono di questo tenore: Perché ci spostiamo? Questi movimenti che cosa dicono delle nostre esigenze e dei nostri desideri? Dove dovrebbe andare la gente? Qual è la distribuzione ottimale delle persone nel mondo? In sintesi, come risponde a queste domande?  

PK: Perché ci spostiamo? Beh, per la loro stessa natura gli esseri umani tendono a cercare una stabilità sociale, politica ed ecologica. Siamo animali. Tutti gli animali inseguono queste stesse cose e ci siamo sempre spostati per trovarle. Per la maggior parte della storia della nostra specie siamo stati nomadi, di sicuro per almeno centomila anni. Soltanto nelle ultime migliaia di anni gli uomini sono stati abbastanza privilegiati da essere più stanziali che in passato. Chiedersi dove dovrebbero andare le persone è come chiedere quale debba essere la distribuzione ottimale degli esseri umani nel mondo. E per rispondere alla questione della distribuzione ottimale, ancora una volta dobbiamo ricorrere alla filosofia. La tesi che illustro nel libro è quella che definisco dell’“utilitarismo cosmopolita”, e sta a indicare un senso di fraternità e uguaglianza tra le persone che cerca di offrire i massimi benefici o welfare in modo equo alla gente di tutto il mondo. Per riuscirci, sarebbe opportuno che le persone si distribuissero in modo conveniente in aree stabili. La distribuzione ottimale presumerebbe una trasferimento in massa di miliardi di persone dalle aree maggiormente sottoposte a stress e che non si riprenderanno dal cambiamento del clima in direzione di habitat più stabili. Oggi dobbiamo organizzare questo.

Dal febbraio 2020 assistiamo a un tentativo globale e senza precedenti di imporre l’isolamento, finalizzato a combattere la pandemia. Come cambierà il settore del turismo, una volta messa sotto controllo la pandemia? In che modo i cambiamenti dovuti alla pandemia influenzeranno il modo di viaggiare e la frequenza degli spostamenti dei turisti? 

I viaggi d’affari sulle lunghe distanze diminuiranno di sicuro. Assisteremo anche a un aumento nella crescita e nell’intensità degli scambi commerciali e degli investimenti all’interno delle regioni dell’America settentrionale, dell’Europa e dell’Asia e a una evoluzione trasversale forse minore, con una conseguente necessità marginale di affrontare viaggi di lavoro sulle lunghe distanze. Anche il turismo si potrebbe concentrare in quelle aree, perché alla gente non piace la prospettiva di rimanere intrappolata lontano da casa, quanto meno per adesso. Alla gente piace viaggiare in luoghi stabili dal punto di vista ambientale ed epidemiologico. Forse, visiteranno quelle regioni da turisti o vi si stabiliranno, perché è preferibile traslocare in zone rispettose dell’ambiente invece che vivere in zone dove non si rispetta l’ambiente. Secondo me, i viaggi possono essere una sorta di prova generale delle migrazioni future.

Il cambiamento del clima, la pandemia ed altre crisi stanno mettendo a rischio la stabilità globale e innescano nuovi flussi migratori. Nei prossimi decenni quali aree ritiene che saranno più verosimilmente abbandonate? Dove si stabiliranno i migranti? Tra quanto si verificherà questo spostamento di massa? Perché pensa che i decision makers globali stiano procrastinando le soluzioni da prendere? 

Penso che sia evidente quali sono le regioni non più vivibili. Mi riferisco, per la precisione, a buona parte delle regioni africane, a molte aree dell’America Latina, a molte zone dell’Asia meridionale e del Sudest asiatico, che si tratti di regioni costiere a rischio per l’innalzamento del livello dei mari o di aree afflitte dalla siccità e dove c’è penuria di acqua potabile. A queste, ovviamente, si sommano poi le aree politicamente insostenibili a causa di guerre civili, conflitti internazionali, genocidi e così via. 

Le regioni verso le quali si stanno dirigendo queste masse sono, naturalmente, molto più stabili: il Canada, per esempio, accoglie i migranti in gran numero. Sotto l’amministrazione Biden l’America ha allargato di nuovo la sua politica per l’immigrazione. La Germania attira residenti provenienti da tutto il mondo, in particolare dal Medio Oriente e dai Balcani. Paesi come il Kazakistan stanno accogliendo anch’essi molti altri migranti e lavoratori. Singapore è una meta molto invitante, anche se è difficile esservi ammessi. Il Giappone non ha mai avuto così tanti stranieri residenti nel suo territorio come oggi. Ci sono molte mete verso le quali dirigersi, e quanto più i Paesi riformano e migliorano la loro qualità della vita e hanno mercati del lavoro più dinamici, più attività ed altro ancora, tanto più la gente vi si incamminerà.

I collegamenti sui social e le modalità di interazione si sono evoluti durante la pandemia da Covid-19. Oggi più che mai la gente usa piattaforme come Zoom o social come WhatsApp per restare in contatto e interagire. Anche il lavoro da remoto è ormai accettato in tutto il mondo come una nuova consuetudine. Come pensa che evolveranno queste nuove abitudini nei prossimi decenni? Che cosa ci riserva il futuro? 

Oggi si lavora molto di più in digitale e connettersi da remoto è la nuova prassi. Penso che questa abitudine abbia ricevuto una accelerazione durante il Covid-19 e ne subirà un’altra ancora negli anni a venire. Questo risolverà e ridurrà la necessità di buona parte dei viaggi di lavoro. In termini di evoluzione del paradigma demografico interesserà i giovani, paradossalmente – perché di fatto questa è una delle grandi ironie di questo mondo: le società che stanno invecchiando o si stanno spopolando più rapidamente sono quelle più vecchie nell’emisfero settentrionale, ma anche le più resilienti dal punto di vista del clima, come l’Europa, mentre le popolazioni più giovani sono concentrate in aree geografiche a maggior rischio ambientale, come l’Asia meridionale, il Sudest asiatico, l’Africa e il Medio Oriente. Questa è soltanto una parte delle discrepanze a cui dobbiamo porre rimedio.

Ne Il movimento del mondo lei parla di un cambiamento paradigmatico. Spesso parliamo di un mondo abitato da persone sempre più anziane, mentre nel 2020 i millennial e la Gen-Z rappresentano più del 60 per cento della popolazione terrestre. Come può influire questo dato su di noi e sul modo con il quale il nord del pianeta agisce e decide le politiche a livello globale?

Il nord del mondo, come lei lo chiama, agisce e decide le politiche a livello globale. Beh, quando si tratta di migrazioni le politiche sono più regionali che globali, quindi oggi assistiamo a molti spostamenti di asiatici in Asia, di europei in Europa, di nordamericani e latino-americani nell’emisfero occidentale. In quali nuove direzioni si sposteranno le migrazioni negli anni a venire? Io penso che in Europa, per esempio, arriveranno molti più asiatici dall’Estremo Oriente e dall’Asia meridionale che in passato. Al momento, in Europa occidentale ci sono soltanto quattro milioni di persone che lei definirebbe europei di origine asiatica, mentre in America vi sono 25 milioni di cittadini di origine asiatica. Prevedo che nei decenni a venire in Europa assisteremo all’arrivo di decine di milioni in più di indiani, cinesi, vietnamiti e asiatici, in linea generale, e di conseguenza mi sento di affermare che questa redistribuzione è già in corso in modo graduale.

Con la maggiore diffusione del lavoro digitale/da remoto, sempre più lavoratori “urbani” stanno prendendo in considerazione l’idea di abbandonare le grandi città e trasferirsi in aree più verdi e più abbordabili a livello economico. Alcuni italiani, emigrati in passato in Europa settentrionale, stanno facendo ritorno alle loro città di origine nel meridione dell’Italia, per esempio (creando una nuova categoria di lavoratori che noi chiamiamo “lavoratori del sud”). Quanto pensa che sia diffuso questo fenomeno a livello globale? Crede che potrà contribuire allo sviluppo sostenibile delle aree rurali? Sarà sufficiente per ridurre i flussi massicci delle migrazioni dalle campagne verso le grandi città e per ridistribuire le risorse?

Dalle aree rurali a quelle urbane e viceversa ci sono stati alcuni fenomeni migratori, se vogliamo. Per esempio, in India i muratori sono tornati nei loro paesi d’origine e si sono trasformati in coltivatori. Alcuni cinesi, colpiti da esaurimento professionale per le logoranti problematicità legate al lavoro in ufficio si sono trasferiti in villaggi e cittadine così da condurre vite più rilassanti. Assistiamo a questo fenomeno soltanto in parte, però, perché perlopiù la gente vuole trasferirsi in città, tenuto conto che la qualità della vita è migliore, la qualità dei servizi maggiore, gli stipendi e i salari sono più alti. Penso che, in ogni caso, vedremo ancora molte persone trasferirsi in città, ma queste ultime dovranno sapersi reinventare per diventare accessibili, per dotarsi di luoghi polivalenti, per avere più aree verdi, per offrire più comodità e via dicendo. Ci stiamo evolvendo in molti modi. Dove vivono le persone, come realizziamo edifici per accogliere chi lavora in ufficio o da casa: ecco questi aspetti potranno cambiare e cambieranno.

Ne Il movimento del mondo lei sottolinea che non è più possibile dare per scontata la stabilità nei rapporti tra le nostre varie categorie geografiche, quali la natura, la politica e l’economia, tra le forze più importanti ad aver caratterizzato la nostra geografia negli ultimi duemila anni, e a loro volta plasmate da essa. In che modo noi e i decision makers possiamo gestire questa complessità per circoscrivere le crisi future?  

Credo che la complessità del mondo nasca dal fatto che vi sono discrepanze oppure instabilità derivanti dallo squilibrio della geografia delle risorse, la geografia dei confini, la geografia delle infrastrutture e la geografia umana. È nostro compito riconciliare e riarmonizzare queste diverse componenti. Non esiste un ente centrale di governo incaricato di riallineare queste stratificazioni geografiche. Dovremo dunque farlo un passo alla volta. Come ho scritto nel mio libro, dobbiamo portare la gente alle risorse e la tecnologia alla gente. Si tratta di due missioni identiche e parallele, che richiederanno lo spostamento delle persone ma anche investimenti nelle tecnologie sostenibili, edilizia sostenibile, una produzione alimentare trainata maggiormente dalle tecnologie e altre cose di questo tipo. 

Nei suoi libri e nelle sue pubblicazioni lei usa molto spesso dati e cartine geografiche come strumenti che facilitano l’analisi delle complessità e la comprensione di come influire sul cambiamento globale. In che modo la cartografia e i dati geografici possono servire a destreggiarci nelle imminenti sfide del pianeta? 

Quando descrivo ai lettori i vari piani geografici sulle carte geografiche, invece che limitarmi solo a parlarne, quello che dico risulta molto più comprensibile. I dati ci aiutano in modo eccellente a geolocalizzare dove si trovano le risorse, dove si trova l’acqua dolce, dove vive la gente, quali tendenze prevalgono in termini di sfide che le aree geografiche devono affrontare per vari aspetti legati al cambiamento del clima. Abbiamo dati per ogni località. 

Occorrono dati diversi per questioni e sfide diverse in periodi diversi. Si può non sapere con precisione il valore di un dato terreno coltivabile, si può non sapere con esattezza quanto denaro circoli nel mercato nero o in quello grigio. Potremmo non avere accesso a questo tipo di informazioni. Potremmo non avere pieno accesso ai dati relativi alla mortalità infantile o ai livelli di istruzione in molti Paesi, ma in definitiva ormai possiamo fare stime di queste cose, possiamo calcolarle abbastanza bene, quindi non ritengo che i dati siano più un problema. Il problema è accettare e incorporare i dati e usarli in modo proficuo per varare politiche lungimiranti, usarli con fiducia per previsioni e pronostici per il futuro e consentirci di passare all’azione affrontando le sfide che ci si presenteranno.