Il giardino dei pixel

Testo e fotografie di Luca Trevisani

Un pixel è la particella subatomica che compone una figura digitale, il suo codice genetico, la sua matrice, la parte più piccola in cui può essere scomposta. Pixel, il neologismo più buffo e scontato del XXI secolo, è il risultato della contrazione delle parole inglesi picture e element, e rappresenta il punto luminoso più piccolo all’interno dell’impalcatura rettangolare di piccoli fuochi colorati che chiamiamo immagine. 

Il nostro paesaggio visivo, gli schermi, i display dei dispositivi, tutto si nutre di questi grani, di questa farina digitale che alimenta, impasta il diaframma tra noi e il mondo, o addirittura il mondo stesso, perché, tocca ammetterlo, oggigiorno il mondo è digitale, anzi, è mondo solo se è digitale. 

Niente di nuovo sotto il sole, in fin dei conti, l’eterno discorso della realtà e della sua rappresentazione. Ma il pixel è solo l’ultimo e il più fresco aggiornamento di un paradigma antico come il mondo, quello di creare immagini tramite l’assemblaggio di piccoli pezzi, dell’organizzazione e della composizione di disegni frammentati in sintagmi accumulati con ordine e rigore. Un pixel è un grumo discreto di colore e luce, posto all’incrocio tra una riga e una colonna, proprio come una maglia fatta all’uncinetto, o un punto croce, o come una tessera di un mosaico antico, o come dicono vedano le mosche, con i loro fari compositi, fatti di migliaia di piccole lenti, che catturano un angolo parziale e preciso dello spazio circostante.

Ecco, vedete, queste sono solo alcune note, appunti, aneddoti, tessere di quel collage chiamato mosaico, ma se volete davvero saperne qualcosa di più sull’universo della griglia, di come punti e forme vengono combinati tra loro per creare la nostra percezione visiva, sui chicchi che compongono la pelle di tutto, allora tocca che veniate a Tivoli, e che varchiate la soglia delle sue ville, che sono una coltivazione in vitro, su scala estesa, di pixel, di granelli, di una realtà parcellizzata.

Camminare qui non si può che farlo con lentezza, viene da rallentare, da assaporare ogni centimetro, ciascun istante, forse perché l’arte musiva è frutto di esplicita pazienza. Siamo in un mondo tenuto assieme con sforzo non apparente, e per osmosi ne respiriamo l’intima tensione. È il capolavoro dell’arte odontoiatrica, anzi odontotecnica, di un’impiantistica mite e scrupolosa che con calma orientale incide la pelle del mondo per inocularvi ovviamente non molari o canini, ma piastrelle di smalto di vetro, pezzi di marmo, frammenti di ceramica, conchiglie, e pietre preziose. Mi piace questa metafora del mosaico come apparato dentario, troppo spesso derubricato invece a semplice elemento decorativo, se non arredo opulento, e che invece è un manto su cui si giocano questioni d’amore e morte, potere e magia.

Convince, questa visione medico terapeutica, perché sottolinea quanto questi pavimenti romani che troviamo a Villa Adriana siano ingegneria naturalistica, consolidamento spirituale del terreno, un gesto riparatore che non si limita al disegno di un decoro passivo, statico, inerte, ma è anzi la scoperta e l’ammissione che ogni superficie è materia viva, membrana porosa, luogo di scambio e contatto.

Il mosaico è un’organizzazione sociale costruita per prossimità, una scrittura di matrice batterica, fungina, geologica, viva. L’opus tessellatum come lo chiamavano i latini, è un vero e proprio sistema simbolico, un’agopuntura variopinta, un massaggio alla cute domestica fatto di autocontrollo, di un calcolo che si trasforma in cura, e non in semplice banale cosmesi. Colui che compone queste meravigliose complicazioni estetiche sa benissimo di coltivare un luogo sacro, potente per il tempo e le attenzioni che richiede, ma anche per la forza con cui resiste ai secoli. Questi puzzle millenari sono la testimonianza d’una forma di giardinaggio secco ed esatto, che fa del suolo una sorta d’osso piantumato con disciplina. Fluttuare sopra queste stilizzazioni, con i piedi o con gli occhi, aiuta ad affilare la nostra presenza mentale. Glaciale e sincopata, questa epidermide matematica cresce endemica nella valle dell’Aniene, vi emerge come un muschio, sinuosa come una partitura musicale cangiante e ortogonale. I punti di colore posti l’uno vicino all’altro creano una luminosità e una brillantezza che non potrebbe essere raggiunta con la mescolanza tradizionale dei colori, quella dei pittori, per intenderci. Pura ginnastica contemplativa, questa di Tivoli, che è famosa per i suoi giardini rinascimentali, per i giochi d’acqua di Villa d’Este, le sue terrazze e i suoi scorci pittoreschi, o per le rovine di Villa Adriana, e che sorpresa invece questo vivaio minerale che accomuna un po’ tutto qui, e la natura congelata in forme eterne, enfatizzando come non mai l’importanza della connessione tra le cose.

Che magia questo solletico percettivo, questa superficie ruvida che regala carezze, e che ricchezza c’è in queste trame, secoli e secoli fa qui erano già al lavoro Georges Seurat e Paul Signac, e con loro la meravigliosa complicazione dei tappeti orientali e delle loro lane annodate, e la calma dei miniatori medievali.

Poi, come all’improvviso, ecco che ci si spalancano le porte della grotta di Diana. E si coglie il senso di tutte queste fugaci apparizioni della legge mosaico. Perché se fino ad ora ne avevamo assaggiato delle scaglie, seguito le orme di api in volo, ora siamo nel loro alveare, avviluppati tra i mieli, ospiti dell’ape regina. Varchiamo la soglia di una meraviglia assoluta, entriamo in un gioiello iperglicemico, assolutamente travolgente, una grotta artificiale, creata, più che decorata, con un impasto fatto di conchiglie e rocce, cascate e ceramiche, maioliche e smalti policromi. Su ogni angolo si ergono cariatidi un poco rigide, che reggono cestini con mele dorate, mentre motivi decorativi si estendono su tutto il pavimento e sulla volta d’ingresso. 

Siamo nella casa di Diana, nel regno della dea romana della caccia e della natura; le scene mitologiche che foderano ogni millimetro quadrato di questo stomaco palpitante di materia illustrano la trasformazione di Dafne in alloro, la liberazione di Andromeda per mano di Perseo, la metamorfosi di Atteone e la trasformazione di Siringa, la ninfa inseguita da Pan, in una canna, con cui Pan poi costruì il suo celeberrimo strumento musicale. Insomma, siamo nel covo del culto della mutazione, come quella di Callisto, la ninfa sedotta da Zeus, che spinse Era, moglie del dio supremo a trasformarla in orsa per placare la propria gelosia.  Non stupisce che tutto appaia in divenire, pulsante, metabolico. Durante il Rinascimento era di moda contrastare l’ordine e la simmetria dei giardini formali creando queste caverne artificiali, zuccherine e ammalianti, luoghi ideali di svago e perdimento: un po’ pleasure garden, un po’ un expanded cinema di pietra, e un po’ Korova Milk Bar, perché no, il club in cui Alex e i suoi drughi si sollazzano, e si ricaricano prima di darsi all’ultraviolenza, quella raccontata da Anthony Burgess e diretta poi da Stanley Kubrick in Arancia meccanica.

È molto difficile spiegare a parole quel che si prova in questa discoteca per after hours rinascimentali, giostra per cortigiani inclini a favolose scorribande, è un multiverso che sovrastimola lo sguardo, ma anche la cute, l’udito, e un poco tutti i ricettori sensoriali: sembra che qui la luce, e con lei le altre onde che corrono nell’aria, vengano tutte rifratte in traiettorie sghembe, spastiche ma piacevolissime. Le danze coreografiche nelle piscine technicolor di Esther Williams , le maschere in cartapesta del carnevale di Viareggio , i trucchi prostetici dei film di Guillermo del Toro, le marcette kitsch dei carillon… è un vero portento, un balsamo, una coccola, rifugiarsi in questa conca apollinea, con l’eco dei ruscelli che rimbalza tra le pareti animando la luce del tramonto, e i suoi riflessi che ronzano tra i bassorilievi, i gusci delle conchiglie, e le pietre preziose.

Su gentile concessione dell’Istituto Autonomo Villa Adriana e Villa d’Este (Tivoli, Roma) – Ministero della Cultura.