La diaspora vegetale

di Emanuele Coccia
Fotografie di Luca De Santis

Ho passato metà della mia vita in città, regioni, nazioni diverse da quelle in cui sono nato. Ho vissuto otto anni in Germania, undici in Francia, un anno in Spagna, un anno negli Stati Uniti. Ho trascorso mesi o settimane in decine di altri paesi e ogni volta ho avuto l’impressione di essere a casa. Ogni volta però che arrivavo in un luogo, indifferentemente dalla lunghezza del soggiorno, mi accoglieva la domanda di rivelare di dove fossi. La risposta era sempre la stessa. Ovunque andassi un’ombra, un volto mi seguivano e mi accompagnavano. Potevo percorrere migliaia di chilometri. Fare il giro del mondo. Assieme a me viaggiava anche un’altra presenza. A Berlino, a Friburgo, a Barcellona, a New York, in Brasile o in Nuova Zelanda non arrivava solo un essere umano. Arrivava anche un paese, una terra, una porzione del globo di cui ero involontario indice e veicolo. L’Italia. Non avevo fatto nulla per averla con me. Eppure era lì. Non interroghiamo mai questa capacità di portare altrove il territorio, lo spazio, il pezzo di mondo che ci vede nascere. Si tratta di una strana forma di astrologia invertita. Secondo gli antichi miti babilonesi i nostri corpi sembrano imbibirsi della porzione di cielo che ha osservato la nostra nascita: saremo per sempre la costellazione che ci ha accolti al mondo, saremo quella figura reciproca di pianeti e di case. Allo stesso modo, la porzione di suolo che ci ha visti nascere e di cui siamo di fatto una modificazione chimica superficiale sembra non conferire una identità di cui è impossibile liberarsi.

È questa capacità di veicolare con noi una seconda identità che chiamiamo potenza diasporica. Non tanto, o non solo il fatto di trovarsi altrove, ma al contrario, l’incapacità di separarsi definitivamente da una certa porzione di suolo. La potenza diasporica è una certa potenza di movimento: i corpi che si muovono sulla Terra non sono solo biglie impazzite su un tavolo da biliardo. In quanto figlia e forma di Gaia, ogni essere vivente prolunga la tettonica delle placche. Sposta il continente di cui è per nascita incarnazione ed espressione. Ridisegna la geografia planetaria. Le migrazioni umane sono un modo per trasformare radicalmente la facies del pianeta. L’Italia, la Cina, la Spagna non sono solo là dove esiste quella porzione di terra che si è battezzata in questo modo. Esiste in ogni luogo in cui vive uno o due cinesi, italiani, spagnoli. Viceversa, ogni migrazione non è l’arrivo di un corpo estraneo su un territorio diverso di lui: è sempre l’incontro e la fusione di due o più porzioni del pianeta, una sorta di sovrapposizione che porta i continenti l’uno sopra l’altro. Questo perché si riconosce che le vite umane non sono pure forme adattative: modificano continuamente l’ambiente, lo trasformano.

Dovremo riuscire a pensare la stessa cosa anche per i viventi non-umani.
I loro spostamenti, le loro migrazioni non sono solo moltiplicazioni confuse delle proprie anatomie barocche, né il prolungamento di metabolismi chiusi dentro i confini di un corpo. Sono, proprio come per gli spostamenti umani, fenomeni diasporici. Un albero che migra non si limita a portare la propria corteccia e i propri frutti altrove. Non si limita ad adattarsi al mondo che lo circonda: trasforma il mondo, il clima, lo spazio. Lascia migrare con lui anche il clima, il suolo, la vita che lo ha accolto. Il Malus domestica, il melo comune, è una pianta originaria del Kazakistan dove il suo antenato, il Malus sieversii continua a vivere. Forse dovremo imparare a riconoscere, a sentire il mondo kazako ogni volta che mangiamo mele, ogni volta che vediamo frutteti in Italia o in California.
Il Triticum aestivum, usato per produrre pasta e pane è originario della mezzaluna fertile, compresa tra il Tigri e l’Eufrate. Dovremmo imparare a trovare il gusto mesopotamico o babilonese ogni volta che mangiamo un piatto di pasta o un pezzo di pane: perché è il mondo di quella porzione di suolo che ogni individuo di grano porta con sé ed esprime in ogni porzione di suolo che abita ma anche in ogni alimento che lo contiene. Il Solanum lycopersicum, il pomodoro incluso nelle nostre insalate o nella salsa che condisce ogni piatto di pasta dello Stivale è originario dell’America Centrale ed era parte integrante dell’alimentazione atzteca. Ed è questo stesso universo di gusti, di odori, di colori che un ragù sembra fondere con quello locale ed europeo. Dovremo riconoscere il gusto azteco in ogni piatto di pasta. Se non riusciamo a cogliere queste sfumature il problema non è certo delle piante: è soprattutto la nostra incapacità di vedere e sentire la vita di altre specie. Ma a soffrirne è anche lo studio scientifico delle piante e l’ecologia. Chiusa da almeno due secoli in un universo metaforico che sembra confinare la vita non-umana dentro uno spazio domestico e patrimoniale: ogni specie ha un habitat preciso, un ecosistema, uno spazio che gli è destinato e ogni movimento di abbandono o di spostamento costituisce la specie migrante in «specie invasiva». The Ecology of Invasions by Animals and Plants pubblicato nel 1933 si limitava in fondo a trarre una serie di conseguenze dai presupposti che già Linneo e Biberg avevano espresso nell’Oeconomia naturae, il trattato che nel 1749 segna la nascita dell’ecologia. È questo riduzionismo geografico che ci impedisce di cogliere in che modo la migrazione delle piante e degli animali, oltre a essere un fenomeno positivo e attivo, è qualcosa che permette quei medesimi meticciamenti che permettono alle culture umane di costituirsi e di evolvere. Se la cultura italiana contemporanea non sarebbe stata certo possibile senza l’apporto della cultura classica greca né di quella mediorientale veicolata attraverso l’arrivo del cristianesimo, allo stesso modo la sua facies ecologica (che congiunge biologia, climatologia, pedologia etc.) è questa strana confluenza di elementi sudamericani, mediorientali, kazaki etc. che sono riusciti a coabitare grazie alla coabitazione delle piante e degli animali che assieme popolano ed esprimono ora la natura di quel territorio. È la forza diasporica dei viventi che fa di ogni ecosistema quello che Gilles Clément aveva chiamato «giardino pianetario»: non sono solo le piante o gli animali a convivere in uno spazio, sono i biomi a fondersi, sono i territori a sovrapporsi. Le migrazioni permettono di distendere e contrarre il pianeta, di trasformarlo in una pasta che continua a mescolare la propria natura.