Partimmo la mattina presto, il giorno dopo la festa. Avevo compiuto trent’anni. Perché svegliarmi? Il Lupo aveva preso a prestito un trattore e venti cassette di plastica dura, alcune rosse e altre gialle come la curcuma. Si era messo a fare il vino buono. Una sera ne finimmo una damigiana, poi gli promisi che alla prossima vendemmia sarei sceso ad aiutarlo. Sbagliai: una promessa fatta al Lupo, lui la ricorda sempre. Difatti, anche la mattina presto, il giorno dopo la mia festa, il Lupo non aveva voluto sentire storie: quella domenica si vendemmiava. Fortuna mia non si poté iniziare prima delle nove, perché c’era la rugiada, come nelle poesie che a scuola si imparavano a memoria. Il Lupo non era neanche venuto alla mia festa, “bevo solo a casa mia” – diceva lui. “A casa mia non c’è niente da rompere e dispiacersi, e l’acqua è sempre fresca, casomai si debba allungarlo un po’ quel Montepulciano, forte come la tosse!”.
La mattina della vendemmia Marzio non mi rivolgeva la parola, guidava lui. Volevo fingere di dormire per scansare il suo malumore, ma si sarebbe irritato al punto da girare la macchina e tornare indietro. La Vigna era in una frazioncina chiamata Sacra Torre, proprio di fianco al cimitero. Dicevano facesse l’uva dolce. Il Lupo fu puntuale, lo era sempre, come la morte stessa. Ci aspettava con indosso il suo cappello da “cauboi”, la canotta bianca, i pantaloni da campagna di zio Piero e uno sguardo che pareva un sorriso, anche se di fatto il Lupo non sorrideva mai. Mi sembrò bellissimo. Aveva preparato la colazione per tutti: peperoni fritti e sarde, pane e pecorino. Con lui, in ordine di resistenza al sole e alle durezze della campagna, trovammo: Peppino, i fratelli Anacleto e Claudio, Marcello il vigile urbano, Nuccio, e infine Bruno detto “Peperoncino”. Quest’ultimo particolarmente incline a presentarsi già ubriaco oppure ad abbandonare il lavoro verso le dieci e un quarto. Era un settembre caldo, la vigna sudava su di noi.
Il Lupo sapeva tenere assieme tutte quelle anime nobili della collina abruzzese, dopotutto avrebbe dato loro da bere per l’anno a venire. Sapeva anche che poche cose riuscivano a farli alzare dal letto la domenica mattina, una di queste era la sobria consapevolezza che un giorno di lavoro sarebbe valso un anno di vino, fatto bene e gratis. Perché il Lupo il vino non lo vendeva, lo beveva con gli amici, che erano la sua famiglia. Ne aveva pochi di amici, ma erano buoni… a bere!
Ora viveva solo con una vecchia zia di Sulmona, che un tempo si era costruita un piccolo impero nel mondo dei confetti, aveva inventato una bomboniera che non si rompeva quando staccavi un solo confetto. Lo aveva brevettato e ci aveva fatto quasi una fortuna, poi quando se lo erano rubato i cinesi, la zia aveva detto “Il mondo è ladro!” e non aveva più voluto parlarne.
Dalla vigna si vedeva in lontananza il Gran Sasso, sempre invaso di luce dall’alba al tramonto. Pensai a quanto era bello e che noi nelle Marche non ce l’avevamo una montagna come il Gran Sasso. Il giorno di vendemmia sarebbe stato lungo, e anche la notte lo sarebbe stata, ad ascoltare il Lupo che raccontava di quando aveva viaggiato negli “Iunaited Esteits of America”. Aveva lasciato il cuore nelle distillerie abusive della Louisiana, nei suoi bar e night club. Laggiù aveva comprato quel cappello da cowboy e aveva iniziato a scrivere. Scriveva bene. E cantava, come cantava! A fine giornata con tutta quella sete e appena due bicchieri del suo vino, lui cominciava a cantare e non smetteva più, neanche a dargli pugni sulle cosce.
Quel soprannome – “Il Lupo” – glielo avevo dato io e nessun altro lo chiamava così. Era uscito fuori per gioco, un giorno di gennaio quando lo avevo accompagnato in aeroporto, partiva per uno dei suoi viaggi, quella volta andava in “Tailandia” in cerca di altro sole e fidanzate. Io, dal finestrino della macchina, gli dissi: “Alessio – (pausa), in bocca al lupo!”. E lui, alzando entrambe le mani in segno di vittoria,“Evviva Il Lupo!” – rispose.