L’ecosistema urbano

Testo di Words by Menno Schilthuizen
Fotografie di Luca De Santis

È una grigia mattina d’autunno a Leida, l’antica città universitaria nella parte occidentale dei Paesi Bassi da cui provengo, e mi ritrovo a percorrere a zig-zag le strette vie secondarie dietro le case che si affacciano su Breestraat, la strada principale. Ho promesso a mia moglie di comprare la verdura al mercato del sabato ma, essendo un naturalista urbanistico, il mio sguardo e i miei piedi continuano a essere attirati dagli abitanti non umani del posto. 

Portando appresso la borsa della spesa ancora vuota, mi fermo a osservare la rigogliosa ruta di muro (Asplenium ruta-muraria) che cresce sulle pareti art déco della stazione di polizia e, alzando lo sguardo, vedo uno stormo di chiassosi parrocchetti esotici (Psittacula krameri) sfrecciare in direzione dei quartieri residenziali, il loro principale terreno di caccia diurno. Proseguendo la mia passeggiata, trovo un grasso esemplare di femmina di Larinioides sclopetarius intenta a tessere la sua tela accanto a un lampione sul ponte che attraversa il canale, dai vecchi parapetti di legno del quale spunta a cascata una profusione di madidi e selvatici funghi orecchi di Giuda (Auricularia auricula-judae). Sull’altra sponda, una talpa (Talpa europaea) ha scavato da poco la sua tana, disseminando di montagnole il prato del parco Van der Werff, accanto all’antico museo di Storia naturale dove lavoravo. 

Quando Leida è stata fondata, a un certo punto della prima parte del Medioevo, gli insediamenti in questa regione dei Paesi Bassi erano pochi e distanti tra loro. Situata alla confluenza di due rami del Reno, la fortezza di Leida con la sua collina costruita dall’uomo dominava da una posizione strategica questa regione di paludi, dune, fiumi e foreste. Qua e là il panorama era costellato di altri insediamenti simili, ma all’epoca il Paese era perlopiù naturale. Le forze della Natura, in sostanza, avevano briglia sciolta in quello che, in fondo, era un unico grande estuario e le consistenti popolazioni di animali selvatici e piante vivevano in buona parte indisturbate dalle persone, se si escludono alcune rare interazioni, quando c’erano, con un cacciatore di passaggio o un agricoltore. 

Oggi la topografia della città è ancora caratterizzata dalle tracce di quando fu costruita tra le anse di vari corsi d’acqua serpeggianti, e le strade e stradine del centro storico seguono il percorso di ruscelli da tempo scomparsi, affluenti e file di dune di sabbia. Per altro, Leida è entrata di diritto nel novero delle metropoli moderne. Non è più un piccolo punto costruito dall’uomo in un paesaggio naturale. Al contrario, è una città che brulica di 125.000 abitanti, e fa parte dell’agglomerato urbano olandese di Randstad, dove vivono oltre otto milioni di persone. 

L’espansione di Leida – da piccolo insediamento umano nel mezzo di (quella che oggi chiameremmo) una landa selvaggia a paesaggio urbano con poche sacche residue di Natura – è rappresentativa di vaste regioni del mondo abitato. Dove in passato le città erano isole urbane in un mondo naturale, la situazione oggi è capovolta e gli animali selvatici e le piante sono a contatto con gli uomini e il loro mondo antropogenico. Il delta del Fiume delle Perle in Cina orientale, per esempio, è completamente urbanizzato e 140 milioni di persone si accalcano in un’area non più grande del Belgio. Questo conferma che ormai sulla Terra vi sono luoghi grandi come interi Paesi nei quali la Natura in senso classico è stata completamente sradicata. 

Eppure, come dimostra il rapido elenco di animali e piante di città nei quali mi imbatto in successione mentre vado a piedi a fare la spesa, questo non significa che dalle città sia sparita la Natura. Anzi, al contrario: in tutto il mondo i biologi metropolitani continuano a scoprire che le città sono come pentole a pressione dell’evoluzione, e che anche mentre parliamo si va formando un ecosistema urbano del tutto nuovo. 

Per spiegare ciò che vedo accadere nei centri urbani, spesso evoco quelle magnifiche creature che sono i mirmecofili. Un mirmecofilo è un piccolo invertebrato che trascorre l’intero ciclo della sua vita all’interno di un formicaio. Nel corso della sua evoluzione ha sviluppato la capacità di parlare la “lingua” delle formiche, di usare quindi un sistema di comunicazioni chimiche che le formiche utilizzano tra di loro. Parlando la “lingua” delle formiche e tranquillizzandole, il mirmecofilo (per esempio, uno stafilinide) si può spostare all’interno del formicaio senza attirare attenzione, nutrendosi delle uova e delle larve della colonia, rovistando negli avanzi dei pasti delle formiche. Esistono migliaia di specie di mirmecofili nel mondo (coleotteri, acari, millepiedi, ma anche bruchi, lumache e cocciniglie). La causa di questa profusione evoluzionistica è legata al fatto che le formiche sono i cosiddetti ingegneri dell’ecosistema: modificano l’ambiente in modo tale da far apparire nuove nicchie per l’insediamento di altre specie. Le loro colonie offrono occasioni inimmaginabili: le formiche raccolgono in giro cibo e altre risorse per accumularle e conservarle nelle vaste profondità del loro formicaio, offrendo ad altre specie nuove opportunità di trasferirvisi in loro compagnia. 

Per milioni di anni, le formiche sono state i principali ingegneri dell’ecosistema. Negli ultimi decenni, invece, noi umani siamo subentrati loro in questo stesso ruolo. Come le formiche, noi raccogliamo cibo e altri materiali nelle aree rurali e li trasportiamo nelle nostre città per usarli e consumarli. Nello stesso modo, i nostri equivalenti umani delle colonie di formiche offrono enormi risorse alle specie in grado di vivere con noi, di far fronte a varie sfide e di sfruttare le opportunità. In altri termini, abbiamo creato un paesaggio evoluzionistico, una situazione nella quale vi sono potenziali benefici e, al tempo stesso, nuovi pericoli e nuove sfide – una situazione predisposta per una selezione naturale rapida e pervasiva. 

Ma quali sono per la precisione queste opportunità e queste sfide? E in che modo l’evoluzione fa sì che piante e animali selvatici vi si adattino? Mentre proseguo la mia passeggiata a Leida – e si assottigliano le possibilità che riesca ad arrivare al mercato prima della chiusura – trovo le risposte a queste domande. 

La prima si chiama preadattamento. La ruta di muro che vedo crescere sulle vecchie pareti della stazione di polizia, per esempio, è una specie vegetale che ha potuto colonizzare i Paesi Bassi grazie alle città. Infatti, è una specie che vive sulle rocce e la sua nicchia ecologica naturale è tra le scoscese pareti rocciose e le rupi delle regioni più montagnose d’Europa. Essendo un Paese interamente paludoso e privo di rocce naturali, i Paesi Bassi erano una regione che sarebbe rimasta impenetrabile per l’Asplenium ruta-muraria, e così è stato fino a quando l’uomo non ha iniziato a erigere edifici di pietra, consentendo così alla pianta “preadattata” di insediarsi in questo paesaggio di rupi artificiali. Lo stesso vale per altri organismi che fanno affidamento su habitat rocciosi e adesso sono comuni abitanti di città a Leida: il rondone comune (Apus apus) che perlustra il cielo in estate; il piccione selvatico (Columba livia) che attende gli avanzi al mercato, e il falco pellegrino (Falco peregrinus) che si appollaia sul comignolo della centrale elettrica, scrutando il cielo alla ricerca di alternative per pranzo. Anche loro sono diventati animali urbani grazie al loro preadattamento alle falesie. 

Un’altra risposta è la selezione naturale determinata dal tessuto urbano vero e proprio. Si pensi alla temperatura, per esempio. Leida è una piccola città nella quale centinaia di migliaia di persone vanno e vengono quotidianamente, guidando le loro vetture o altri veicoli. Tutta questa attività provoca calore che resta intrappolato tra gli alti edifici che ostacolano il vento. Gli edifici stessi assorbono calore di giorno e di notte lo irradiano tutto attorno. Ne risulta un centro cittadino equiparabile a una bolla di aria calda. Perfino in una piccola città come Leida, ciò può significare un paio di gradi Celsius in più rispetto alla campagna fuori città. Questa “isola di calore urbano” provoca innalzamenti della temperatura ancora maggiori nei grandi centri. L’isola di calore di New Orleans, per esempio, in media è di cinque gradi Celsius più calda dell’area periferica tutto attorno e, in alcune giornate torride e tranquille, la differenza può arrivare anche a dieci o dodici gradi. 

Ne vedo le conseguenze nelle strade di Leida. La Cepaea nemoralis o chiocciola di terra che si trova sui muri del centro città ha un guscio inverosimilmente chiaro. Non mi sorprende, però. Alcuni anni fa, con i miei studenti ho condotto nei Paesi Bassi un progetto scientifico (usando un’app denominata SnailSnap) chiedendo alla gente comune di inviare fotografie delle lumache avvistate in aree urbane e no. Le quasi diecimila immagini che abbiamo ricevuto hanno evidenziato un evidente schema di gusci chiari in città e gusci più scuri fuori città. Poiché il colore del guscio delle lumache è codificato nel loro Dna, si tratta di un evidente caso di evoluzione urbana, dovuta all’isola di calore. I gusci più scuri assorbono più calore di quelli chiari, e intere generazioni di lumache dal guscio scuro morte nell’isola di calore urbano hanno fatto sì che le lumache di città diventassero più chiare. 

Le lumache di città dal guscio chiaro costituiscono uno dei molteplici chiari esempi di evoluzione urbana causata dalle caratteristiche effettive della città, ma un fattore ancora più importante ai fini dell’evoluzione urbana è il paesaggio biologico. Invece di considerare gli animali e le piante di città un assortimento di specie, è utile considerarli una rete di interazioni ecologiche nella quale ciascuna specie dipende (per il cibo, il riparo e altre cose) dalle altre e a sua volta è di importanza fondamentale per la sopravvivenza altrui. Da questo punto di vista, con tutte le sue peculiarità l’habitat urbano è un ecosistema come qualsiasi altro. Ma vi è una differenza importante: le attività economiche umane sono concentrate nei centri urbani, e molte di esse comportano la spedizione di animali e piante da altre regioni del pianeta. Spesso, nel commercio di animali domestici e di specie da acquario, vi sono liberazioni accidentali o intenzionali. Il commercio agricolo e il giardinaggio dipendono nientemeno che dal trasporto di specie esotiche nell’ambiente. Ne risulta un ecosistema urbano nel quale, a differenza della maggior parte degli ecosistemi naturali, convivono specie provenienti da tutto il mondo. 

In un’area residenziale a sud di Leida mi imbatto in una scena che sarebbe stata inverosimile senza questi processi di importazione delle specie: vedo alcuni parrocchetti dal collare ingerire i frutti di un ippocastano (Aesculus hippocastanum) tra le cui foglie scorgo i segni lasciati dal passaggio di un bruco, la minatrice fogliare dell’ippocastano Cameraria ohridella. In questa minuscola catena alimentare, nessuna di queste tre specie è indigena di Leida. I parrocchetti arrivano dall’India e sono fuggiaschi del commercio di animali domestici degli anni Settanta. Gli ippocastani provengono dall’Asia minore e furono piantati nei Paesi Bassi a partire dai primi del Seicento (e, di fatto, il primo esemplare in assoluto fu interrato nel giardino botanico di Leida). Nessuno sa in che modo il bruco, indigeno della Macedonia, sia arrivato fino a qui. Il punto è che queste tre specie sono state messe in contatto tra loro da noi e la catena alimentare alla quale danno vita esiste grazie all’urbanizzazione. 

Questo vuol dire che le catene alimentari urbane sono costellazioni del tutto nuove di specie tanto native quanto non native. Nelle città le specie si nutrono, sono catturate dai predatori e competono con quelle che non si sono mai evolute nello stesso modo. All’origine di questi rapidi processi di adattamento evoluzionistico urbano c’è questa biologia unica, oltre alle caratteristiche distintive stesse delle città.   

Naturalmente, l’urbanizzazione comporta anche alcune scomparse: molti animali, molte piante e molti funghi non riescono a superare il drastico cambiamento che un insediamento umano implica, e a livello locale si estinguono. Altri, invece, ci riescono e si adattano e la selezione naturale modifica rapidamente il loro patrimonio genetico. Mentre deploriamo, come è giusto che sia, le perdite tra gli animali selvatici e in Natura, è anche indispensabile capire e apprezzare che viviamo in un momento unico della storia della vita sulla Terra. Per la precisione, viviamo in un periodo nel quale si assiste alla rapidissima comparsa globale di un ecosistema urbano del tutto nuovo, con le sue caratteristiche ecologiche, le sue regole e la sua molteplicità e varietà di comunità di specie. 

Se noi, abitanti delle città, aprissimo gli occhi all’affascinante processo dell’evoluzione urbana e alle inedite modalità con le quali la biodiversità urbana crea una catena alimentare, il nostro piacere di vivere in una città ne uscirebbe esaltato. Forse pensiamo che la Natura sia scomparsa dalle nostre giungle di cemento ma, se durante i nostri quotidiani tragitti a piedi nel nostro quartiere osserviamo con attenzione, tutto attorno a noi possiamo vedere le prove di un ecosistema ricco e affascinante.