Al crepuscolo, in Uzbekistan la notte cala saturandosi di luce, morbida ed effimera, appena ormeggiata. Altrove non ho mai visto niente del genere. Si effonde sull’orizzonte come una brezza. In steppe e deserti a perdita d’occhio per migliaia di chilometri, produce una luminosità unica al mondo.
Ho provato per la prima volta questa sensazione, forte e inverosimile, a Bukhara. La mia amica Annie e io avevamo preso un treno notturno da Samarcanda, un treno come quelli di epoca sovietica, nel quale avevamo giocato a backgammon e bevuto numerose tazze di tè. Per rifornirsi di acqua bollente, era necessario andare a prenderla in un samovar enorme collocato all’ingresso del vagone. Arrivate a Bukhara, stanche ma felici, abbiamo lasciato i bagagli in albergo e siamo uscite subito, prima che venisse buio, per vedere Char Minar e i suoi quattro minareti a bulbo. Ricordo il respiro di Annie cambiare leggermente, e poi le sue parole: “Hai visto quella luce?”. Sì, l’avevo vista e sapevo che anche lei l’aveva vista.
La luna non era piena. Non si trattava di una luce bianca, come quella che c’è in pieno giorno. Era una luna azzurrognola, sfocata, caliginosa. Le strade ne erano avvolte. Era un chiarore che si confondeva con il blu dei monumenti uzbeki e che sembrava scivolare da uno all’altro.
Abbiamo fissato quel raggio blu in silenzio, Annie ha cercato di fotografarlo. Avevo il batticuore, temevo quasi di fare un passo falso e che quella visione svanisse. In francese, le espressioni tombée du jour e tombée de la nuit designano inspiegabilmente una medesima cosa, il momento del crepuscolo, anche se sembra che le espressioni si contraddicano. Dovevo andare fino in Uzbekistan per capire che non è così.
Quella è stata la mia prima “luce uzbeka”, il mio battesimo di luce, in un certo senso. Conoscevo i bagliori e gli sfolgoranti chiarori iraniani, che però sono diversi. Avevo visto la luce uzbeka in altre occasioni, in precedenza, ma è stato come se la luce di quella notte a Bukhara illuminasse quelle prima a posteriori. Sono riuscita a rammentarle soltanto dopo aver visto quella. Insomma, la mia seconda luce uzbeka era la prima in ordine di tempo, ma non nei miei ricordi. Era un raggio luminoso guizzato sulla superficie di una tazza da tè. Una tazza bianca e blu, caratteristica dell’Uzbekistan. Tardo pomeriggio a Samarcanda, il freddo dell’inverno che strina, una tazza poggiata sul tappeto persiano color cremisi e una luce che irrompe sulla superficie, improvvisa, fulminea come una freccia. La stessa lama di luce scivola fino a un samovar russo, ma con un bagliore meno preciso: palpita. È la stessa lama che, sull’acqua che culla le vecchie case da tè della città, si trasforma in un bagliore scintillante, per poi incresparsi lungo le sponde del laghetto nel quale nuotano alcuni cigni. Quel raggio di luce è arrivato fino a qui proseguendo il suo tragitto da Tashkent, la capitale del Paese, da dove è rimbalzato sugli edifici brutalisti e si è insinuato in decine di finestre incastonate nella facciata.
Tra le due città, esiste così una luce più abbagliante, quella della steppa. Il suolo arido, le vaste distese, l’orizzonte che sfuma in lontananza sul fiume Amu Darya, il sole che sorge lungo quella medesima linea. Si ha l’impressione di essere in cima al mondo – e lo si è. Si avvicina un cane, è affettuoso, vuole carezze. È un cane marroncino, come quelli che abbiamo incrociato centinaia di volte. Ha l’aria di vivere lì, nei pressi di una stazione di servizio in mezzo alla steppa. Ricerca la compagnia degli uomini, e noi gliene diamo un po’.
È il paesaggio ad avermi attirato come un’amante in Asia centrale. Ricordo le lezioni di geografia, a scuola, quando si dovevano colorare i mari di blu, le montagne di rosso, la savana di verde e… le steppe? Di che colore? Forse gialle. Nella mia immaginazione, dovevo colorare la steppa di giallo con un grande pennello. In fondo, non ero poi così lontana dalla realtà. Un paesaggio dorato, una luce bionda, senza dolcezza quando il sole è allo zenit. Invece della stazione di servizio che c’è oggi, ci si immagina le carovane sulla Via della Seta, ricoperte di sabbia, in arrivo dalla Cina, di passaggio nel viaggio che le porterà fino a Venezia, sopravvissute al terribile deserto del Taklamakan. Si dirigono, come facciamo noi oggi, verso la città, e vi trovano, questa volta, una luce blu; minareti giganteschi; gli orli, anch’essi blu, del Registan a Samarcanda. I carovanieri si portavano sicuramente appresso il ricordo di quelle luci. È così anche per me: le mie luci uzbeke me le porto dietro ovunque. Sono là, incuneate negli avvallamenti della mia memoria, come in una tasca, pronte a zampillare fuori.