Lucie Azema in conversazione con Valentina Pigmei

Fotografie di Lucie Azema

A Lucie Azema, classe 1989, scrittrice di viaggi francese dallo stile lapidario e dalla curiosità insopprimibile, più che viaggiare piace abitare i luoghi, fermarsi, indugiare, anche per anni. Così ha fatto in Libano, in Iran, in Turchia, in India. Leggendo i suoi due libri, ugualmente interessanti e radicali, Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione (Tlon, 2022) e Le strade del tè. Sorseggiare il tempo (Tlon, 2023), si capisce che a Lucie piace prima di tutto smontare le false credenze, rovesciare gli stereotipi di genere legati alla sicurezza e alla libertà delle donne che viaggiano da sole, rifiutando l’idea del viaggio come prerogativa maschile. “Se gli uomini raccontano avventure che non hanno mai vissuto, le donne vivono le avventure che non racconteranno mai”, mette subito in chiaro. Viaggiare per Azema vuol abitare il mondo, occupare uno spazio che noi donne “avremmo preso facilmente se fossimo stati uomini”: l’approccio femminista è il punto di partenza delle riflessioni dell’autrice che nel suo secondo libro ha scelto di raccontare l’incredibile “strada” percorsa nei secoli dal tè, una bevanda in perenne movimento, molto raccontata, ma anche assai fraintesa: non è vero che il tè sia una tradizione inglese, al contrario il tè arriva da Oriente verso Occidente “in direzione opposta rispetto alle grandi ondate di viaggio della Storia”; inoltre il tè e i suoi rituali, gli incontri che provoca, aprono una finestra sul momento presente, permettendo di ricongiungerci con noi stessi e con gli altri. Aspettando di bere un buon tè dal vivo con Lucie Azema, chiacchieriamo da remoto immaginandoci davanti a una tazza di Gyokuro, uno dei tè preferiti da entrambe, chiamato in Giappone anche “lacrime di giada” per il suo sapore di clorofilla e il colore di un prato a primavera. Perché il tè come mi ha detto Lucie è “una piccola barca che ci porta lontano”.

VP: Immagina di bere un tè con un famoso viaggiatore del passato. Chi sceglieresti?

LA: Vorrei avere questo potere magico e, se lo avessi, sceglierei senza esitazione Alexandra David-Neel. Di recente ho visitato per la prima volta la sua casa, ora un museo, nel sud della Francia e mi sono commossa nel sentire la presenza di David-Neel così viva in quella casa. Se dovessi bere un tè con lei, sarebbe senza dubbio un tè al burro di dri (la femmina dello yak): una specialità tibetana che lei amava bere durante i suoi viaggi straordinari.

VP: Ho dato per scontato che avresti scelto una donna dopo aver letto il tuo primo libro Donne in viaggio. Se invece fosse un uomo, chi sarebbe?

LA: Jack London occupa un posto importante nella mia vita. La sua scrittura folgorante e la sua vita difficile, dedicata esclusivamente allo scrivere e ai viaggi, sono per me una grande fonte di ammirazione. D’altra parte, non sono sicura che bevesse molto tè!

VP: Il tuo nuovo libro racconta sia la storia del té e i viaggi intrapresi da questa bevanda, sia il suo legame con la cultura del viaggio. Ci puoi spiegare in che cosa consiste questo legame?

LA: Il tè è soprattutto una storia di strade e percorsi. È così che ha iniziato la sua esistenza: lasciando la Cina e viaggiando con le carovane di cammelli lungo la Via della Seta. Ha permesso alle persone di incontrarsi e di costruire ponti tra culture diverse. Il tè ha preso anche strade più oscure, come quelle della schiavitù, ancor più con un ingrediente che gli europei hanno aggiunto nelle loro tazze: lo zucchero.

VP: In Italia e in Francia, o in generale in Occidente, non abbiamo rituali legati al tè, nessuna lunga preparazione, né “case da tè” che invece esistono ad esempio in tanti paesi del Medio Oriente. Perché è così importante la sospensione del tempo che solitamente è connessa a questi momenti?

LA: Il tè porta con sé l’euforia dell’avventura e dell’incontro, ma paradossalmente si beve in momenti di calma sedentaria, sospesi nel tempo. L’avventura non è un movimento continuo nello spazio; richiede soste, oasi. A volte ci sono momenti più difficili, con soste non concordate. È così che il tè porta con sé la storia della nostra umanità; ed è questa tensione tra nomadismo e sedentarietà, con cui tutti ci confrontiamo, che ho voluto esplorare attraverso L’usage du tè.

Breve inciso: il titolo originale del libro Lucie Azema è L’usage du tè. Une histoire sensible du bout du monde. Nella versione italiana si perde inevitabilmente il riferimento a L’usage du monde di Nicolas Bouvier, che del resto da noi venne tradotto con La polvere del mondo. Il libro di Bouvier, scritto nel 1963, è il racconto di un vagabondaggio in Medio Oriente a bordo di una Fiat Topolino, dai Balcani al Pakistan passando per l’Iran, un testo fondamentale per la letteratura di viaggio e altrettanto importante per Lucie Azema come si evince dai numerosi riferimenti testuali.

VP: Il titolo francese del tuo libro rimanda a L’usage du monde di Nicolas Bouvier, giusto?

LA: La polvere del mondo è stato uno dei rari libri scritti da un viaggiatore maschio che mi ha colpito molto, e non solo perché è un gioiello letterario. Nicolas Bouvier e Thierry Vernet viaggiano in luoghi importantissimi per me (Iran in particolare, Turchia) e bevono molto tè. Hanno anche un modo di viaggiare che corrisponde a quello che cerco: lavorare sul posto per allungare i tempi e imparare la lingua del luogo in cui ci si trova. C’è l’idea di uno stile di vita sedentario all’interno dell’avventura, che per me è fondamentale.

VP: Dove ti trovavi quando hai scritto questo tuo ultimo libro?

LA: Tra la Georgia, dove mi sono isolata in pieno inverno, la Turchia e la Francia. E anche un po’ di Italia, dove ho dovuto resistere al delizioso caffè!

VP: Bere tè è un modo di mettere in connessione le persone e le culture, “di ricongiungerci con noi stessi e con gli altri” e lo è in modo particolare in alcuni paesi dove hai vissuto, come l’Iran e l’Uzbekistan…

LA: In Asia centrale, dove l’ospitalità è un valore cardinale, si beve con un samovar russo, che permette di preparare il tè in grandi quantità e di tenerlo in caldo per gli ospiti inattesi. Il samovar è presente in tutte le case dell’Iran e dell’Uzbekistan ed è una parte importante della vita quotidiana con una vera e propria funzione sociale.

VP: Hai scritto: “Il tè è una bevanda in movimento, che procede da Oriente verso Occidente, in direzione opposta rispetto alle grandi ondate di viaggio della Storia” e ancora: “È esattamente ciò che ha fatto il tè: partire, tornare e, intanto, inciampare. Ma, sempre, trasformarsi a contatto con l’alterità”. Possiamo dire che il tè è una bevanda trasformativa?

LA: Il tè si è evoluto per abbracciare i territori e le culture che ha attraversato. Non si beve nello stesso modo in Cina o in Giappone – dove è una bevanda molto estetica e silenziosa – come in India, Iran o Inghilterra. Il modo in cui questa bevanda viene consumata è cambiato radicalmente in seguito al contatto con l’alterità, cosa molto meno vera per il caffè, ad esempio. L’idea di purezza le è estranea, ed è questo che rende questa bevanda così affascinante.

VP: In che senso non è “puro”?

LA: Nel senso che il tè è una bevanda fiorita nell’alterità, a contatto con territori estranei alla sua culla originaria (Cina e Giappone). Grazie a ciò si è evoluto e, per certi aspetti, migliorato. La vedo come una metafora dell’essere umano: l’umanità si è evoluta muovendosi e confrontandosi con l’alterità. Non esiste lingua, cultura, cucina che sia “pura”. È un errore storico pensarlo. Mi sembra ancora più importante ricordarlo in questo momento, in cui il nazionalismo è sempre più virulento in Europa e altrove.

VP: Che tipo di viaggiatrice sei? Nel tuo primo libro fai una dichiarazione importante: “In realtà, per molti aspetti non sono una viaggiatrice. La traversata mi seduce meno dell’attracco, amo gli arrivi più delle partenze”.

LA: Sì, amo soffermarmi, tornare negli stessi luoghi, sviluppare una routine all’estero. È ciò che mi insegna di più su me stessa e sugli altri. Mi piace questa perdita di punti di riferimento applicata alla vita quotidiana, anche se a volte è un po’ umiliante. Ho l’impressione che sia proprio spogliandoci del comfort dei nostri punti di riferimento che riusciamo ad avvicinarci, anche solo per un breve momento, alla pura libertà.

VP: So che i tuoi tè preferiti sono quelli della famiglia del Sencha o del Gyokuro, tè giapponesi dal “grazioso verde giada che evocano aromi marini e iodati”. Li amo molto anche io nonostante non sia mai stata in Giappone.

LA: È difficile spiegare perché ci piace tanto un tè o un altro, ha a che fare con i ricordi, gli odori, l’evocazione di certi luoghi. Mi piace l’aspetto iodato dei tè giapponesi e quello molto vegetale dei tè verdi cinesi. Mi piace anche il tè iraniano perché mi ricorda amici e luoghi che amo. Lo stesso vale per il modo in cui viene preparato il tè indiano, con latte e spezie. Mi piace l’idea che una tazza di tè sia come una piccola barca che ci porta lontano.

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