Niente più che l’esistere

Testo di Achille Filipponi
Fotografie di Luca De Santis

I

È tardi, il concerto è già iniziato. La hall è piena come un uovo. Le cameriere del bar indossano dei gilet neri, sono gentilissime. Si attende fuori che finisca la prima esecuzione. All’intervallo l’entrata è finalmente permessa. La hall è troppo illuminata e lo sguardo non riesce a concentrarsi sugli esecutori, dal palcoscenico il pianoforte sembra fin troppo lontano. Il soffitto, complesso a livello costruttivo, distrae. A starci sotto sembra l’interno di una corazza. Le travi si susseguono acute, intagliate, lucidate, delineate dalle loro stesse ombre. Tutti gli oggetti messi in sequenza producono un rumore. Dopo le prime note sconnesse inizia la fioritura dei profumi mescolati di tutti gli astanti, un’informe rosato olfattivo mixato al vero odore delle persone, sono come due grandi odori in guerra. Uno è vero, corporale, l’altro lo copre, tenta di sorpassarlo ma è posticcio, non ha la stessa portata della verità. I corpi hanno un odore perché anche l’interno dei corpi ha un odore, che tenta disperatamente di tirare fuori la testa, di trapassare ogni fibra, è come un caldo interno che vuole solo uscire per freddarsi. Mentre si sorride, si parla, si ascolta, si osserva concentrati, il corpo fa cose. È tutto sempre in moto. Finché non senti niente è tutto sempre in moto.

II

Per entrare nella stanza matrimoniale bisogna superare un piccolo gradino. Il gradino è ai limiti dell’invisibile. Il rapporto difficoltoso col gradino misura quanto la casa sia ancora sconosciuta. Dentro la stanza matrimoniale ci sono una serie di cornici con immagini di tiri a segno. La serie di cornici mette tensione alla stanza perché non c’è nessun motivo accettabile sul piano logico per cui debba essere proprio lì. Il fondo dei target è sempre nero, la struttura geometrica delle linee concentriche invece è bianca, come una ragnatela. Il primo tiro a segno a sinistra ha una bella serie di buchi. Il grumo armonioso dei tondini perforati è protetto da un vetro finissimo che lascia vivo il riflesso della figura di chi guarda. I tiri a segno nella loro serie sono riprodotti a una dimensione molto più piccola di quella reale e questo processo li aggettiva, li infantilizza. Per quanto l’assemblatore-produttore di queste immaginette abbia sicuramente assegnato loro un valore estetico o astratto, tanto da scegliere di esporle dentro la propria casa, esse conservano l’anima di ciò che furono: esplosioni, superfici trafitte, il tutto più volte. Chissà dove si saranno esercitati, chissà da quanti metri di distanza avranno sparato.

III

Sul retro della casa il giardino infossato sembra una vallata in miniatura. Il tavolo rosso da dodici posti, magrissimo, aiuta questa illusione. Il tavolo posizionato in solitudine, da lontano, sembra un modellino. Di notte un robot si occupa di rasare il prato. La padrona di casa si è raccomandata di non spostare nulla nel giardino perché il robot ha imparato a memoria il posizionamento di ogni oggetto presente e riesce a districarsi bene nel percorso, a patto che nessuno muova nulla. Basta rimanere fuori per qualche minuto per capire che la montagna preme su tutto, è una cosa inevitabile, non si può non guardare, non si può non pensare alla montagna. La vegetazione selvaggia arriva fino al prato perfettamente rifinito, il confine appare di colpo come una rasatura da operazione chirurgica. La sera arriva il freddo. Il cambiamento è fulmineo e tutto diventa blu, nell’erba nasce un acqua gelata che vive fino al mattino. Prima del pranzo il sole gira intorno alla casa e arriva fino sopra al prato. L’erba verde diventa bollente, il sole brucia. Non si può passeggiare a lungo o stare al sole senza un cappello, si rischia di svenire. Di solito quando la situazione arriva a questo punto meglio rientrare e stare dentro la casa. È come essere dentro un grande meccanismo di vasi comunicanti tra diversi fattori, umidità, gelo, sole, al quale bisogna stare dietro. E così inizia un via vai, un umiliante dentro-fuori che ricorda quanto sia il paesaggio a decidere. Sono cambiamenti continui che mettono addosso una pressione, ci si sente circondati da eventi, non da cose. È un idillio fragile, basta un urlo in lontananza e tutto diventa spettrale. 

IV

Per arrivare a piedi ci sono volute ore. Camminando al sole per così tanto tempo lo sguardo punta a terra e il rumore dei passi diventa un mantra. Al centro della gola il lago appare come una zona fredda circondata dalla luce. Ci si arriva da sopra, la strada lo avvolge come un serpente. Tutto intorno ci sono diverse piattaforme galleggianti dove sdraiarsi per riposare. Le forme rettangolari di legno grigio sono ossidate, invecchiate, bruciate dal sole e oscillano sulla superficie addensata, una pelle d’acqua più tesa di quello che contiene. I corpi bianchi si tuffano, sembrano scomparire nel nulla ma poi riemergono. I corpi si addensano in gruppi, si arrampicano sugli alberi inclinati che piangono quasi dentro il lago, corrono in fila nei sentieri e poi si raggruppano di nuovo e si tuffano ancora, poi di nuovo in gruppo e ancora i tuffi, come una scala mobile umana, come se fossero tutti collegati da un filo che li guida e li trascina. Al centro del lago c’è una piattaforma e se si è bravi a nuotare ci si può arrivare. Non tutti ce la fanno. Neanche a metà del tragitto c’è già chi torna indietro, allora dalle rive del lago alcuni indicano la piattaforma, riflettono, si consultano tra loro, valutano se affrontare la traversata oppure no. Tutto traballa tra l’euforia per la possibile vittoria e il calcolo strategico per evitare un fallimento sotto gli occhi di tutti. Non è solo al lago che funziona così. 

V

Nel corridoio delle stanze da letto c’è la foto di una bambina. Alla bambina è esplosa sulle labbra una gomma americana. La bambina guarda in camera con gli occhi aperti come se stesse guardando qualcuno che vuole scrutare, ha lo sguardo di chi sa che sarà guardato. Due giri di collane di venere sono incisi sulla pelle del collo della bambina, che indossa una maglietta bianca. I capelli biondi scivolano ai lati del viso. Una bellissima qualità di capelli, lisci, lucenti, in grande quantità. Capelli spessi, capelli che rimarranno lì fino all’ultimo dei suoi giorni. Magari cambieranno sì, si seccheranno un po’, ma rimarranno tutti dove sono, senza problemi di diradamento o miniaturizzazione. L’immagine della bambina è vagamente sottoesposta, le grava addosso la presenza opprimente del flash che non genera un vero punto di bianco, la gamma tonale quindi è ridotta, soffocante. Non c’è nulla da guardare eppure è un tour de force, si gira in tondo nella foto cercando di capire. Perché la messa in scena, il teatrino che hanno tirato su, chissà con chi, non convince. Piuttosto invade psicologicamente, perché la bambina è completamente immersa in uno stato recitativo. Il soggetto è usato, come un giocattolo, la scena è rotta, emana un’energia purissima come un detrito velenoso. Nella sua totalità la foto risulta come un avvertimento, ma non si sa nei confronti di chi, perché tutto è già successo. Perché non ci si può difendere dall’accaduto, le cose si possono allontanare, rimuovere, ma non si possono uccidere. Non si possono uccidere le sorprese. Non si può uccidere una ferita. 

VI

Vista da fuori la casa sembra aver preso fuoco. Le squame di legno che ne ricoprono le pareti esterne sono annerite. È in tiro. È solida ma soffre, nasconde. È una casa senza sbocchi, finestre sì, ma vie d’uscita zero. Tutto legno, come tutte le altre case: architettura sadica cento per cento legno. Muri in legno, travi in legno, pavimenti in legno, soffitti lavorati in legno, scalinate interne, porte, mostre delle porte e doppie finestre, tutto in legno. Tutto dello stesso colore lucido, rossastro, perfetto. Non sono poggiate sul suolo, qui le case sembrano uscire fuori dalla terra, come l’asse verticale di una croce acuminata a cui manca il pezzo orizzontale per completarsi. Da fuori hanno gli occhi, finestrelle da soffitta, in coppia. Se sei dentro non ti proteggono, se sei fuori ti osservano. Accanto a ogni casa c’è una legnaia. È tutto perfetto e facente parte di qualcosa di più grande qui, ogni azione è un tassello di un ingranaggio totale e intimo allo stesso tempo. Ogni cosa è qualcosa di inarrestabile per via del grande piano o di un grande desiderio sommerso. Per bruciare più velocemente nelle stufe i pezzi di legno sono a sezione triangolare e sono così perfettamente allineati nella nuova forma che creano, da sembrare una grande facciata di legno frantumata e ricomposta. Sono così ben tagliati che tagliano. Niente più che l’esistenza qui, niente più che l’esistere, l’esistere progettato, fatto, finito come un pentagramma, come un corpo completo. Niente più che questa offerta che non specula su sé stessa, ma si offre nuda nella sua violenza. È un paradiso.