Piove erba

Testi di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Isole Fær Øer, deserto verde, dove vivere un’estate nordica, spensierata e arruffata come la giovinezza. Contea autonoma del Regno di Danimarca, arcipelago raccolto spesso accostato a Scozia, Norvegia, Shetland, Orcadi, Ebridi, Groenlandia. L’“isola delle pecore”. E delle pulcinelle di mare, dell’erba, del muschio, del basalto, della luce artica, dell’acqua che scorre, delle saghe, dei tetti ricoperti d’erba. L’isola dei villaggi lillipuziani – Gjógv, Tjørnuvík, Saksun, Mykines, Syðrugøta, Klaksvík, Svínoy, Fugloy, Kirkjubøur, Gásadalur, Bøur – tutti orlati dall’oceano Atlantico settentrionale.  

Quell’anno Atlantic Airways inaugurava un volo diretto che collegava l’Italia e le isole Fær Øer. Una primavera fa, in quella maniera elementare con la quale mi resi conto sempre più di frequente finivo per scegliere la mia prossima destinazione nel mondo, iniziai a ripetere timidamente isole Fær Øer, diciotto isole sperdute in un mare freddo, un piccolo arcipelago a nord della Scozia e a sud dell’Islanda. Capii in seguito che non c’era bisogno che arrivassi in fondo a questa perifrasi per raccontare dove mi fossi messa in testa di andare, perché in ogni mio incontro le Fær Øer richiamavano un posto assolutamente presente nella testa del mio interlocutore. Quello che a me appariva un arcipelago della fantasia, benché potessi indicarlo rapidamente nel grande oceano Atlantico settentrionale, era conosciuto dalle persone più ordinarie. Conosciuto a qualche modo, s’intende. 

“Hanno una squadra nazionale di calcio”, mi disse il tassista, congedandosi e chiudendo con un gesto di routine il baule della sua vettura. “Avevano testato un volo diretto da Milano e uno da Barcellona e ha vinto Barcellona alla fine, così voi arrivate da Copenaghen, vero?”, mi disse Xavier, giovane uomo olandese con un taccuino a righe, la tenda in spalla e un bambino di dieci mesi a casa con la fidanzata. “Si chiama Oscar. Ha portato solo cose migliori nella mia vita. Per qualche giorno però devo andare da solo, capisci?”.

In quel battello vintage di tek scuro con i divani di pelle blu cobalto e gli oblò spessi come fondi di bottiglia avevo solo tre distrazioni, nessuna che mi appartenesse realmente: girare la carica a molla di un distributore di vetro di confetti di cioccolato marmorizzati per il freddo, sgattaiolare su per le ripide scale fino al ponte del battello e vedere con i miei occhi il prossimo imbarcadero con i passeggeri che perdevamo e quelli nuovi che accoglievamo, trovare il modo di chiedere a quel ragazzo magro e bello come un attore di cui non ricordavo il nome se facesse il mio stesso lavoro. “Sei reportagista di viaggio?”. Avevamo la stessa guida. “È l’unica delle isole Fær Øer”. “Infatti”.  Pensai che era stata quella guida a portarci tutti e due a perdere quel pomeriggio nelle isole più occidentali dell’arcipelago, ma a Xavier sembrava fosse andata meglio nel villaggio di Fugloy, mentre io ero atterrata (letteralmente, con cinque minuti di volo in elicottero nella foschia fitta, un volo di sola andata) a Svínoy e ai pochi abitanti incontrati non riusciva di trovare cosa avrei potuto fare nelle ore che mi separavano dalla prossima imbarcazione, che sarebbe arrivata in un momento imprecisato tra le quattro del pomeriggio e le cinque, a seconda del mare, dal lato opposto dell’isola. 

“Ogni faroese ambisce a trascorrere qualche giorno in queste isole lontane”, scriveva la nostra guida. Austero è la parola più diplomatica che posso trovare per un luogo assolutamente spartano, decisamente poco grazioso o accogliente. A ogni modo avrei dimenticato in fretta Svínoy. Non mi spiegavo piuttosto, e non mi spiego tuttora, come alcuni faroesi di seconda e terza generazione mi avessero allora potuto dire: “Mai stato a Mykines”, visto che Mykines rappresentava per me da due giorni ormai la gemma delle Fær Øer. Ma le volte che i programmi mi portavano fuori strada avevo imparato a dirmi ora-so-cosa-c’è-lì, oltre quella traversata, dietro a quella penisola, ora so cosa accade laggiù. O non accade proprio, nel caso di Svínoy.

Isola

Una dopo l’altra, tutti quanti noi turisti e viaggiatori avremmo toccato ogni estremità dell’arcipelago, saremmo andati alla fine di una strada, a nord, sud, est, ovest, per vedere con i nostri occhi cosa c’era lì. Mykines, estremo est, rubava la scena. Se il mare lo permetteva, avremmo raggiunto anche questa piccola isola e l’avremmo lasciata. Avevo letto milioni di volte come per impararlo a memoria quel passaggio della guida che diceva che il mare decideva quando portarci sull’isola e quando restituirci alla terra ferma. Ci ripetevano che una gita a Mykines andava programmata calcolando qualche giorno in più per comprendere gli imprevisti e ci ripetevano che era possibile trascorrere la notte lì, se il caso avesse voluto. “Il villaggio è molto ospitale, sono abituati ad accogliere la gente di passaggio”. Una minaccia divenne in me una speranza. 

Non volevo lasciare Mykines. Se fosse stata una giornata di burrasca, di nebbia fitta come ovatta, di vento matto del nord, sarei scesa alla banchina per prima a mettermi in fila per l’unico battello del ritorno, quello delle cinque. Ma voglio credere che quella giornata sarà ricordata dagli abitanti di Mykines come la loro più bella giornata dell’estate del 2015. I nonni tagliavano i prati d’erba sui tetti, i bambini più piccoli disegnavano caselle e fiori con i gessi colorati sui rari tratti d’asfalto, quelli un po’ più grandi giocavano a nascondino negli orti di patate, le ragazze in costume olimpionico e zoccoli di gomma chiacchieravano nella vasca d’acqua di fiume alla sommità del villaggio, la giovane svedese impiegata per la stagione nell’unica locanda del villaggio sbucciava mele e infornava dolcissime apple pie a ripetizione, prima che gli ospiti dell’isola tornassero dalla gita al faro, la più reclamizzata. 

Per me non ci fu nulla di più fortunato di potersi mescolare alla gente del posto e conoscerli uno a uno – una conoscenza fatta di sorrisi, di timide conversazioni, cercate da entrambe le parti. “Viviamo in Danimarca, ma l’estate è così tranquilla qui, i bambini possono stare nella natura, non ci sono pericoli”, mi dissero i nonni giovanissimi di folletti in tinte sgargianti di lana sferruzzata a mano. In cinque giorni su queste isole li avrei rivisti tutti, piccoli e grandi, io nel dondolio del battello e loro sulla piattaforma in cemento a livello del mare, o viceversa. 

Dopo pochi giorni, mi parve che la magia più grande di quel posto si concentrasse nel momento dei saluti, di chi si ritrovava o di chi si diceva arrivederci. Come in quei film sulle partenze e gli arrivi delle navi per il Nuovo Mondo, l’America dei migranti festosi e commossi, qui in scala ridottissima. 

Prima scaricavano le merci in contenitori misteriosi manovrati da snelle gru, poi il flusso di umani e di baci sulla guancia. In quella frazione d’ora il porto – una banchina tra gli scogli lucidi e una ripida scalinata in cemento per raggiungere l’unica via che sgocciola le persone verso il piccolo abitato dell’isola – il porto si riempiva e ritornava deserto e al villaggio restava solo qualche nonna a girare marmellata di rabarbaro e fragole sul fuoco. I porti erano il regno dei bambini, tra stivali di gomma e cerate spesse, palloni da calcio stretti sottobraccio, posti in piedi in equilibrio su quad potenti. 

Estate

Il giorno del ritorno arrivai all’aeroporto di Vágar con l’anticipo di un volo internazionale, benché sapessi che quello scalo non sarebbe stato tanto diverso dalla sala d’attesa ben ventilata di una moderna stazione d’autobus. Mi dissi che ne avrei approfittato per aprire il mio documento Word sulle Fær Øer. Mi resi conto solo allora che la natura di questo posto andava raccontata subito, prima del primo sonno, perché poi diventava normale, come tutte le cose straordinarie. Non c’erano alberi alle Fær Øer, piuttosto una tundra bassa, ma era un’erba folta, zolle morbide di erba umida e verdissima, pascoli naturali per cavalli allo stato brado, pecore dalle corna attorcigliate e agnelli. Un deserto ondulato, come un valico di montagna alpina oltre i 2000 metri, ma tutt’altro che brullo. I ruscelli erano serpenti d’acqua tra le rocce vulcaniche, a volte prendevano potenza e forma in cascate, le più grandi dell’arcipelago, mai spaventose e davvero imponenti, ma primordiali e dolcemente aliene, e io sentivo nel petto che appartenevano alla natura e che restavano altro da me essere umano. 

Quell’estate non avrei visto la notte scendere sui fiordi e sulle baie dal mio letto, avrei chiuso strati di tende su sere dalla luce morbida e femminina. 

Sollevai lo sguardo dal mio Mac ed ero di nuovo dentro a un momento di saluti, che nell’adolescenza si caricano della tenerezza degli addii. Una folla di scout di qualche maggiore città danese finiva il suo campo estivo nell’arcipelago. Sui corpi di alcuni – il colore rosa, le efelidi scarse, le orecchie grandi, la bellezza non comune, la divisa unisex, la statura fiera – il mio sguardo indugiò troppo a lungo. Mi ripetevo che là regna la giovinezza e mi sforzavo di ricordare se avevo visto un anziano di recente. 

Mi chiesi a cosa assomigliava quel posto, cerchiamo sempre ricordi condivisi per descrivere ciò che crediamo nuovo. I muretti a secco e la solitudine serena delle irlandesi isole Aran, le baie setose e pescose della Kamchatka, il rullo della consegna dei bagagli a Nome, Alaska, la tundra misteriosa, sempre in Alaska, sulla costa che guarda il mare di Bering, le cartoline dei piccoli villaggi colorati di tutti i paesi che si affacciano sull’Artico, il profumo persistente del salmone rosso selvaggio di qualunque parte del mondo, la semplicità infantile dei waffle belgi speziati al cardamomo, lo stupore provato al passo dell’Albula nell’estate svizzera, le gallerie dei libri di favole, buchi neri di minuscole proporzioni nella montagna verde. 

Il mio volo quell’anno avrebbe fatto scalo a Copenaghen, prima di atterrare a Milano. Non c’erano più voli diretti dall’Italia, ma ciò non aveva interferito con la mia idea precisa di attraversare da un capo all’altro le Fær Øer un luglio, quando le ore di luce sono quasi venti e a Mykines si può incappare in una splendida giornata d’estate. Xavier e io ci scriviamo di tanto in tanto, a gennaio lei è partita da sola per una settimana e lui ha fatto da genitore full-time. Ha detto che il nostro incontro lo ha rinforzato nel suo progetto di condurre una vita secondo la nostra natura più istintiva, libera da falsità e lustrini, pura. Non gli ho detto che per me le Fær Øer hanno esattamente il carattere che lui cerca di esprimere: istintivo, libero, puro. 

E mi chiedo dove abbia dormito quella notte, dopo che a Gøta ci salutammo alla fermata del primo autobus diretto alla capitale, lui sarebbe sceso dove la 10 incrocia la 62 che sale verso nord, superando la cascata di Fossá, avrebbe poi camminato nella sera chiara sull’unica traccia di asfalto ondulata verso il villaggio di Gjógv, avrebbe salutato i bambini che giocano sulle tre barche dello stagno tondo di acqua gelida di fiume e spero che alla fine di tutto questo andare abbia chiesto la stanza d’angolo presso l’unica locanda del paese, la stanza con la vista sulla prateria alta, a sinistra e, a destra, quella della baia, stupenda nella luce del risveglio.  

Altre Storie Da

Isole Faroe