“La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”
Bobby Sands
La prima volta che ho messo piede sull’Isola era il 1987 e lo devo a mio padre. Da quella volta sono tornato in Sardegna tutti gli anni della mia vita, ovvero per altri trenta, frequentandola e provando a conoscerla a fondo in ogni stagione. È una terra, soprattutto la Gallura, alla quale sono umanamente molto legato e che considero parte integrante della mia formazione personale. Altrettanto alcune delle persone alla quali sono più affezionato, sono nate qui o hanno deciso di andarci a vivere, creando per diverse ragioni una vasta comunità di expat (romani, bolognesi ma soprattutto milanesi, torinesi e argentini) che costituiscono una inaspettata realtà sociale da queste parti. Per molti anni ho lavorato sulle barche a vela e ho avuto modo di circumnavigare tre volte questa terra. Tuttavia dal mare, la prospettiva sulle cose è quasi sempre filtrata dal movimento, da un senso di temporaneità ineludibile. Si può ancorare o ormeggiare in un porto ovviamente, ma per diversi motivi sono rari i casi in cui ci si addentra realmente oltre la costa.
È il motivo questo, per cui di recente ho deciso di percorrere un viaggio attraverso l’interno, da nord a sud in auto, per prendermi del tempo da offrire alla contemplazione di luoghi e persone, per approfondire aspetti che avevo assorbito indirettamente o solo parzialmente e che ancora lasciavano spazio al dubbio e alla curiosità.
La partenza è dalla Val di Mela, una piccola zona collinare al nord della Gallura dove Caterina (che qui sta crescendo la piccola Nina) ha deciso di trasferirsi ormai quindici anni fa e dove ciclicamente torno per ritrovare un conforto che definirei atavico. Lo stazzu (tipica casa pastorale di queste zone) in cui sto soggiornando è immerso in un paesaggio lunare fatto di enormi rocce di granito e cespugli di mirto, una macchia attraversata da un’unica strada a tratti sterrata. Posizionato al centro di una alta collina – dove non di rado si possono incontrare cinghiali in cerca di cibo durante la notte o cavalli al pascolo di giorno – permette a chi ci vive o soggiorna una netta e chiara visione di tutto l’arcipelago della Maddalena, dei giri di vento e del via vai di imbarcazioni che caratterizza questi luoghi.
Smeralda, una trentina di chilometri circa, ma di quel mondo fatto di lusso esplicito e di costi proibitivi ai più, non c’è la minima traccia. In questo senso la Costa Smeralda è un fulgido esempio di quale sia stata per molti anni la percezione della Sardegna da parte dei continentali: un luogo splendido e selvaggio in cui ricreare in maniera posticcia il consueto sistema dei luoghi di villeggiattura anni Sessanta, cementificazione in chiave glamour. Un punto di vista, un atteggiamento che oggi in molti potrebbero definire colonialista (al pari della presenza delle basi NATO, fortunatamente sempre meno presenti sul territorio) e che senza dubbio ha creato dei malumori a livello locale, alimentando nel tempo degli stereotipi poco veritieri rispetto alla Sardegna e alla sua gente.
Da nord-est punto quindi verso casa di altri amici, a Santadi, un piccolo paese del Sulcis, profondo sud dell’Isola. In poco meno di sei ore di viaggio – cosciente della direzione di massima ma senza particolare premura – sono soggetto a continui cambi di paesaggio: nel mio progredire per certi versi randomico, dall’auto incontro boschi di castagno verdissimi o di sughere grigie, lande desolate e secche (che rendono chiaro perché la Sardegna sia stata per molti anni utilizzata dall’industria degli spaghetti western), montagne di granito, laghi salati e campi per la coltivazione di carciofi o di grano si susseguono in un continuo cambio di altitudini e prospettive. A colpire inevitabilmente sono le differenze, a pochi chilometri l’una dall’altra, che questa terra offre. Una molteplicità paesaggistica che è anche linguistica e culturale in un territorio di poco più di 25.000 chilometri quadri.
Arrivato a destinazione incontro Kyre e Ivano, lei americana e lui milanese cresciuto da genitori sardi. La loro storia è per molti versi paradigmatica per descrivere l’isola nel suo potenziale più odierno. Dopo alcuni anni vissuti a NY e altrettanti vissuti a Milano lavorando con successo nel sistema dell’industria creativa, hanno deciso di trasferirsi qui assieme ai loro due figli, Leroy e Antioca. Hanno acquistato un pezzo di terra al cui interno si sviluppa un piccolo agglomerato in stato di abbandono costituito da una casa e una stalla e un paio di ovili. Da un anno ormai stanno lavorando alla ricostruzione della casa alla quale dovrebbero seguire gli altri stabili. Si tratta di un lavoro duro e costante – fatto con le mani e una reale fatica fisica – ma anche probabilmente di un primo strumento di integrazione con la gente del posto, un confronto diretto basato su esperienze condivise tra massi da spostare e terra da spalare.
Al di là dell’impressione romantica e bucolica che può suscitare la loro scelta – la fuga dalla città in cerca di un ambiente più sano e concreto in cui crescere i bambini – è interessante capire l’approccio con cui hanno intrapreso questo percorso. Anche grazie a loro, ho sentito parlare di Sardegna in maniera contemporanea, fuori dalla consueta retorica folkloristica succube di una cultura continentale che vorrebbe mantenere quei luoghi cristallizzati nel tempo per il proprio uso e consumo estivo o al di là di sentimenti separatisti ormai poco aderenti alla realtà. L’aspetto più significativo è la loro attitudine a trattare e promuovere, attraverso il progetto Pretziada, la cultura sarda in maniera laica, con il piglio e gli strumenti che hanno affilato grazie alle loro precedenti esperienze lavorative e nella loro capacità di dialogare, finalmente in maniera paritetica, con il tessuto sociale locale. Ivano mi ha raccontato delle difficoltà riscontrate i primi tempi per inserirsi all’interno della comunità, lei “l’americana’’ lui “l’alieno’’ che parla in dialetto campidanese.
Tuttavia è grazie ai piccoli cortocircuiti che sono stati in grado di attivare, tra le aspettative tardo coloniali di chi arriva dal continente e le reazioni protezioniste o indipendentiste (ormai ridotte) degli isolani, che stanno rafforzando (internamente ed esternamente) la visione di una regione che non solo non è più derivativa rispetto al resto del mondo ma, anzi, è sempre più capace di produrre da sé contenuti e immaginari a cavallo tra la tradizione e l’innovazione. Certo non è un processo immediato, da scalfire e mettere in crisi rimangono ancora delle concezioni ben radicate nei confronti della Sardegna e altrettante alimentate per convenienza e miopia al suo interno. Sono piuttosto certo però che anche grazie a persone come Caterina, Kyre, Ivano e i tanti che sono venuti qui a vivere, si stiano alimentando sempre più commistioni e intrecci tra persone, esperienze e visioni che possono far risplendere quest’isola con forza sempre maggiore.