Da bambino, nei giorni di festa, mi svegliava l’odore dolce amaro dell’agnello, si preparava fuori in uno spiazzo ripulito tra gli olivi e quercioli. All’arrosto nella mia famiglia ci hanno sempre pensato gli uomini, è un lavoro lungo fatto di attese e controlli e di storie per passare il tempo. Le donne, in casa, preparavano i ravioli di ricotta e i malloreddos. A noi bambini spettava l’incombenza di posizionare la pasta fresca su un telo di lino grezzo perché si asciugasse. Il pranzo della festa era un rito collettivo, un modo per saggiare l’unità della famiglia. I vecchi si dividevano equamente: le nonne in casa a dare consigli, i nonni in cortile a versare il vino. Sulla cottura dell’agnello c’erano varie scuole di pensiero: quella dei tradizionalisti, che lo volevano infossato; quella dei modernisti, che lo volevano infilzato. Le due scuole erano distanti sia per modalità che per filosofia. L’infossatura era un metodo per gente molto paziente, per gente che sapeva quello che faceva; l’impalatura era per gente spiccia, che voleva avere tutto sotto controllo.
L’infossatura richiedeva una preparazione complessa, si iniziava scavando una fossa abbastanza profonda che potesse contenere l’agnello, poi si preparavano una brace di quercia, con bacche di ginepro e cespugli di mirto, su questo letto “ardente” si posava la bestia scuoiata e lasciata a frollare per tre notti, quindi si ricopriva con un altro mirto, ginepro, timo e rosmarino, il tutto veniva a sua volta ricoperto di terra. In cima al tumulo si lasciava uno sfiatatoio. E poi si aspettava. Ma non era un attendere passivo, chi seppelliva l’agnello non si spostava mai dal “forno”, pareva che avesse lo sguardo a raggi X, perché sapeva, capiva dal colore del fumo, dal profumo che emanava dallo sfiatatoio. Dopo ore di attesa si stabiliva che era arrivato il momento, con delicatezza si disseppelliva, si toglieva lo strato di terra e la copertura aromatica. L’agnello giaceva nel fondo, brunito e croccante, ma non asciutto, la sua carne restava umida e saporita, un’esperienza unica.
L’impalatura richiedeva un lavoro preliminare che riguardava soprattutto il corretto inserimento dello spiedo, la distanza dalla brace, che doveva essere di due tre palmi e, cosa fondamentale, il posizionamento verticale della carne da arrostire, alla turca; gli impalatori controllavano la cottura minuto per minuto e facevano ruotare lo spiedo. Il risultato era una carne più asciutta e un sapore più naturale. Una differenza che è anche appartenenza, un sapore che è anche identità.
Più mi allontano e più mi trovo al punto di partenza. Anni di distanza e basta un odore a riportarmi indietro, basta un sapore a riportami indietro. E un suono lontano, magari appena accennato, mi risucchia verso casa. Un gregge visto dai finestrini di un treno. Un accento percepito in un ufficio pubblico, al ristorante, al supermercato. E il concorrente sardo al telequiz, al talent show… L’autore sardo in libreria. L’insegna col nuraghe nella grande città straniera. Il souvenir a casa di un conoscente. La cartolina estiva calamitata sul frigorifero… Tutto, tutto mi riporta a casa quando credo di esserne definitivamente partito.
Estratto da In Sardegna non c’è il mare di Marcello Fois. Editori Laterza, 2013.