Oggi a noi fringuelli dal becco diverso, destinati a illustrare corposi manuali sull’evoluzione, appaiono altri individui della stessa specie. Come sono diversi dal quel rampollo alle prime armi che ci ha visitato quasi 200 anni fa e che, arrogandosi “nobili intenzioni di ricercatore”, lanciava iguana in mare facendole roteare per la coda. Questi sono individui timidi, timorosi per la propria estinzione, coscienti di esserne la prima causa. Non abbiamo mai pensato fossero così interessanti fino a ora. Arrivano qui per mostrarsi in mezzo a colate di lava, flutti di alghe, voli di zampe blu, granchi abbarbicati sul loro rossore, per avere uno sfondo della propria sparizione. Si guardano nel nostro specchio, ma non vedono i nostri occhi che li osservano. Dopo quasi due secoli non odono le nostre voci, non le interpretano e non capiscono che cosa vorremmo dire loro di loro stessi. Appaiono come smarrite ombre convinte di non far parte di nulla se non di un congresso di guardoni.
Cosa c’è di tanto straordinario nell’arcipelago delle Galápagos da avere la forza di evocare, in chi visita e immagina queste isole, gli scenari più affascinanti e allo stesso tempo quelli più ambigui? Splendide e selvagge, dalla natura di turbolenza pietrificata, con il nero abbacinante delle colate laviche, la presenza affollata di esseri viventi, sono luoghi incastonati nel mare, difesi dalla loro irraggiungibilità. È difficile rispondere, ma basta pronunciarne il nome per vedere in chi ascolta risvegliarsi un’attenzione mista a curiosità. È la reazione di chi in qualche modo “sa”, ne ha sentito parlare, le ha immaginate e sognate. Non a caso per secoli le Galápagos sono state chiamate Islas Encantadas. L’incanto qui non è quello estetico, il meraviglioso, ma quello magico, l’incantesimo. È lo stesso che usano i bambini quando si rincorrono nel gioco chiamato “espanto y miedo” nei paesi dell’America Latina, il nostro “belle statuine”, durante cui si può fermare il tempo.
Las Islas Encantadas, dunque, sono sotto un incantesimo lontano dall’essere roseo e bonario. Chi le descrive per primo, Melville, giovane imbarcato sulla baleniera Acushnet ne vede tutto il grottesco (letteralmente); narra storie, che raramente hanno un lieto fine, di pirati e naufraghi, di avventurieri e folli, di solitari che schiavizzano i loro compagni di sventura. Racconta che l’unico suono che si può sentire è il sibilo degli uccelli, delle tartarughe che quando hanno paura svuotano i polmoni per riuscire a ritrarre la testa nel carapace, degli iguana, dei leoni marini, delle acque violentemente incanalate che diventano soffioni tra le rocce. A Melville non rimane che passare le notti a vegliare le immense tartarughe che si muovono lentamente e inesorabilmente sulla tolda della nave, catturate dai balenieri come provviste. Immediatamente questi animali secolari lo fanno pensare alla stranezza del tempo, al suo procedere incessante.
È l’incantesimo di un luogo da cui è difficile non farsi travolgere metafisicamente e che costringe a relazionarsi con quanto esiste al di fuori del sé, alla storia del pianeta, alle origini, al cosmo, alle immagini e all’immaginazione. Qui, in questa straripante bellezza, l’anima non ha pace. Nell’assolutezza dell’apparire delle isole, si viene stregati. Il giovane Darwin, rampollo della classe intellettuale inglese, abbastanza smaliziato per stupirsi della disponibilità e dell’attitudine mite degli animali che lo circondano, si diverte a prendere per la coda le iguana, a farle roteare in aria e a buttarle in acqua per guardarle nuotare verso riva. Lo stesso non accade al capitano del Beagle, Fitzroy. Questo si sente psicologicamente minacciato dalla forza delle isole, turbato alla vista di questi luoghi all’apparenza così sereni. La sua solitudine di uomo al comando, che sperava potesse essere alleviata dal coetaneo Darwin, lo pervade spinta dall’evidenza che Darwin è più veloce, più dotato intellettualmente, più spregiudicato. Le Galápagos saranno la fine della loro amicizia.
Qui, in mezzo alla quantità di uccelli, albatros, pinguini, leoni marini che ci osservano spesso non è difficile avere il sospetto che questi esseri non siano nient’altro che umani, approdati sull’isola di Circe e trasformati da una maga seduttrice, figlia del Sole, una dea potente la cui voce non si sa se è grido o canto.
Le isole sono l’archetipo di tutti i romanzi d’avventura del periodo moderno. Spesso sono luoghi dove il protagonista naufraga, per cause di forza maggiore o per lasciare il vecchio mondo e cominciare una nuova vita, improntata al ritorno alle origini. L’isola incarna paure ancestrali così come la forza delle utopie vetero-hippie. Georges Simenon rimasto affascinato dalla storia di Floreana, l’isolotto più remoto delle Galápagos, dove negli anni Trenta un gruppo di tedeschi ha cercato di costruire una vita selvaggia, ne ha tratto il suo straordinario Hôtel del Ritorno alla Natura. Il racconto reale e la sua ripresa da parte di Simenon si mescolano; siamo di fronte al Paradiso perduto di Milton, ma anche all’impossibilità di un rapporto equilibrato con la natura. In queste isole, tutta l’umanità è naufraga e lo rimane, perché si rende conto che la perfezione gotica del luogo risiede proprio nell’assenza dell’essere umano, il cui potenziale è solo quello di spiare il selvatico senza esserne parte.
La letteratura sulle Galápagos, fino a oggi, oscilla sempre con salti avanti e indietro nel tempo tra passato e futuro e produce un genere di fantascienza dove racconti di situazioni primigenie si intervallano a catastrofi. Kurt Vonnegut nel suo Galápagos vi ambienta una fine del mondo: qui si svolge l’ultimo episodio della storia umana. “A quel tempo” racconta Vonnegut “gli esseri umani erano dotati di cervelli molto più grossi di quelli attuali, e di conseguenza potevano lasciarsi sedurre dai misteri. Uno di tali misteri era come un numero tanto elevato di creature incapaci di percorrere grandi distanze a nuoto fosse riuscito a raggiungere le isole […]. Molti soddisfacevano i loro grossi cervelli dandosi questa risposta: erano arrivati a bordo di zattere naturali.”
Oggi le Galápagos sono il laboratorio da preservare per rendere l’umanità capace di ripensarsi, di accettare con umiltà un ruolo finalmente secondario. Sono luoghi che vi tramutano, vi trasformano e mentre nuotate con i leoni marini vi costringono a pensare.