Il rumore degli animali

Testo di Franco La Cecla

A nascondino, mentre non lo vedo mi si infila a destra, il suo pelo mi sfiora. Come d’impulso scarto a sinistra. Si immerge, gira su di sé, mi mostra il ventre liscio, e poi, mentre lo guardo mi punta, arriva con i suoi baffi a pochi centimetri dalla mia faccia. Velocissimo giravolta, chiama il fratello, giocano a intrecciarsi, escono col dorso fuori dall’acqua, si immergono, siluri nel buio blu. Mentre nuoto me lo lascio dietro, ma il gioco continua, vogliono sorprendermi, mi sfrecciano accanto, dorati e lucidi, con la scia di bolle che li avvolgono, il muso peloso e giallo, le pinne strette sui fianchi. Quando esco dall’acqua, delusi, saltano, insistono, si accalcano, fanno ribollire il blu, misurano in freccia la distanza tra lo Zodiac e la roccia. 

Cosa significa per me, urbano, affollato di storie di persone, distratto dalle routine anche in questo viaggio, cosa significa averci avuto a che fare per cinque lunghi giorni, tra le acque fredde delle Galápagos, sui fondali sabbiosi di Isabella, i coralli di Española, le iguane che pascolano le alghe saporite della costa? Cosa? Mi spiegano che questi leoni marini sono diversi da altri, qui meno sospettosi di noi umani. Si avvicinano, giocano, perché ovviamente noi siamo qualcosa, qualcuno di cui afferrano la possibile natura giocosa. Possibile davvero che di noi, del nostro essere così complessi e complicati afferrino questo? Da dove lo avrebbero intuito? Nelle nostre braccia, nelle nostre gambe, nelle nostre maschere di gomma, nelle mute che vagamente e rozzamente somigliano al loro manto? Siamo dunque bambini come loro? Siamo disposti sempre a giocare? Sembra loro che il fatto stesso che nuotiamo, ci muoviamo corrisponda alla vocazione al gioco. Gli esperti raccontano che per loro il gioco è il continuo training della caccia, dello sfuggire ai predatori, dell’apprendere gli anfratti e le cavità del mare. Sì, un gioco serio, come tutti i giochi dei bambini, ma pur sempre il gioco, il GIOCO, quello che presuppone che chi lo fa lo faccia capire: QUESTO è UN GIOCO!. E cosa c’è di meno discutibile di questo? Che loro, i cuccioli dei leoni marini vogliono giocare, e vogliano giocare con noi? Questo è un gioco! Ci sono decine di segni a questo scopo. C’è il nascondino, anzitutto, hide and seek, se li seguiamo con lo guardo loro fanno di tutto per sfuggire alla nostra vista per poi sorprenderci da dietro. Sono bambini, diversi dal padre che invece quando può abbaia, ci fa capire che se ci mettiamo tra lui e la costa farà presto rimarcare che questo è il suo territorio, ma loro no, sono bambini e come tali non hanno nemmeno bisogno di segnare il territorio, lo aprono come se fosse un campo, la loro piscina, i metri cubi del loro nuotare. Forse nel nuotare c’è il segreto del loro presumere di comunicarci qualcosa. Forse per loro sono le nostre pinne, le nostre falcate di braccia e di gambe a essere il verbo e l’aggettivo e a essere soprattutto il sì, l’accordo all’invito a giocare. 

Sarà difficile dimenticare tutto questo, è stato magnifico averlo trovato, ritrovato. C’è al mondo più che un gioco giocabile, c’è qualcosa che supera il giro muto dell’acqua, le pupille nittitanti, il folto strato di grasso, i fondali in cui si immergeranno tra killer e amici, mentre noi tra le strade percorreremo in auto chilometri, ci fermeremo a semafori, avremo l’illusione che tutto sia così serio. E ogni tanto torneremo a stupirci di essere stati invitati a giocare e di essere riusciti a giocare con loro.

Hermann Melville arriva alle Galápagos sei anni dopo Darwin, nel 1841. È imbarcato su una baleniera, la Acushnet. Si fermano com’è d’uso ai balenieri a rifornirsi d’acqua in una delle poche sorgenti delle isole e a fare scorta di tartarughe giganti. Sono animali enormi, una provvista di carne viva che resiste per mesi senza avere bisogno di cibo e di acqua. Melville ha ventisei anni, passa la notte a osservare le testuggini che si muovono sul ponte, la loro inesorabile lentezza e ostinazione, il loro incontrare ostacoli e superarli, aggirarli. Melville, da ragazzo metafisico, pensa alla natura del tempo. Sulle isole che ha visitato (ne scriverà decenni dopo, quando Moby Dick lo avrà quasi portato al fallimento come scrittore) le Galápagos, oscure, vulcaniche, gotiche, stregate dirà che l’unico vero rumore costante che si sente è un sibilo. Tutti gli animali che vede sibilano, le fregate dalla coda biforcuta, le sule dalle zampe blu, le inerti iguana e soprattutto le enormi tartarughe. Quando si sentono minacciate rientrano la testa dentro al carapace, e per farlo devono espellere tutta l’aria che hanno nei polmoni. Un sibilo spazientito, lungo.

Il rumore che fanno gli animali. I piccoli dei leoni marini pigolano, nel cercare le ghiandole mammarie delle madri che sono troppo esauste per dirigerli, si lamentano un po’, ma quando cominciano più grandi a giocare fanno dei suoni diversi, degli schiocchi, delle esclamazioni come quelle delle foche. I padri, severi, in acqua ringhiano, rivendicano il loro territorio. I fringuelli che hanno dato tanto a Darwin pigolano, i tordi, che erano la sua passione fischiano, gli albatros lanciano grida, le sule si danno colpi sul becco per duellare e accoppiarsi. In mezzo a questi suoni mi sento come un europeo sulla metropolitana di Tokyo. Sono solo in mezzo a loro e non capisco il loro linguaggio. Sono un estraneo in un mondo di fitti discorsi. Sull’isola di Española, un gioiello della restaurazione ecologica, mi sento in mezzo a una folla. E i suoni mi danno certamente l’impressione del disagio di Melville, quel brivido del limite, dell’abisso che mi divide da questi esseri, un abisso che mi dà le vertigini perché è la tentazione costante a credere che sto quasi capendo, che quasi potrei pigolare, ringhiare, fischiare, squittire, sibilare. Immagino che i coniugi Grant che hanno rivoluzionato la biologia lavorando dagli anni Settanta ai Novanta sull’isola di Daphne Mayor per studiare i fringuelli di Darwin – immagino che a un certo punto abbiano cominciato davvero a capirne il linguaggio. Loro hanno frequentato e registrato in maniera precisa e dettagliata le famiglie, le generazioni, i cambiamenti a ogni passaggio tra padri, figli, nipoti. Hanno dato nomi personali, affettuosi a tutti. Quando dopo un decennio sono tornati riconoscevano i singoli individui adulti, maturi, infanti. Peter e Rosemary Grant hanno dimostrato che Darwin aveva ragione e la loro storia è diventata anche un magnifico racconto che ha vinto il Pulitzer. Darwin invece si divertiva, poco o per nulla metafisico, afferrava le iguane per la coda e le lanciava in mare per verificare, stupito, che tornassero indietro da lui. Animali che non avendo quasi contatti con gli umani si fidavano. Per raccogliere gli specimen che gli servivano gli bastava dare loro una botta in testa, per poterli sezionare e imbalsamare. Soprattutto era contento che lo avessero lasciato sulla riva, e che lo scontroso coetaneo Fitzroy se ne fosse andato a fare rifornimenti con il Beagle. Nell’insieme il venticinquenne Charles si stupiva, esplorava, cavalcava le immense tartarughe. Al contrario di Melville osservava che erano animali veloci, per rifornirsi di acqua percorrevano chilometri e tornavano indietro per rilasciare e covare le uova. Animali molto più attivi e rapidi delle iguane, e soprattutto testimoni della felicità di essere abitanti di un luogo che consentiva loro di raggiungere la massima dimensione e di vivere per centinaia di anni. Charles se ne portò uno a casa che passò a miglior vita solo il 23 giugno del 2006 (Darwin ci lascia nel 1882). Chissà che riflessione sul tempo ne avrebbe dedotto Melville.

La bellezza. Ci sono momenti, quando si arriva con il gommone sulle spiagge in cui ci si sente benedetti. Il fatto che qualcuno abbia pensato di proteggere in qualche modo, l’isolamento naturale di queste isole fa sì che questi luoghi siano effettivamente un’eccezione nella esperienza che possiamo avere del mondo. Dicono che tutt’ora buona parte, la metà della diversità biologica del pianeta, si trovi sulle isole. E queste, recenti per eruzioni vulcaniche e lontane dalle rotte per secoli, sono tra le più ricche. Pirati, balenieri, coloni, capre, specie invasive, mosquitos, febbri aviarie le hanno minacciate. E oggi sicuramente tra le migliaia di abitanti sulle grandi isole e il turismo c’è il rischio che tutto questo si perda. Però allo stesso tempo ci sono molti interessi perché non solo rimanga, ma venga restaurata ecologicamente. Le capre sono state completamente eradicate, e grandi investimenti internazionali hanno reintrodotto specie che erano quasi estinte, come le tartarughe e gli albatros. Queste isole sono ancora un laboratorio importantissimo per buona parte dei ricercatori e dei laboratori più avanzati nel mondo di biologia, genetica, etologia, e in genere per le scienze naturali. è importante capire che non costituiscono un capriccio in un mondo pieno di problemi, ma un luogo in cui cercarne le soluzioni. Qui molte delle situazioni compromesse nel resto del globo possono trovare un itinerario per recuperare, per comprendere che oltre alla devastazione siamo capaci di costruire, di ricostruire con le correnti, le dinamiche, le variazioni che la natura stessa si dà. Se c’è qualcosa di importante nella teoria dell’evoluzione è l’idea che la natura ostacolata cerca altre vie, che c’è un modo in cui popolazioni minacciate di estinzione possono cercare alternative oppure trasformarsi per averle, come i cormorani che qui hanno perso la capacità di volare perché dovevano dedicarsi di più alla pesca e al nuoto per procacciarsi il cibo. Da un certo punto di vista le Galápagos sono scuole di adattamento, e lo sono anche per noi. Sopravvivere in un mondo complesso e devastato implica che noi stessi facciamo parte della storia della evoluzione e delle possibilità di adattamento e trasformazione. È una sfida piena di speranza, ancora per un po’, ma solo se siamo capaci, anche venendo qua, di renderci conto che quella che chiamiamo “natura” è una continua azione, un continuo incredibile lavoro dinamico, un girarsi, un cambiare rotta, un reagire, un trasformarsi. Da questo punto di vista la “natura” sicuramente ci sopravvivrà come la tartaruga di Darwin e solo se riusciremo a tradurre nei nostri linguaggi cosa lei dice avremo una possibilità anche noi. 

Infine, come dice a proposito della evoluzione il grande scrittore guatemalteco Augusto Monterosso (quello che ha scritto il più corto racconto della storia della letteratura il dinosauro si svegliò per scoprire che era ancora lì): Conviene avvertire, per ultimo, che il mio interesse per la genealogia è nullo. Per linea britannica tutti discendiamo da Darwin.

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