Insalata dei sensi

Testo e fotografie di Luca Trevisani

Colori
Per raccontarle, queste isole uniche e preziose si potrebbe iniziare dai colori, ma sarebbe decisamente troppo scontato, un’infilata di luoghi comuni banali e stanchi. Meglio allora non partire dal cobalto dei piedi delle sule dai piedi azzurri, troppo ovvio, o dal rosso saturo della pappagorgia dei maschi di fregata magnificens, dalle loro gole scarlatte che gonfiano d’aria come nemmeno Charlie Parker, dando vita a una cerimonia di commuovente seduzione pneumatica. Inevitabile poi proseguire con il viola squillante degli occhi dei granchi, o con la grigissima lava dell’isola di Santiago, che poi a guardar bene grigia non è, ma una frittura iridescente e marezzata di sali minerali, coagulati dal magma in un bagno galvanico che si estende per svariati chilometri quadrati. E ancora poi il lucido carbone nero delle iguana, che a volte però sono giallo agrume, e altre si presentano sotto forma di arcobaleni digitali dalle squame cangianti, tipo i pixel di un led wall a Times Square. I frutti colorati ed esuberanti di quella lotta cosmica che chiamiamo evoluzione qui si mescolano alle tinte mimetico militari di tecnicissimi cappelli parasole, o ai pantaloni cachi dei turisti americani, che spesso arrivano agghindati per uno sbarco agonistico che sembra quasi di assistere alla conquista di Marte, ma con il rossetto. 

Ma se di colori si parli, che sia quello del vero e sorprendente protagonista di questo paesaggio, che sia del candore endemico e inodore del guano secco. Stabbio, concime, cacca, qui è tutto un arabesco di bianchissima merda che cresce finalmente senza vergogna su arbusti e mangrovie e sassi e tutto il resto, senza soluzione di continuità. Semiotica organica, traccia di vita, la deiezione non è più materia scomoda, o imbarazzo da occultare, bensì strumento d’architettura ambientale, vettore d’incroci e di mescolamenti. Sono le cacche d’uccello ad aver trasportato fin qui, a mille chilometri dalla terra ferma, molti dei semi delle piante che ora prosperano su queste isole asteroide, sono le testuggini e le loro feci a spostar piante e batteri lungo l’arcipelago. Il guano è la matita di un immenso e inarrestabile disegno collettivo del paesaggio, come sull’isola Española, le cui rocce basaltiche sono butterate come un emmental, scavato dall’acido urico che gli uccelli vi hanno liberato per millenni, prima di venir decimati della nostra pesca intensiva.

Odori
Lasciamo perdere i colori, emancipiamoci dalla gerarchia dei sensi che ci vuole schiavi della retina, e rincominciamo, partendo dagli odori. Concentriamoci, chiudiamo le palpebre, ed ecco che ci ritroviamo avvolti dall’alito dei leoni marini, i fotogenici gatti delle Galápagos, la cui dieta a base di pesce riempie inesorabilmente l’aria che respiriamo. Il sale, le ossa di balena, il corallo sbriciolato in sabbia fredda e spumosa, qui il fiuto viene sollecitato da variazioni minime, frammenti, indizi, ma anche con esplosioni violente, come i copiosi fumi d’ammoniaca che annunciano i gomitoli informi in cui si ammassano le iguana, che tentano così di trattenere il calore dei raggi del sole. 

Turismo delle narici. Se un giorno qualcuno dovesse scrivere una topografia degli odori, una geografia dettata dal naso, mi raccomando non si dimentichi dell’aroma delle stigghiole di Palermo, i vapori delle budella d’agnello che affumicano la Vucciria senza requie, ma non si scordi nemmeno la fragranza delle canne da zucchero triturate dai baracchini di Mumbai, che nel farne nettare le nebulizzano in un incenso penetrante, ma soprattutto, mi raccomando, non tralasciare per nulla al mondo i suffumigi del palo santo di Quito, che qui brucia in una sorta d’incendio in miniatura, frammentato in mille scatole di latta, e ritmato dal vento andino. Per strada, nei sottoscala, nelle botteghe, a ogni angolo e da ogni dove cresce questa nebbia padana dolce e secca, morbida come burro ma anche un po’ pungente, che t’invade e non ti molla più. Esistono odori eclatanti, eccessivi e fuori norma, ma forse i miei preferiti sono quelli discreti e misurati, e quindi impalpabili, e perciò davvero seducenti. Penso alla solenne semplicità del Convento de la Recoleta, sempre a Quito, che trova compimento nel profumo dei suoi pavimenti e dei suoi legni, così tanto cerati da sembrare soffici ai piedi, con un unguento dell’essenza così intensa da far ricordare quelli al mentolo dei fisioterapisti, o una mesticheria d’altri tempi.

Gusti
Benvenuti nell’arcipelago insalata, nel regno del guazzabuglio al sapor d’arlecchino. Qui tutto convive in una mescolanza confusa e disordinata, in un impasto pieno d’energia. In un fazzoletto di terra s’incontra il matrimonio degli opposti: le mangrovie con i cactus, i pinguini con le iguane, gli animali dal freddo e dal caldo che se la spassano assieme in una macedonia misteriosa. C’è chi è arrivato dalla California come i leoni marini e chi dal polo sud, chi da est come i rettili e chi da un cartone animato creazionista come gli squali martello, che se li vedi, non ci credi.
Ogni isola è una diversa collezione di chimere, una particolare palestra genetica, un carnevale morale, un accumulo gioioso come la cesta dei giochi di un bambino. Se è vero come è vero che la somma vale sempre più delle sue parti, qui l’aforisma si fa accecante verità. L’individuo, l’unico, la solitudine, Max Stirner, Leibniz e la sua monade, tutta roba che qui non è mai arrivata, parole che non compaiono nel vocabolario galapagoso. 

Ogni cosa che qui s’incontra obbedisce solo alla legge della sopravvivenza, in una lotta feroce ma placida, senza rabbia e priva di lamenti. Queste isole sono un tempio della metamorfosi severo e fragile, tanto crudele quanto sfacciato, e quindi per forza ingenuo. Non pensiate a un Eden nostalgico e in technicolor, per carità, qui non si registra alcuna emotività, l’empatia è sconosciuta, e tra tutte le bestie –noi inclusi– aleggia solo una pura e destabilizzante indifferenza. Questo è il motivo per cui far foto alle Galápagos è terribilmente facile, ma anche facilmente terribile, perché le tue prede non mostrano nessuna paura, né sospetto alcuno, non scappano infastidite e non invocano alcuna privacy: ti ignorano platealmente, mandando in soffitta ogni umano orgoglio.

Suoni
Quel che al buio non si può esprimere col colore, nella notte della giungla si fa concerto. La gara dei decibel nel buio dell’Amazzonia non lascia scampo: senza tappi per le orecchie dormire risulta decisamente impossibile. È una vertigine sonora, un organismo in vibrazione costante, una voce primordiale che ti avvolge e ti rapisce. Il solo antidoto che viene in mente, un po’ per tentare di resistere, ma forse più per sprofondare nel canto di queste sirene, è di provare a descriverne le voci, i timbri, le sfumature. Ecco che allora accendo il computer, e mano a mano, secondo dopo secondo, tento di trascrivere ogni suono che mi attraversa, di farmi stenografo al servizio di questo concerto eccessivo. 

È subito un suonare d’allarmi, stolidi e disperati come l’antifurto di una macchina, in cui si inseriscono subito gli echi di mille sveglie digitali, che cozzano una dentro l’altra, e a cui si sovrappone il tip-tap di innumerevoli macchine da scrivere, di quelle vecchie, analogiche, sbatacchiate da milioni di dita nervose. Ecco ora dei singhiozzi, ma così profondi che sono tonfi che rimbombano nella gola di un gigante, e poi ancora dei loop elettronici, come morbidi arabeschi, e poi dei morbosi risucchi erotici, e ancora il frinire delle cicale, così copioso e ritmato da farsi solido come una tenda. Lo stridere dei pipistrelli che girano su sé stessi in ellissi, il cigolio di una vecchia armatura medievale, e il ronzare arrugginito di una sega circolare sgangherata e fuori registro, e il tubare di un uccello sincopato e col vocoder, e infine la voce di un muezzin registrata su di un vecchio nastro, e poi rallentata milioni di volte, fino a farsi onda, massaggio, carezza. 

Qualcuno farfuglia, qualcosa fischia, chi cigola e chi bubola e chi ronza. Sembra di stare dentro un flipper cosmico, distorto e spiritato, dove a ogni momento si aggiungono nuove palline e quelle vecchie non smettono di agitarsi, parlando con ancestrale carisma. Quanto vorrei aver il talento necessario per descrivere questa cuccagna, ma qui è tutto uno straripare, un esondare di voci, ed è così difficile arginarle con le parole, definirle, separarle dal brodo in cui sguazzano. La legge della foresta è l’accumulo, la sua economia l’indigestione, e la sua regola il troppo.

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