Ethio Jazz: Coordinate essenziali per lo smarrimento

Testo di Pierluigi Ledda
Fotografie dal libro Vintage Addis Ababa

Come musicisti dobbiamo guardare al passato, andare all’origine, perché lì troveremo sempre qualcosa di interessante”. 
Mulatu Astatke

Nel tentativo di cogliere lo spirito della musica etiope, in particolare quell’avventuroso ibrido multiforme che prende il nome di Ethio jazz, ci viene in aiuto questo breve ma illuminante pensiero di Mulatu Astatke, riconosciuto padre del genere, nella preziosa lecture rilasciata alla Redbull Music Academy nel 2007. Come suggerisce la citazione, l’Ethio jazz è il risultato di un processo che guarda alle tradizioni musicali etiopi, a un passato che è sia eredità culturale sia immaginario ancestrale, per ibridarle attraverso stilemi e strumenti contemporanei. Un lavoro combinatorio e radioso il suo che ha modificato il DNA musicale delle origini disegnando nuove prospettive, plasmando un linguaggio che se certamente è il profondo sentire musicale di un luogo, l’Etiopia, è soprattutto mosso da un senso di astrazione e pulsione verso altri mondi. 

Un buon punto di partenza per prendere confidenza col genere è il primo album di Astatke, Mulatu of Ethiopia del 1972, scintillante ibrido dove a impressionare non sono i virtuosismi ma la visione musicale, i colori inediti, i groove tondi. Lontano dal pastiche, è prototipo al contempo scientifico e giocoso in cui il risultato è maggiore della sommatoria delle influenze che lo animano: scale melodiche etiopi, ritmi Latin jazz, sintesi funk, sospensioni e atmosfere cinematografiche. L’album è stato recentemente ristampato dall’inglese Strut, a riprova del crescente interesse internazionale per il laboratorio musicale etiope.  

Un altro nume tutelare è Hailu Mergia, tastierista etiope trapiantato a Washington dove alla carriera musicale ha affiancato il lavoro di tassista, personalità meno esposta e istituzionalizzata di Astatke ma non meno cruciale nella messa a punto di prototipi Ethio jazz, traghettatore del classicismo dei padri nel futuro grazie all’integrazione di strumenti “altri” come accordion, Rhodes e drum machine. Se il suo album di debutto, Tche Belew del 1977 e la recente raccolta Hailu Mergia & His Classical Instrument: Shemonmuanaye curata dalla Awesome Tapes from Africa sono tasselli fondamentali e ormai considerati dei piccoli classici, è il suo ultimo lavoro Lala Belu del 2018 che lascia intravedere nuove pulsioni e un senso di inesauribile ricerca, il segno di come sia possibile coniugare classicismo e freschezza, paradigmatico ottimismo e risolta complessità. 

Se questa musica ha potuto varcare i confini del suo luogo d’origine molto del merito è da ascrivere a un’altra figura fondamentale, quella del francese Francis Falceto, curatore delle ormai celebri raccolte Éthiopiques.
La serie, avviata nel 1997 per l’etichetta Buda Musique, è giunta recentemente al trentesimo episodio. Il lavoro compilatorio di Falceto ha saputo valorizzare tanto la cosiddetta Golden Age delle origini quanto le manifestazioni più recenti del panorama musicale etiope, raccogliendo materiali di etichette come Amha, Kaifa e Philips-Ethiopia, e una ricca costellazione di artisti, oltre al già citato Astatke, vede protagonisti Alemayehu Eshete, Asnaketch Worku, Mahmoud Ahmed e Tilahun Gessesse.Curate nel mastering e nelle note, queste raccolte hanno permesso un avvicinamento ragionato e al tempo stesso avventuroso a un universo musicale prima sconosciuto, e ci ricordano l’importanza di questi traghettatori musicali, i veri archivisti del futuro.
Queste meravigliose stanze dicono soprattutto di un laboratorio artistico di difficile catalogazione ma di immenso fascino, una musica che è lontana ma istintivamente familiare, portatrice di luce, terra e nuove visioni.

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