Incontrare gli scimpanzé

Le selvagge montagne di Mahale
Testo di Michio Nakamura
Fotografie di Luca De Santis

La ricerca sugli scimpanzé a Mahale è iniziata nel 1965 grazie a Toshisada Nishida, che all’epoca era solo uno specializzando dell’università di Kyoto. Da allora, il progetto è stato portato avanti senza interruzioni da numerosi ricercatori per oltre 50 anni. Non accade spesso che una ricerca su una sola specie di mammiferi prosegua così a lungo nello stesso luogo. Fin dall’inizio, i ricercatori giapponesi hanno proposto di trasformare Mahale in un’area protetta. Così, grazie al loro impegno, nel 1985 è diventato un parco nazionale della Tanzania. Il progetto è stato finanziato dalla Japan International Cooperation Agency ed è un raro esempio di parco creato grazie agli aiuti esteri di un’organizzazione governativa giapponese.

Il Parco nazionale dei monti Mahale è situato sulla riva orientale del lago Tanganica, nella zona occidentale della Tanzania, e occupa un’area di circa 1.600 km2. La catena dei Mahale si estende da nordovest a sudest e il picco più alto, il monte Nkungwe, raggiunge i 2.462 metri sul livello del mare. Questa dorsale montuosa trattiene l’umidità proveniente dal lago, e nella stagione delle piogge si verificano forti scrosci sul versante occidentale. I monti raccolgono le acque piovane, che fluiscono fino al lago in tanti piccoli ruscelli, perciò tra il lago e i Mahale si è sviluppato un fitto bosco, chiamato Kasoje Forest, che ospita gli scimpanzé del gruppo M, attuale oggetto di ricerche e richiamo turistico di Mahale. 

Il luogo ospita anche molti altri animali. Sugli alberi della Kasoje Forest è facile vedere scimmiette con facce allegre da clown: sono i cercopitechi nasobianco del Congo. Vicino al campo dei ricercatori si incontrano spesso anche scimmie Colobus rosse, babbuini gialli, diversi tipi di scoiattoli, facoceri, cercopitechi verdi e varani del Nilo.

Sui sentieri di osservazione, in lontananza, spesso si scorge il cefalofo azzurro, una piccola antilope che rimane immobile, limitandosi ad agitare la codina. Quando ci si avvicina troppo, emette improvvisamente un verso acuto e fugge nel sottobosco. Anche leopardi, porcospini, pangolini, oritteropi, potamoceri e iene abitano la foresta; essendo animali notturni, non è detto che si riesca a vederli, ma capita di trovare le loro feci sul sentiero. Nel lago e alla foce del fiume si incontrano anche ippopotami, bufali e lontre. Quando l’oscurità cala sulla foresta, si sentono i richiami degli Otolemur, ma anche i versi di insetti, rane, Caprimulgidi, e i passi degli animali notturni che girovagano. E a volte anche il magnifico ruggito da basso profondo del leopardo, detto anche “suono della sega”. Le notti di Mahale sono popolate di animali selvatici.

Introduzione agli scimpanzé

Com’è noto, noi esseri umani apparteniamo all’ordine dei Primati (che comprende anche lemuri, scimmie e gorilla); di conseguenza, per capire ciò che siamo e come ci siamo evoluti è fondamentale studiarne varie specie. Tra le diverse centinaia esistenti, lo scimpanzé è la più simile a quella umana. Alcuni studiosi sostengono addirittura che, a causa della sua somiglianza genetica con gli esseri umani, debba essere incluso nel nostro genere, Homo.

Gli scimpanzé maschi pesano dai 35 ai 50 kg in natura (negli zoo alcuni superano i 60 kg), mentre le femmine sono del 10% più piccole. In posizione eretta raggiungono un’altezza di 130 cm, di gran lunga inferiore a quella della donna media. Questo perché le loro zampe posteriori sono molto più corte delle nostre gambe, anche se questi primati hanno mani più lunghe delle nostre. Gli scimpanzé possiedono una struttura fisica molto più massiccia della nostra: in particolare, i maschi sono muscolosi e molto più forti degli uomini. Sembrano particolarmente grossi quando drizzano il pelo. La piloerezione potrebbe essere determinata dallo stesso meccanismo della pelle d’oca, che sperimentiamo quando siamo emozionati o tesi. La differenza è che noi abbiamo pochi peli corporei, pertanto quando li drizziamo risultano visibili solo i pori della pelle.

L’alimentazione

Per gli scimpanzé, un’importante fonte alimentare è costituita dai frutti spontanei maturi. Tuttavia questi animali mangiano anche altre parti delle piante, come foglie, midollo, fiori o resine. Da quanto è stato accertato, gli scimpanzé di Mahale utilizzano più di 400 parti di oltre 200 specie di vegetali, e il numero continua a salire via via che la ricerca prosegue. I frutti in genere sono stagionali. Ciò significa che l’habitat alimentare degli scimpanzé cambia a seconda del periodo dell’anno. I cibi di cui si nutrono sono per lo più commestibili anche per gli esseri umani: alcuni frutti sono così buoni da essere molto ricercati anche dagli abitanti del posto, altri sono troppo aspri o sgradevoli per noi, ma al contempo dolci.

Gli scimpanzé di Mahale mangiano inoltre i prodotti di certe piante (limone, guaiava e mango) che una volta venivano coltivate dagli abitanti, ma che non lo sono più da quando è nato il parco nazionale, e quindi si sono inselvatichite. Stranamente, questi animali non si nutrono dei frutti della palma da olio, che sono molto calorici e ricercati dagli scimpanzé di Gombe, un’altra località della Tanzania. Tuttavia, ciò non dipende dalla loro disponibilità, perché anche nella Kasoje Forest vi sono molte palme da olio.

Quando gli scimpanzé trovano frutta matura nel bosco, talvolta emettono una sorta di grugnito. Gli assistenti del posto lo definiscono “un verso di piacere”. C’era un maschio alfa, Fanana, che spesso, quando si arrampicava su un albero da frutto, lanciava questo richiamo e a volte arrivava addirittura a strillare.

Le labbra degli scimpanzé possono allargarsi notevolmente e spesso gli animali inseriscono diversi frutti fra queste e i denti per comprimerli ed estrarne il succo. Dopo averli spremuti, sputano la restante pallina di fibre, che viene chiamata “pezzo”. In molti frutti selvatici, i semi sono saldamente uniti alla polpa e non è facile eliminarli. In questi casi, gli scimpanzé inghiottono l’intero frutto, completo di semi, e spesso questi ultimi si ritrovano intatti nelle loro feci. È risaputo che germogliano meglio di quelli caduti naturalmente al suolo, perché passando per l’intestino dello scimpanzé vengono parzialmente ammorbiditi. I semi contenuti nelle feci forniscono inoltre importanti notizie sull’alimentazione degli scimpanzé in una data stagione.

Le piante costituiscono la loro fonte primaria di cibo, ma gli scimpanzé non sono vegetariani. Mangiano anche insetti sociali, come le formiche, e adorano la carne dei mammiferi. Quelli di Mahale utilizzano degli attrezzi per “pescare” le formiche arboree Camponotus; la loro principale preda tra i mammiferi è la scimmia Colobus rossa. Quando la cacciano diventano euforici e, se riescono a catturarla, la loro chiassosa “baldoria” può talvolta proseguire per ore.

Unità sociale e fissione-fusione

Molte specie di primati, fra cui la maggior parte delle scimmie, formano un gruppo stabile, spesso definito “branco”. Un branco è in genere un gruppo compatto ed è possibile individuare a occhio gli esemplari che ne fanno parte, dal momento che spesso stanno vicini gli uni agli altri. D’altra parte, però, in un gruppo sociale di scimpanzé i membri non stanno sempre uniti. Ciò può dipendere dalla stagione, ma di solito l’osservatore vedrà solo pochi animali, al massimo una dozzina, insieme in un dato momento. Questi piccoli insiemi temporanei vengono chiamati “sottogruppi” e hanno dimensioni e composizione sempre variabili. Ad esempio, lo scimpanzé A può essere avvistato da solo, oppure insieme a B, C e D, ma in seguito può trovarsi con B ed E, e così via. Si avvicinerà e si allontanerà da qualsiasi altro membro del gruppo.

Data questa fluidità, i ricercatori occidentali all’inizio hanno pensato che gli scimpanzé non avessero un gruppo sociale stabile, a parte le coppie di madri e figli. Ritenevano che la “comunità” fosse debole e che ogni animale potesse avvicinarsi agli altri e poi allontanarsi senza che esistessero legami.

Al contrario, i ricercatori giapponesi hanno ritenuto fin dal principio che gli scimpanzé avessero un gruppo sociale ben definito, con confini precisi e un’appartenenza stabile. Nishida ha annotato la composizione dei sottogruppi per mesi e ha scoperto che vi era un numero massimo di membri. Questi animali, dunque, non fanno parte di una comunità senza confini, ma di un gruppo sociale ben distinto dagli altri: il ricercatore l’ha definito “unità-gruppo”. Alcuni anni dopo, gli studiosi di Mahale hanno scoperto che le unità-gruppo confinanti sono in genere ostili fra loro, sebbene le femmine cambino gruppo non appena raggiungono la maturità sessuale.

Oggi, anche i ricercatori occidentali ammettono che gli scimpanzé hanno gruppi sociali definiti (ma per qualche ragione continuano a usare il temine “comunità”, che a volte genera una certa confusione). Un’unità-gruppo ha in media una cinquantina di membri; le più piccole ne hanno circa 10 e le più grandi oltre 150.

L’accoppiamento

Per gli scimpanzé non esiste una specifica stagione riproduttiva o dell’accoppiamento: la femmina ha cicli di estro e in quel periodo i suoi genitali diventano gonfi e rosei. Il ciclo mestruale dura circa 35 giorni e la fase di tumescenza si protrae per 10 di questi: è l’unico momento in cui la femmina accetta i maschi. Dopo aver partorito, non va in estro per 4 o 5 anni, durante i quali si prende cura del cucciolo. Di conseguenza, il numero di femmine sessualmente attive nello stesso periodo non è molto alto. Nel gruppo Mahale M ci sono dalle 20 alle 30 femmine adulte, ma magari solo una o due, o al massimo quattro o cinque sono in estro in un dato momento e possono quindi accettare i maschi. Questi iniziano ad accoppiarsi con le femmine adulte quando sono ancora molto giovani. Poco prima dello svezzamento la madre riprende ad andare in estro e il piccolo può copulare anche con lei. Dal punto di vista umano ciò può apparire immorale, ma l’accoppiamento in realtà non ha niente di “sessuale”. È piuttosto una specie di rapporto fisico madre-figlio. L’accoppiamento di un cucciolo può essere a scopo di gioco oppure di allenamento alla riproduzione. La madre può offrirsi al piccolo per tranquillizzarlo se è agitato. Quando il maschio diventa abbastanza grande da poter eiaculare, di solito non si accoppia né con la madre né con la sorella.

Il tipico amplesso fra adulti avviene come segue: il maschio corteggia la femmina e questa, se è disponibile, si precipita da lui e gli mostra i genitali tumescenti. In alcuni casi, tuttavia, è la femmina a corteggiare il maschio o addirittura a offrirglisi, anche se lui non è disponibile. È nota l’esistenza di rituali di corteggiamento differenti presso popolazioni diverse. Quando entrambi gli esemplari sono bendisposti, il maschio monta la femmina, la penetra e spinge diverse volte. La copula è in genere di breve durata. Accade spesso che la femmina emetta un verso stridulo e corra ad alcuni metri di distanza dal maschio subito dopo l’accoppiamento. Questi a volte le si avvicina nuovamente per pulirle il pelo oppure i due possono separarsi.

Lo sviluppo

Lo sviluppo degli scimpanzé è molto lento. Durante l’infanzia (dalla nascita ai 4 anni) il cucciolo prende il latte dalla madre e in genere viene trasportato in braccio o sulla groppa. Dopo lo svezzamento ha inizio la gioventù (dai 5 agli 8 anni). In questa fase il piccolo può mangiare da solo e non viene più trasportato dalla madre, ma dipende ancora da lei per gli spostamenti. Quando un giovane scimpanzé gioca con i compagni e si accorge che la madre non è nelle vicinanze, comincia a lamentarsi e a cercarla disperatamente. Se non riesce a trovarla, può mettersi a strillare.

Quando raggiungono la maturità sessuale, gli scimpanzé entrano nella fase dell’adolescenza (che per i maschi va dai 9 ai 15 anni e per le femmine dai 9 ai 12). Nei maschi, i testicoli iniziano a scendere e l’animale può eiaculare; tuttavia, gli adolescenti sono di taglia molto più piccola rispetto agli adulti. Nelle femmine i genitali iniziano a gonfiarsi leggermente e si verificano i primi accoppiamenti, che però di rado sfociano in una gravidanza. In questa fase, molte femmine abbandonano il gruppo in cui sono nate per entrare in gruppi diversi.

Le femmine raggiungono l’età adulta a 13 anni e i maschi dopo i 16. Le scimpanzé hanno il primo cucciolo intorno a questa età e il loro comportamento cambia di conseguenza. I maschi diventano più grossi delle femmine adulte, che rivolgono loro vocalizzazioni di saluto (grugniti bassi detti pant grunts). In questa fase i maschi superano nella scala gerarchica alcuni anziani del gruppo.

Vecchiaia e morte

Non sappiamo ancora di preciso quanto vivano gli scimpanzé. È risaputo che alcuni di loro superano la cinquantina, ma 50 anni di ricerca non sono sufficienti per trarre conclusioni sulla longevità della specie. Solo gli studi futuri saranno in grado di dirci se vivono fino a 60 anni o magari oltre. Diverse femmine danno alla luce i piccoli intorno ai 40 anni; la nascita più tardiva di Mahale si è registrata intorno ai 50 anni della madre. L’insieme di tali informazioni ha permesso a un gruppo di ricerca di concludere che le scimpanzé non vanno in menopausa. Tuttavia, una femmina di Mahale, Calliope, ha smesso di partorire poco prima dei 40 anni ed è vissuta per altri 10 senza riprodursi. Quindi, anche se alcune femmine continuano a dare alla luce i piccoli fino agli ultimi anni della loro vita, altre potrebbero andare in menopausa.  

Se stabiliamo che i 40 anni costituiscano la soglia della vecchiaia degli scimpanzé, vi sono relativamente meno maschi anziani che femmine. Un maschio, Kalunde, che ha raggiunto la cinquantina, negli ultimi dieci anni di vita appariva vecchissimo. Aveva il pelo grigio e rado e molte macchie sulla faccia. Ovviamente aveva perso la forza fisica e tra i maschi era quasi al livello più basso, eppure possedeva ancora una certa influenza sociale su esemplari più giovani e forti di lui, che spesso gli pulivano il pelo. Quando non salutava i maschi di rango più alto, nessuno lo puniva.

È raro assistere alla morte di uno scimpanzé. Di solito i ricercatori notano un’assenza prolungata e a posteriori deducono che l’animale perduto sia morto.

La vita quotidiana dei ricercatori

Una giornata sul campo

Al campo di ricerca, in genere mi alzo quando è ancora buio. Poiché Mahale si trova al limite occidentale del fuso orario della Tanzania e sul lato orientale vi sono le montagne, fa giorno intorno alle 7. Al mattino il freddo è ancora pungente, quindi per prima cosa bevo una tazza di caffè bollente.

Dopo aver finito in fretta il caffè e la colazione ed essermi preparato per il lavoro sul campo, vado nella foresta insieme agli assistenti tanzaniani. La prima cosa da fare è trovare gli scimpanzé, ma dal momento che li abbiamo seguiti fino alla sera prima, grosso modo conosciamo la loro ubicazione. Per un po’ aspettiamo di sentire le loro vocalizzazioni e di solito nel giro di 10-15 minuti giungono dei richiami (pant hoots).

A quel punto iniziamo a osservare gli scimpanzé e in pratica li seguiamo nella foresta per tutto il giorno. Personalmente, interrompo il lavoro fra le 17 e le 18.30. Concludo la mia osservazione focale un po’ prima che gli scimpanzé si preparino il giaciglio per dormire, perché devo riguardare gli appunti presi sul campo e verificare i dati, e poi perché quando cala il buio la foresta è pericolosa. Al campo, un domestico prepara secchi di acqua calda per lavarsi. Dopo il bagno, rileggo gli appunti e mi preparo per la cena. Il domestico cuoce il riso, ma di solito prepariamo a turno qualche contorno. Ideare menu variati basandosi sui pochi ingredienti di cui disponiamo è un buon allenamento. Dopo cena bevo un po’ di liquore locale e discuto con i colleghi i fatti del giorno (relativi agli scimpanzé, ovviamente). Anche se facciamo ricerca da tanto tempo, succede sempre qualcosa di interessante. Le nostre chiacchierate assomigliano più a pettegolezzi sugli animali che a discorsi accademici.

L’osservazione della vita quotidiana

degli scimpanzé

Sebbene il metodo di osservazione vari a seconda dei ricercatori e dei loro argomenti di studio, a Mahale si usa molto l’osservazione focale. È un metodo diffuso negli studi sul comportamento degli animali, nel quale un ricercatore segue un dato scimpanzé per un certo periodo di tempo registrando ciò che gli accade.

Se lo facessimo con un essere umano sarebbe stalking ma, per fortuna, gli scimpanzé abituati a questa pratica non sembrano preoccuparsi se un osservatore umano li segue anche per un giorno intero (ma ciò non significa che non si curino affatto delle persone). Ovviamente gli animali non stanno ad aspettarci, quindi spesso si immergono nella fitta boscaglia o si arrampicano su pendii ripidi. Noi avanziamo carponi nel sottobosco oppure restiamo senza fiato per non perderli di vista, cosa che si verifica di tanto in tanto.

L’osservazione focale in genere è consigliata perché permette di registrare in maniera obiettiva tutti i comportamenti. Ad esempio, è utile per sapere quante ore vengono dedicate alla pulizia del pelo. Anche se tale obiettività è un buon motivo per utilizzare tale metodo, io lo seguo più che altro per “prendere parte” alla collettività degli scimpanzé. In realtà non è possibile prendere parte a tutto ciò che fanno, perché il nostro fisico è diverso dal loro. Noi non ci arrampichiamo con facilità sugli alberi per mangiarne i frutti, né possiamo intervenire nella pulizia del pelo o nelle loro lotte. Quindi partecipo a tali attività attraverso l’animale che ho scelto di seguire, spostandomi per quanto possibile come fa lui/lei e avvicinandomi agli scimpanzé a cui si avvicina.

Identificazione individuale

Un altro metodo importante per osservare gli animali è l’identificazione individuale. Agli albori della primatologia, la prassi diffusa tra i primatologi giapponesi consisteva nell’identificare le scimmie esclusivamente in base al loro aspetto, ma i ricercatori occidentali non sempre la seguivano. Oggi questo metodo è ampiamente adottato in tutto il mondo e consiste nell’identificare i primati in base al loro aspetto, dando un nome a ciascun individuo.

Non occorre che illustri in dettaglio i vantaggi dell’identificazione individuale: mi limiterò a dire che è meglio osservare una collettività in cui ogni individuo è ben identificato, piuttosto che una composta da soggetti anonimi. Nella nostra vita quotidiana, applichiamo automaticamente questo metodo con gli altri, ed è impossibile comprendere un evento del mondo sociale senza sapere chi ne è protagonista.

Un profano potrebbe pensare che identificare uno scimpanzé sia difficile; in realtà non richiede capacità particolari. All’inizio lo si fa grazie a caratteristiche evidenti, come un taglio su un orecchio, cicatrici sulla faccia, un dito mancante.

Non tutti gli individui hanno ferite del genere, perciò prendiamo nota anche di caratteristiche meno evidenti, come macchie, rughe sul volto, un’area glabra sulla testa, il colore del pelo, l’aspetto dei genitali ecc. Dopo un po’ non è più necessario basarsi su questi elementi. Servendoci di aspetti più impercettibili (tanto che spesso sono difficili da descrivere a parole), siamo in grado di identificare un individuo. Alcuni soggetti possono essere individuati addirittura dal posteriore o da parti delle membra.

A quel punto sarebbe più appropriato dire che “conosciamo” l’individuo, e non che lo identifichiamo. Quando arriviamo a “conoscere” il soggetto, non abbiamo più bisogno di segni identificativi come le cicatrici: siamo in grado di dire chi è. La faccia dello scimpanzé che conosciamo è soltanto sua, completamente diversa da quella di tutti gli altri.

Ogni scimpanzé ha una spiccata individualità, come in effetti capita a ogni altra creatura. Probabilmente il punto è la capacità degli osservatori di comprendere o meno l’individualità, che forse negli scimpanzé è più facile da cogliere che in altre specie. Fintanto che non otteniamo un’identificazione, questo elemento non emerge. Quando siamo pronti a conoscere il soggetto, la sua preesistente individualità si manifesta agli occhi dell’osservatore.

Spesso vedo turisti scattare un sacco di fotografie con macchine dall’aria costosa e obiettivi enormi che assomigliano a dei bazooka, ma solo una ristretta minoranza osserva le facce degli scimpanzé con il binocolo. Nella mia esperienza, è il modo migliore per coglierne l’individualità. Perché non portare un binocolo, invece del “bazooka”?

Il futuro

Scimpanzé in pericolo

La ricerca sugli scimpanzé è attualmente in corso e sarebbe necessario portarla avanti per un altro mezzo secolo o più, ma la situazione non è molto favorevole. In tutte le zone del loro habitat, gli scimpanzé sono sulla lista rossa dell’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) delle “specie in pericolo”.

Le minacce agli scimpanzé che vivono in natura sono numerose: la prima è la distruzione del loro habitat, mentre la seconda è costituita dal bracconaggio. Al terzo posto vi è la cattura dei cuccioli per venderli come animali da compagnia, al quarto la richiesta di animali per la ricerca medica e al quinto la trasmissione di malattie tramite i frequenti contatti con gli esseri umani, per ricerca o turismo.

La prima minaccia è la più grave. Le foreste tropicali africane, habitat principale degli scimpanzé, si restringono a vista d’occhio a causa degli interventi dell’uomo, come la costruzione di strade che forniscono migliori possibilità di accesso e trasporto, il fabbisogno di legname, il taglio di alberi per le coltivazioni e come legna da ardere. Anche il riscaldamento globale potrebbe incidere sulla sopravvivenza delle foreste tropicali.

La quinta minaccia è particolarmente presente a Mahale, che in quanto area protetta non è esposta al rischio che vengano abbattuti gli alberi o praticato il bracconaggio. I safari turistici di osservazione degli scimpanzé sono iniziati alla fine degli anni Ottanta e si sono ampiamente diffusi nei Duemila; di conseguenza, le persone che vengono a Mahale per parteciparvi sono sempre di più. Spesso ai turisti non viene inculcata l’idea di essere fonte di gravi malattie per gli scimpanzé che vivono allo stato brado. Dal momento che arrivano da ogni parte del mondo, i visitatori portano con sé molti agenti patogeni. Se sono immuni, possono non mostrare alcun sintomo e non sapere di essere portatori di virus in grado di infettare gli scimpanzé (dal momento che alcune malattie colpiscono sia noi che loro), risultando poi fatali perché gli animali non sono immuni dai virus che provengono dall’esterno. Se ha soltanto un po’ di tosse, un turista non rinuncia ad avvistare gli scimpanzé, perché è andato lì proprio per quella ragione, spendendo molti soldi. Vuole avvicinarsi il più possibile per scattare delle belle foto da caricare sui social network. Bisogna tenere presente che questa forma di egoismo da parte di chi avvista gli scimpanzé, per quanto sia all’apparenza trascurabile, può produrre un effetto disastroso per la loro popolazione.

In effetti, nel gruppo Mahale M, nel 2006 si è manifestato un focolaio di una malattia respiratoria che ha portato alla morte di dodici scimpanzé. Anche se spesso è difficile individuare l’origine del contagio, osservando lo schema di diffusione dell’infezione pare che il patogeno sia arrivato da fuori.

Stando al regolamento dei safari, chi si sente male non può andare ad avvistare gli scimpanzé, e ai turisti è permesso stare solo a una certa distanza, per ridurre il rischio di contagio per via aerea. Eppure, il disastro è avvenuto ugualmente. Nessuno aveva cattive intenzioni, ma c’è stato qualcuno che ha pensato: “Ho un po’ di tosse, ma mi sento bene. Perché non andare a vedere gli scimpanzé, dal momento che l’occasione è ghiotta?” oppure “Cosa cambia se avanzo di un altro metro per scattare una foto migliore?”. Tuttavia, un simile, trascurabile atto di egoismo può aver causato la morte di dodici scimpanzé.

Dopo l’epidemia, noi ricercatori ci siamo riuniti con i direttori delle agenzie che organizzavano i safari e con i funzionari del parco nazionale per discutere la faccenda e abbiamo concordato di far rispettare severamente le regole relative ai safari, come il numero massimo di turisti per gruppo e al giorno, e la distanza limite. La Mahale Wildlife Conservation Society ha inoltre proposto una regola aggiuntiva in base alla quale tutti devono indossare delle mascherine. L’ideale sarebbe che le persone evitassero di avvicinarsi agli scimpanzé, ma a quanto pare noi esseri umani siamo egoisti. Se tutti indossano le mascherine, si riduce il rischio di infezioni per via aerea.

La Conservation Society ha fornito questo accessorio chiedendo a tutti i villaggi turistici di farlo indossare agli ospiti. La regola sembra aver preso piede e alcuni villaggi forniscono le mascherine a spese loro. Naturalmente, noi ricercatori non siamo al di sopra delle regole: adesso, quando seguiamo gli scimpanzé nella boscaglia, indossiamo la mascherina tutto il giorno. Per ridurre al minimo i contatti con gli animali abbiamo imposto un limite severo al numero di ricercatori e introdotto una settimana di quarantena prima dell’inizio dell’osservazione a tempo  pieno.

Verso il futuro

Nel marzo 2014 una femmina di nome Puffy, nata nel gruppo M, ha dato alla luce un maschietto. Anche se gran parte delle femmine di quel gruppo ne escono, Puffy per qualche ragione è rimasta e ha avuto un cucciolo all’interno della collettività di origine. Io la osservo da quando è nata, perché sua madre era il mio animale di studio. Puffy l’ha persa nell’epidemia del 2006, ma è sopravvissuta al lutto, perciò sono stato più che contento di vederla diventare madre a sua volta.

Oggi sappiamo che alcuni scimpanzé in natura vivono più di 50 anni e, dal momento che il suo cucciolo è un maschio, se sopravvive rimarrà nel gruppo M e tra 50 anni sarà anziano. Io non potrò vederlo, ma chissà se ci sarà ancora qualcuno a visitare Mahale e a osservare questo scimpanzé quando il campo di ricerca avrà 100 anni? Penso di sì. Spero vivamente che le giovani generazioni prendano parte alla ricerca a lungo termine sulle scimmie e si dedichino alla loro conservazione, per saperne di più sulla vita collettiva di questi magnifici animali.

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