Tanzania Such a Sweet Story

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Jared Gilman, il Sam di Moonrise Kingdom, all’età di dodici anni, al suo primo ruolo come attore protagonista nel film-fiaba di Wes Anderson disse: “It’s got action. It’s got comedy. It’s got drama. It’s got romance. It really packs a punch!” (È azione. È commedia. È dramma. È storia d’amore. È una bomba!). Ambientato in un’isola lontana dalla costa del New England nell’estate del 1965, Moonrise Kingdom racconta la storia di due dodicenni che si innamorano, stringono un patto segreto e scappano insieme nel wilderness, ovvero il selvaggio. Sam abbandona il suo campo scout rubando delle attrezzature e provviste e raggiunge Suzy, che fugge di casa portando con sé il suo gatto, i suoi libri preferiti e un giradischi a pile.

Sam e Suzy passano diversi giorni esplorando e campeggiando in sperduti spazi aperti con l’obiettivo di raggiungere una baia appartata sull’isola, che i due ribattezzano “Moonrise Kingdom”. Lì si sistemano in tenda, ballano sulla spiaggia in mutande e si baciano. Il produttore Jeremy Dawson dirà in conferenza stampa che Prudence Island è stata probabilmente la location più azzeccata per la produzione: “Prudence really does look untouched” (Prudence sembrava davvero intatta). 

In maniera inaspettata ci ritrovammo a pensare che il nostro viaggio in Tanzania ricalcasse la fuga d’amore selvaggia di Sam e Suzy, da un campo mobile meravigliosamente orchestrato nell’estremo nord-est del Parco nazionale del Serengeti alla spiaggia di sabbia di Mahale, la nostra isola inviolata, la nostra Moonrise Kingdom, all’altro capo della Tanzania. In un viaggio di lunghe distanze bruciate con voli leggeri, abbiamo vissuto tutto – come in una pellicola decisamente riuscita – azione, commedia, dramma, storia d’amore. Una bomba.

Il pilota 

“Mi chiamo K.T. e sono il vostro pilota su questo volo per Kogatende. Ci vorranno un’ora e quaranta minuti circa di volo e vi posso assicurare che balleremo parecchio”. Con l’arroganza gentile e il piglio di un giovane uomo che ha appena ottenuto una laurea con lode nell’università più costosa d’America, K.T. ci avrebbe guidato oltre una tempesta, nella parte più settentrionale del Parco nazionale del Serengeti, Tanzania, Africa orientale. “La maggior parte di noi viene dal Sudafrica e si innamora di questo tipo di volo, perciò resta per qualche anno. Ancora due anni e poi stop, ho un mio progetto”. Atterrati all’airstrip, daremo uno strappo a K.T. fino al campo dove passerà questa notte, il suo prossimo volo è domani. “Quando vuoi sarai il mio ospite, ma ora sono io che ho bisogno di un passaggio”, dirà alla nostra guida, a terra è lui il pilota, una terra che si percorre su quattro ruote a trazione integrale, al limitare di quel triangolo chiamato Mara Triangle appartenente al Kenya, che è un confine per gli esseri umani e un tutt’uno di prateria per le bestie selvatiche. K.T. parla molto, come un esilarante attore di Hollywood, ha la battuta pronta, ha già le sue storie del bush, ma quelle accadute nel cielo.

“Quella volta stavamo attraversando una tempesta vera. E io non amo voltarmi e vedere i passeggeri che vomitano, le ragazze che urlano di paura, le donne che piangono. Ma quel giorno piovevano cani e gatti”. Così disse. Piovevano cani e gatti. “Dove andate poi, ragazzi? Mahale? Odio Mahale! Si fa scalo a Tabora per il pieno e poi si prendono gli altri passeggeri a Katavi, sono quattro ore di sola andata, perciò capite che per voi a Mahale inizia il paradiso, ma per me sono otto ore di volo, odio Mahale, non chiedetemi di portarvi a Mahale”. La sua invettiva innocua aveva un ritmo imprendibile e noi eravamo già troppo adulti per non sorridere semplicemente alle esternazioni di quel giovane pilota. Che, dopotutto, solo due settimane dopo, ci avrebbe riportato a casa, caricandoci sul suo aereo da dodici posti da Mahale a Kilimanjaro, col sorriso stampato e il solito brief di benvenuto e nessun accenno alla scocciatura di quel volo lungo un giorno. “Mi chiamo K.T e sarò il vostro pilota per questo volo diretto a Kilimanjaro”.

Quei voli sarebbero diventati un modo di spostarsi come un altro, con chi scende e chi sale a fermate sempre diverse. Con la curiosità di sapere dove sono diretti gli altri passeggeri, se non nel tuo stesso camp. Le prime amicizie si stringevano lì, sui sedili di quei piccoli Cessna 208B Grand Caravan, come in stretti banchi di scuola a dividere intimità e adrenalina con un ragazzo o una ragazza senza apparenti punti in comune se non dover andare nella stessa direzione.

“L’aria profumava di gelsomini, la foresta era ricca, l’acqua del lago chiara come il gin e leggermente fresca. Se ho il coraggio di mettere piede in questo paradiso, conviene che lo faccia adesso”. Roland Purcell, avventuriero scozzese e banditore d’asta, scoprì Mahale negli anni Ottanta del XX secolo durante un lungo viaggio attraverso l’Africa orientale. Un anno dopo quel giorno perfetto del giugno del 1988, Zoe lo raggiunse e prese la sua stessa decisione. Costruirono insieme nel tempo quella vita straordinaria, composta da una famiglia consapevolmente naufraga su Kangwena Beach e un camp uscito da una storia fantasy, Greystoke Mahale.

E così Greystoke divenne il nostro Eldorado, finché un giorno di novembre, nella stagione delle piccole piogge che rende la foresta ancora più ricca, lo raggiungemmo. 

“Mi chiamo Thomas e sarò il vostro pilota per questo volo diretto a Mahale. Stiamo andando esattamente all’altro estremo della Tanzania. Faremo scalo tecnico a Tabora, prenderemo alcuni passeggeri a Katavi, poi voleremo sopra alle montagne di Mahale. La discesa sarà ripida e veloce, perciò bevete piccoli sorsi d’acqua e deglutite spesso perché le vostre orecchie andranno in tilt e non è mai piacevole”.

Christmas

Un safari in Africa, che fosse il primo o l’ennesimo, aveva il potere di sintonizzarci immediatamente su un altro stile di vita. La notte calava sul campo come se qualcuno avesse girato un interruttore, così noi ci scoprivamo diversi e capaci di nuove sfide. I ritardatari erano i primi della classe, pronti sempre, perfettamente equipaggiati per il game drive del mattino, ancora prima dell’alba. Con il premio quotidiano di una cioccolata calda e una frolla burrosa, serviti direttamente all’ingresso della tenda, da ritirare in fretta a piedi nudi e occhi miopi come quando arriva Santa Lucia con i doni la notte del 13 dicembre. Gli iperconnessi dimenticavano il telefono in tenda, d’altronde non sarebbe servito a nulla. 

Tutti dimenticavamo il giorno della settimana e ci regolavamo semplicemente con i ritmi del sole, con l’alternanza di luce e buio. I riti del safari ci riportavano a vivere da adulti come dentro a una colonia estiva esotica, abitata da piccoli gruppi di esploratori in erba, dominati da uno spirito spontaneo di fratellanza, condivisione, avventura. Diventavamo più saggi, più intuitivi, più curiosi, in una parola migliori. 

“He’s such a naughty boy!” (È un ragazzo così dispettoso!). E scuotevano la testa con tutto l’amore che si prova per un figlio monello, un ragazzo che sta crescendo. Christmas era nato il giorno di Natale e oggi aveva vent’anni.

Se lo incontravi con le femmine si guardava in giro per essere certo che non ci fosse un altro maschio pronto a rimetterlo al suo posto e allora iniziava lo show. Non era pericoloso, era semplicemente un adolescente che vuole mettersi in mostra. Christmas era la mascotte di Mahale, forse per il suo nome che stringeva il cuore, forse perché l’incontro con lui era sempre azione, ma anche finale già scritto. A un certo punto avrebbe battuto i pugni con impeto al suolo, lanciato un grido di allarme, avrebbe fatto volare qualche ramo stupidamente finito sul suo sentiero, avrebbe schiaffeggiato bonariamente uno dei nostri compagni, il più debole, e si sarebbe allontanato in cerca di qualche frutto energetico, la merenda preferita della foresta. Di Christmas si parlava in ogni angolo della Tanzania, perché c’era sempre una guida, un manager, un ospite che aveva passato qualche tempo a Mahale e aveva nostalgia di Greystoke e di quel bullo di Christmas. Christmas occupava la prima pagina dell’album di famiglia degli scimpanzé di Greystoke Mahale. 

Mahale Mountains

There’s nowhere in the world like Mahale. Portavo questo libretto di carta plastificata opaca con me praticamente ovunque. Titolava: Non esiste altro posto al mondo come Mahale. Ero appena entrata nel mio banda – il numero tre di sette, da contarsi dalla fine della spiaggia verso la grande tenda principale del camp – avendo abbandonato scarponi e calze da trekking fuori dalla pedana in legno e sciacquato i miei piedi sporchi di sabbia gialla in un catino ovale di argento cesellato colmo di acqua limpida. Camminavo ora nella mia maestosa capanna di legno di dhow recuperato dal mare, paglia spiovente e canne di bambù. Il dépliant era allineato sullo scrittoio, accanto al pesante lucchetto del baule di legno porta-valori a prova di babbuino, alla scatola di fiammiferi, al repellente tropicale, al taccuino degli ospiti.

La plastificazione gli aveva permesso di non accartocciarsi su se stesso per l’umidità della foresta pluviale, mentre le pagine del mio saggio in edizione economica acquistato poco prima della partenza avrebbero preso in pochi giorni quel giallore e quello spessore tipico dei classici consunti che nessuno in famiglia osava gettare. Appena avevo qualche minuto di ozio lo riaprivo e lentamente riprendevo da capo la mia lettura. Le informazioni erano precise, puntuali, esatte. Le stavo imparando a memoria, come nozioni della migliore enciclopedia scolastica. 

Il Parco nazionale dei monti Mahale si trova nel lontano ovest della Tanzania, sulle sponde del lago Tanganica. Prende il nome dalla catena montuosa che lo attraversa ed è uno dei luoghi più remoti del pianeta, dove ancora si possono osservare scimpanzé nel loro habitat naturale e trascorrere del tempo con un piccolo gruppo di sessantaquattro individui conosciuto come “M Group” e abituato alla presenza umana. Non ci sono strade che attraversano i 1613 chilometri quadrati delle Mahale Mountains, solo sentieri e percorsi nella foresta, tracciati dai ranger a colpi di machete, numerati con le lettere dell’alfabeto, utilizzati dalle guide del parco e dagli animali stessi. Il solo modo pratico per raggiungere Greystoke Mahale è via acqua e questo aggiunge altro senso di lontananza totale dal mondo per come lo conosciamo.

Dopodiché iniziavano i numeri, le altezze, le distanze, le proporzioni delle montagne, dei picchi e di quel lago magnetico, tutti a confermare la straordinarietà di quel luogo, che sarebbe diventato nostro per quattro notti e quattro giorni. Conoscevo a memoria i fatti di quel posto e li potevo raccontare come la più magica poesia di Natale e ripetere tutte le volte possibili per costruire nella fantasia del mio ascoltatore un’idea esatta di Mahale. Ma esserci stati era un’altra storia.

A Mahale all’istante si apprendeva un nuovo modo di fare safari in Tanzania. Il parco è uno dei pochissimi in Africa che può essere raggiunto e visitato solo a piedi. Perciò prendete un classico safari africano, togliete tutte le vecchie meravigliose 4×4 scoperte con al volante la vostra grande guida, il binocolo, tutti i predatori e l’adrenalina del bush, gli orizzonti a perdita d’occhio, le sveglie all’alba, toglietevi anche le scarpe robuste e guardatevi scalzi al vostro lungo tavolo della colazione alle otto di mattina, i pancake caldi, l’anguria rossa, il caffè bollente, il libro dei primati, dei pesci endemici e degli uccelli, il calmo lago verde.

Nessuna connessione Internet, Inbox fermo al momento in cui siete atterrati all’airstrip di Mahale, non c’è campo in nessun angolo di Kangwena Beach e della foresta che la cinge.

In un momento imprecisato della colazione arriveranno i ranger in gruppo, le borracce cariche e i poncho verdi piegati e avrete pochi minuti per infilare i vostri scarponi, ascoltare le loro istruzioni e la nuova via per raggiungere gli scimpanzé, una via che quasi sempre inizia dall’acqua.Navigherete il lago verso nord e scenderete quasi sempre in corrispondenza del centro di ricerca giapponese, dove l’università di Kyoto dagli anni Sessanta studia on-field il comportamento di questi individui e battezza i nuovi nati. Poi vi addenterete in fila indiana nella foresta, a volte sarà una dolce salita, a volte un’arrampicata, un piano, finché sentirete i richiami d’allarme, vi chiederanno di indossare la vostra mascherina chirurgica e il vostro respiro sembrerà più caldo e ritmico.

L’altra metà del giorno sarete in barca per la vostra lezione di pesca dilettantistica o un tuffo nelle acque trasparenti al largo, dove non nuotano coccodrilli e ippopotami. “Preferite prima pescare o fare il bagno?” vi chiederanno e si troverà in fretta l’unanimità. 

A Greystoke regnava un’allegra democrazia, fatta della potenza e dello stupore di quell’ora concessa a noi umani con loro, gli scimpanzé, e di tutto quello che viene prima e dopo, ovvero una vacanza selvaggia privata in un Eden che sembra una piccola isola, decisamente fuori dal mondo.

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