Noi siamo Hadzabe, Noi siamo cacciatori-raccoglitori

Testo di Daudi Peterson
Fotografie di Luca De Santis

Daudi Peterson è cresciuto in Tanzania e negli anni Settanta ha condotto studi pionieristici sulla distribuzione della fauna selvatica nell’ambiente pastorale della steppa Masai, per poi dare vita, negli anni Ottanta, alla Dorobo Safaris con i fratelli Mike e Thad. Con loro ha fondato il Dorobo Fund for Tanzania, che alla fine degli anni Novanta ha contribuito a creare l’Ujamaa-Community Resource Team per affrontare in modo integrato e dal basso le sfide legate alla conservazione dell’ambiente rurale, dello stile di vita locale e dello sviluppo comunitario. L’attività principale di questo progetto è stata la rivendicazione dei diritti terrieri dei pastori Masai e Datoga e dei cacciatori-raccoglitori Akie e Hadza. Daudi ha incontrato per la prima volta gli Hadza negli anni Sessanta, quando frequentava la scuola primaria nel Tanganica centrale. Insieme a loro ha recentemente pubblicato un volume illustrato che ha dato voce a questo popolo permettendogli di raccontare la propria “storia” a parole sue. Il “Prologo” che segue è tratto dal volume Hadzabe: By the Light of a Million Fires di Daudi Peterson con Richard Baalow e John Cox, Mkuki na Nyota Publishers Ltd, Dar es Salaam.
mkukinanyota.com

Noi siamo Hadzabe, siamo tanzaniani. Il nostro popolo è composto da circa 1000 persone che vivono nella valle del lago Eyasi e sulle colline circostanti. Stando alla nostra storia orale, abbiamo sempre vissuto qui. Non vi sono testimonianze che parlino di altri luoghi. La nostra lingua non ha alcun legame con quelle dei nostri vicini, che sono arrivati in questa zona in tempi più recenti.

Questa è la NOSTRA storia così come ce l’hanno raccontata i nostri padri che a loro volta l’hanno sentita dai loro padri alla luce di un milione di falò. Guardando le scintille volare nel cielo africano, osserviamo e ascoltiamo rapiti gli anziani che recitano la nostra storia – la storia dell’umanità – davanti ai nostri occhi. Sono i depositari della nostra saggezza e le loro storie – le nostre storie – prendono vita, stampandosi nella mente in modo indelebile. E quando verrà il momento, le trasmetteremo ai nostri figli, mentre le scintille di un altro grande falò attraverseranno la notte. Queste storie sono parte essenziale dei primi insegnamenti che riceviamo, ma lo spuntare dell’alba porta con sé nuove lezioni e noi continuiamo a imparare seguendo i nostri genitori che vanno a caccia o preparano il pascolo.

Siamo cacciatori-raccoglitori. Viviamo dei prodotti della terra e l’abbiamo fatto per migliaia di anni, anche se la nostra patria, la regione del lago Eyasi, è dura e arida.

Le tribù confinanti, che si sostentano con coltivazioni avide d’acqua come il mais e con grandi mandrie di bovini e capre, affrontano spesso la carestia. Le gravi siccità li costringono a rivolgersi al governo in cerca di aiuti e soccorso umanitario. Noi, invece, non conosciamo gravi carestie, perché ci nutriamo di molte specie di piante e animali che hanno saputo adattarsi a questo ambiente.

Al contrario di molte altre tribù africane, nelle quali le donne sono sottomesse agli uomini, le nostre stanno orgogliose al nostro fianco, sicure che il cibo da loro raccolto potrebbe bastare a sfamarci. Noi Hadzabe amiamo soprattutto la carne, il grasso e il miele, ma questi sono soltanto alimenti con cui integriamo la nostra dieta a base di verdure.

È il nostro dio, Haine, insieme a Ishoko il Sole e a Seeta la Luna, a provvedere a noi. Ogni giorno ci mettiamo in cammino con il sole per mangiare alla tavola della natura. Gli uomini affilano le frecce, tendono gli archi e aguzzano la vista. Grazie alle capacità che ci hanno tramandato i nostri padri, sappiamo cacciare quanto basta per prosperare giorno dopo giorno. A volte l’uccello indicatore, un pennuto insistente, ci distrae con il suo verso squillante e la promessa del dolce miele che si scioglie in bocca. Chi siamo noi per rifiutarlo? Lo seguiamo nel sottobosco mentre balza di albero in albero, guidandoci all’alveare.

Al sorgere del giorno, anche le donne affilano i bastoni per scavare e prendono le bisacce. Sanno che torneranno con tuberi e frutti a sufficienza per sfamarci tutti. Indipendentemente dal periodo dell’anno o dai capricci del tempo, c’è sempre qualche cespuglio carico di frutti o qualche tubero umido e turgido nascosto sottoterra in attesa di essere raccolto. Quando maturano gli abbondanti frutti del baobab, offrono cibo a sufficienza per mantenerci in salute per i mesi a venire.

Prima che il sole raggiunga lo zenit, quasi tutti torniamo all’accampamento con lo stomaco pieno e non ci sarà bisogno di ripartire finché il sole non sarà basso all’orizzonte. Gli uomini trascorrono le ore più calde della giornata a realizzare archi e frecce o a riposare, a fumare la pipa di pietra e a raccontare storie. Certi giorni distillano veleno dalla linfa della rosa del deserto o macinano il veleno che usiamo per intingere le frecce, sostituendo quelle che sono andate perse nella caccia del mattino. Le donne badano ai bambini, confezionano monili di perline e macinano la polpa del frutto del baobab con la farina per fare la zuppa, mentre le altre si riposano e chiacchierano senza sosta nella nostra antica lingua “click”.

Se un uomo non torna per mezzogiorno, non c’è motivo di preoccuparsi, anzi, c’è ragione di sperare. Potrebbe essere stato portato lontano da un uccello indicatore o, meglio ancora, aver seguito le orme di un grosso animale colpito dalla sua freccia avvelenata. In quest’ultimo caso, ci sarà abbastanza carne per banchettare finché lo stomaco si dilaterà e l’ultimo brandello di grasso e nervi verrà strappato dalle ossa, che spezziamo per succhiare il delizioso midollo al loro interno. Niente andrà sprecato e persino le iene se la fileranno con la coda tra le gambe a gridare la loro delusione alle stelle.

Poiché abbiamo la certezza che ogni nuovo giorno ci darà sostentamento, non abbiamo bisogno di mettere via il cibo per il domani e dividiamo con gli altri tutto ciò che possediamo. Ma per avere cibo a sufficienza per il giorno dopo, viviamo una vita nomade che permette alla terra di recuperare dopo il nostro passaggio. Quando torniamo, la ritroviamo ancora una volta sana e fertile.

Dal momento che non usiamo lacci e trappole e cacciamo solo con gli archi e le frecce che costruiamo da soli, non abbiamo un impatto duraturo sulla fauna che vive allo stato brado. Non tagliamo gli alberi per costruire case o recinti per gli animali domestici e per immagazzinare il raccolto. Come il resto del mondo, dipendiamo dalle piante, ma non le distruggiamo. Beviamo direttamente alle fonti e vi ritorniamo ogni volta che abbiamo sete. Scavare ed esaurire le sorgenti per annaffiare le coltivazioni e dissetare il bestiame impoverisce la falda acquifera, impedendo agli animali selvatici di bere. Se non trovano acqua, saranno costretti a spostarsi, e noi che fine faremo? Le nostre case sono semplici rifugi provvisori fatti di erba secca gettata sopra a una struttura di rami intrecciati, simile a un nido rovesciato. Non appena ce ne andiamo, tornano alla terra, e quando ritorniamo ne costruiamo di nuove. Viviamo in armonia con l’ambiente perché viviamo sulla terra e dipendiamo direttamente da lei. Ne abbiamo cura e lei ha cura di noi. Abbiamo vissuto nella regione di Eyasi per migliaia di anni e non abbiamo mai lasciato tracce sul territorio. E questa, paradossalmente, è la causa delle nostre difficoltà attuali. Altre tribù, attraversando quest’area, hanno pensato che fosse disabitata e vi si sono stabilite. All’inizio la cosa non ci ha creato problemi, perché la nostra terra era fertile e poteva sfamarci tutti. Ma presto ci siamo resi conto del danno causato all’ambiente dall’agricoltura, dal taglio degli alberi per costruire case e recinti per il bestiame e per fare carbone, dalle gigantesche mandrie che pascolano senza interruzione e dallo scavo di pozzi, che ha costretto le sorgenti a ritirarsi nelle profondità del suolo.

Alla fine, quando abbiamo deciso di protestare e di rivendicare la nostra terra, il nostro appello è rimasto inascoltato.

Siamo discriminati perché siamo cacciatori-raccoglitori. Chi non comprende la nostra economia e la nostra cultura ci tratta da retrogradi o primitivi. Poiché abbiamo mantenuto il nostro ambiente allo stato naturale, pensano che la nostra terra sia disabitata e vergine, e i nostri diritti primari di tanzaniani ci vengono negati.

Negli ultimi decenni abbiamo perso oltre tre quarti della terra per colpa di queste pratiche devastanti. Contrariamente a quanto si crede, noi Hadzabe non ci opponiamo allo sviluppo, ma all’uso indiscriminato della terra. Crediamo che sia possibile progredire conservando la nostra eredità culturale e mettendo a frutto la conoscenza che abbiamo dell’ambiente per farne un uso positivo e sostenibile. La priorità, quindi, è vedere riconosciuti i nostri diritti sulla terra che ci ha sostentati per migliaia di anni e che abbiamo mantenuto intatta per le generazioni future.

Via via che perdiamo la terra, le piante e gli animali grazie ai quali viviamo, veniamo privati dell’unico fondamento che ci permette di progredire insieme ai nostri compatrioti tanzaniani. La perdita del nostro ambiente naturale ci lascerà senza dimora, e la sua distruzione non recherà vantaggio ai nostri vicini o al nostro paese, la Tanzania, né ora né mai. I nostri concittadini perderanno una cultura ricca di conoscenze millenarie che dà completezza alla vita dei nostri figli quanto dei loro.

Noi Hadzabe intendiamo promuovere la comprensione della nostra cultura e della nostra economia – una comprensione che porterà a un maggiore rispetto per la nostra terra e i nostri diritti umani fondamentali. Solo una conoscenza più profonda e il rispetto altrui per ciò che siamo ci permetteranno di vivere con dignità un futuro da tanzaniani.

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