Non ho attraversato il deserto per finire in una piazza

Testi di Davide Coppo e Vincenzo Latronico
Fotografie di Alice Schillaci
Styling di Francesca Cefis
Casting di Stefania Perna

La Porta Venezia, che in realtà conduceva più verso l’Austria, è uno dei varchi difensivi della Milano d’epoca spagnola che nei secoli è rimasto come indicatore topografico di un quartiere. In realtà la porta non c’è mai stata: due archi di trionfo in legno e cartongesso sono stati eretti fra i caselli doganali per celebrare degli imperatori di passaggio, finendo smantellati subito dopo. Verso l’interno, cioè a sud, cioè in centro, comincia la città dei conquistatori austriaci, le ville basse e larghe del Settecento; a ovest il fascismo ha eretto le torri che si vedono sulle riviste e i grandi complessi razionalisti nel vuoto urbano ricavato dallo spostamento della ferrovia, che un tempo attraversava il quartiere fino alla prima stazione centrale di Milano, in quella che oggi è piazza della Repubblica. 

A nord, fuori le mura, si trovava anche il lazzaretto in cui venivano fermati gli appestati perché non infettassero la città; ma da più di un secolo le uniche tracce che ne restano sono la via omonima e la chiesetta di San Carlo che sorgeva al suo centro, ora circondata da un reticolo di stradine strette fra basse palazzine residenziali, giallo ocra e rosso mattone, sfiorate dal liberty milanese. 

Nella prima metà del Novecento la vicinanza col centro ne ha fatto un quartiere borghese; nella seconda, la vicinanza con la stazione ne ha fatto una zona meno desiderabile dai benpensanti, e quindi porosa, aperta alla trasformazione. Da decenni la zona di Porta Venezia è il centro ideale e biografico della vastissima comunità habesha (la parola è all’origine del termine “Abissinia”, col quale s’intende l’Eritrea e parte dell’Etiopia) attratta in origine da una chiesa e poi stabilitasi tutt’intorno. È un caso unico in Italia di un quartiere abitato in modo stabile da una popolazione “straniera” diversa da quella cinese (ma dopo tre generazioni il concetto è molto più complesso), integrato nell’economia e nella geografia cittadina da quarant’anni di storia, eppure ancora compattamente a sé, a lungo ignorato dalle mappe della metropoli della moda e del design. 

Ultimamente, questa cosa sta cambiando.

Il quartiere di Porta Venezia, oggi, si compone di due vite che corrono quasi parallele, si incrociano brevemente al crepuscolo, proseguono le loro strade, opposte. La comunità habesha è ben visibile di giorno, davanti ai negozi di alimentari e ai ristoranti dai nomi evocativi: Asmara, Adulis, Massawa. Quando il sole è sceso le vie vengono invece illuminate da molteplici insegne colorate, appoggiate su porte a vetri oppure insonorizzate che si aprono e chiudono con una cadenza veloce e regolare: non sono quelle dei ristoranti habesha, sono quelle dei bar e dei club che hanno aperto negli ultimi dieci, quindici anni. Anche le facce che vi transitano, che bevono gin tonic sui marciapiedi, sono diverse dalle facce incontrate di giorno: sono quasi esclusivamente bianche. 

Porta Venezia ha subito un processo di gentrificazione lento ma convinto. Il quartiere della più importante chiesa copta di Milano, oggi, è anche il quartiere gay della città. Ogni anno il Pride termina qui, e se si potesse intercettare la musica dei diversi locali di via Felice Casati, il risultato sarebbe uno strano mash-up di hip hop, popstar eritree e Rihanna. Le due vite si toccano all’ora di cena, quando i ristoranti sono frequentati da italiani (ma forse sarebbe meglio dire da “bianchi”) e habesha. Sono giovani e non, arrivati a Milano da pochi giorni, oppure residenti in queste stesse via dagli anni Settanta. Quelli arrivati da poco chiedono consigli per un visto o un alloggio o un aiuto diplomatico ai più anziani ed esperti. Uno di questi è Tekle.

È un uomo minuto, con i capelli brizzolati, corti, folti, nato nella seconda metà degli anni Quaranta ad Asmara. Nei primi anni Settanta lavorava ad Addis Abeba, in Etiopia, per una società mineraria chiamata Montecatini. Venne in Italia per una vacanza nel 1972, da turista. In Etiopia – nell’Etiopia di allora – iniziarono i disordini. Non vi tornò più. Di quei giorni Tekle ricorda le organizzazioni delle case occupate, eritrei e italiani insieme. Ricorda le mediazioni con gli assessori del Partito Comunista Italiano per non farsi sfrattare. Ricorda che allora, a differenza di oggi, un passaporto per l’Italia, dall’Eritrea, si otteneva in due giorni.

La storia di Tekle è indicativa del rapporto stretto e ambiguo con l’Italia che da decenni spinge qui chi lascia l’Eritrea e l’Etiopia. Non è una semplice migrazione in cerca di una vita migliore (quella di chi viene in Italia per caso o per vicissitudini personali, ma che poteva benissimo andare altrove); ma non è neppure un ritorno coloniale come si è avuto in Francia o in Olanda, perché l’Italia non ha mai avuto una politica postcoloniale, e perché la sua colonizzazione è stata per molti versi più superficiale e sbilenca di quelle di altri Paesi europei. 

Dopo la cacciata degli occupanti da parte di Hailé Selassié nel 1941, le famiglie italiane rimpatriate in fretta e furia hanno portato con sé amici, collaboratori e domestici che hanno formato una prima rete di supporto per la comunità habesha. Nel 1974 questa rete ha accolto chi fuggiva dal colpo di stato in Etiopia; poi dalla guerra con l’Eritrea, e infine dal regime instauratovi da Isaias Afewerki dopo il successo del movimento indipendentista, di cui molti espatriati politici erano animatori. (Alcuni, specie le seconde e terze generazioni, ne sono tuttora forti sostenitori, per un misto di lontananza e di orgoglio identitario per la conquista dell’indipendenza che rende meno bruciante, ai loro occhi, l’evidenza delle ingiustizie del regime.)

Il radicamento storico della comunità habesha e la continuità con la storia italiana rende fuorviante e inadeguata la categoria di “migranti”; ma non ce n’è un’altra, perché l’Italia – per xenofobia, per arretratezza – non ha elaborato un’idea di società multietnica in cui una pelle di colore diverso non susciti immediatamente la domanda: “Da dove vieni?”. “Sono nata e cresciuta qua”, dice una giovane donna intervistata in Asmarina, un recente documentario sul quartiere di Porta Venezia. Parla con uno spiccato accento lombardo che nella mente di un milanese non ci si aspetta in una donna tigray. “Ma vengo vista come una straniera”. 

La stessa frase, con lo stesso accento, potrebbe essere stata pronunciata da uno qualunque dei giovani italo-eritrei ritratti in queste pagine, membri di seconda e terza generazione della comunità incentrata a Porta Venezia.

Un esempio di integrazione spontanea tra la comunità habesha e la città con il resto dei suoi abitanti è rappresentato dal Love, un piccolo club gestito da una famiglia etiope interamente femminile: la madre e tre sorelle. Non possiede nessun tratto particolare, o innovativo – l’arredamento è semplice, il bancone poco spazioso, i cocktail non particolarmente buoni, e l’impianto audio di una qualità sotto la media – eppure, da anni, il Love è frequentato, ogni weekend e non soltanto, da un certo strato di società milanese che potremmo definire “classe creativa”, oppure, con una semplificazione ancora maggiore: hipster.

Il successo del Love si spiega (o non si spiega) con i tradizionali e poco schematizzabili meccanismi della gentrificazione della vita notturna, per cui un locale senza molti pregi inizia a ospitare, probabilmente grazie ai costi contenuti e alla mancanza di una vera e propria programmazione, alcune serate alternative organizzate da pr e dj giovani e capaci. Il resto è in discesa.

Le serate che hanno reso il Love uno dei punti centrali della nightlife underground milanese sono due, e si chiamano “Bruttoposse” e “Girls Love Beyoncé”. Si suona hip hop e sia gli organizzatori che i partecipanti provengono dal mondo dell’arte, della moda, dell’editoria “alternativa”. 

Il Love, tuttavia, non ha sempre goduto delle fortune attuali. Prima di trovarsi dove si trova oggi – in via Melzo, leggermente fuori dal cuore dell’intreccio stradale più spiccatamente habesha – aveva un altro nome – One Love – e si trovava in via Tadino, spalla a spalla con ristoranti e alimentari eritrei. La prima vita del Love fu travagliata, a causa di alcuni contrasti politici interni alla comunità, che sfociarono in episodi di vandalismo. Se da un lato, oggi, è piuttosto raro vedere un avventore habesha al Love, sintomo di una ferita mai suturata, dall’altro, per molti milanesi che frequentano le sue serate, può rappresentare un primo punto di contatto con la grande comunità eritrea ed etiope.

I crocchi di persone che si vedono tutti i giorni radunate sui marciapiedi del quartiere non sono solo quelli delle curatrici d’arte e degli stylist con la birretta in mano. Le recenti ondate migratorie portano ogni giorno decine di nuovi arrivi nel quartiere, spesso senza un soldo né un oggetto a parte un vecchio telefono, a volte persino senza un contatto preciso, ma con la certezza di poter trovare una qualche rete di supporto per stabilirsi a Milano. Si radunano a chiacchierare – o a ingannare il tempo crudele della disoccupazione – o a cercare informazioni – o a offrirne – sui gradini di fronte alle vetrine dei ristoranti abissini, dei phone center, delle sartorie; gli stessi gradini che poche ore dopo ospiteranno ragazzini che limonano e trentenni ubriachi. Aspettano la messa in rito etiope alla chiesa di San Vincenzo de’ Paoli, poco distante; giocano a pallone ai piedi dei giardini ricavati dai vecchi bastioni, ascoltando musica eritrea da un diffusore portatile.

È un’immagine che per un italiano dovrebbe essere particolarmente familiare: in molti hanno un nonno o un bisnonno che nella New York d’inizio Novecento doveva aver trovato qualcosa di simile: un quartiere comunitario compatto, inserito nella città ma ritenuto da una parte di essa alieno ed estraneo; una rete di sostegno; un’idea di futuro. Nonostante le difficoltà, qualche decennio dopo in America c’erano i Fiorello La Guardia e i Rudolph Giuliani e i Frank Sinatra. Girando per Porta Venezia non si può che sorprendersi che l’Italia, a parti invertite, non si sia dimostrata altrettanto aperta. 

“Didn’t cross the desert to end up in a square” (Non ho attraversato il deserto per finire in una piazza), dice un graffito fresco di vernice nel cuore di Porta Venezia.  

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