PowWow

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Stiamo aspettando che sia sabato per il grande Wacipi delle Black Hills.
Il powwow delle praterie è un evento sociale che può durare svariati giorni nei quali i popoli tribali del Nord America si riuniscono, campeggiano insieme, si riconnettono come Grande Nazione Sioux. 

Un powwow moderno è un raduno annuale estivo, che prevede socialità, bancarelle di tacos, pane fritto e salsa di frutti rossi, e gare di danze cerimoniali divise per età dei concorrenti. Altri quattro giorni a Rapid City potrebbero sembrare esagerati, ma questa cittadina del Midwest ci sa intrattenere. Alle cinque di sabato incominceranno a arrivare e registrarsi al campionato. Tipicamente le creste di piume non entreranno nella sacca da sport e così il parcheggio del Rushmore Plaza Civic Center si riempirà in poco tempo di pickup da cui scenderanno indiani “in borghese” con incredibili corone di lunghe penne di istrice e pelo di cervo in testa. Avete mai visto un Tetraone di prateria maggiore danzare in primavera?

È una specie di faraona, un uccello piuttosto introvabile oggi nelle Grandi Pianure. Quando vedrete i nativi danzare nell’arena del powwow, vi sembrerà di aver già visto davvero questo animale una volta da qualche parte. I maschi si incurvano in avanti, le teste scattano su e giù, facendo ondeggiare le piume di qui e di là, tengono il tempo di una musica invisibile, i piedi si muovo in piccoli passi rapidi, su un disegno a zigzag nell’erba. Sono consapevoli della presenza delle femmine? Sembra di no. Celebrano una grande vittoria? Sì. In realtà la storia passata e recente di questi popoli ha subito incurabili perdite e sottrazioni e, se non gli piace parlare della miseria che esiste in diverse riserve del Paese, non riusciamo nemmeno a farli parlare di come si stanno organizzando per una rinascita del loro popolo.

Tutta la vita materiale dei Dakota, Lakota e Nakota, le tre maggiori divisioni tribali della Grande Nazione Sioux, era pensata per la mobilità, per un’esistenza nomadica. Non avevano nulla che non potesse essere trasportato da una persona, un cavallo, un cane. Un intero villaggio poteva muovere un accampamento in quindici minuti, dal segnale ufficiale del capo via ad arrotolare, legare in piccoli fasci, fino alla processione. In quindici minuti queste famiglie indiane riescono ad aprire una sacca da calcio e trasformarsi in un magnifico personaggio ornato dalla testa ai piedi.

Essere nomadi non vuol dire non avere affetto per la terra. C’erano sempre posti preferiti dove accamparsi, dove ripetere la dura Danza del Sole, dove stabilire il villaggio per l’inverno e c’era una nostalgia legata a questi luoghi e tornarci era come il nostro tornare a casa.

Aspettando sabato, abbiamo deciso di fare un tour nella grande riserva privata di cavalli Mustang nei pressi di Hot Springs. Anche qui ci troviamo di fronte a una specie di “one-minute wonder” per il sogno di un essere umano (un rancher e naturalista originario dell’Oregon), un vero sogno americano e per l’immenso lotto di terra rocciosa sacro ai nativi, attraversato da un pezzo del corso del Cheyenne River e da voli di aquile. Siamo finiti su uno scuolabus color zuppa inglese scricchiolante e rallentiamo davanti a un campo, dove si è da poco conclusa la Sun Dance. Le tipi rimosse dal grande cerchio cerimoniale, le bande disperse in diverse direzioni, i pali santificati che aspettano di essere abbattuti dal vento. La Sun Dance si svolgeva ogni anno durante la luna dei prugnoli maturi e durava dodici giorni. La “ricerca della visione” per i Sioux avveniva per mezzo del potere raggiunto attraverso il sacrificio personale, la cattura, la tortura, la schiavitù della sofferenza fisica. Negare l’ego. 

Dipinte su pelle di cervo, di solito in maniera spiraliforme con il primo ricordo al vertice, le waniyetu wówapi o “winter court” erano la memoria di una famiglia. Stuoie giganti, arazzi pittorici, che tenevano il conto degli eventi passati e probabilmente compagnia nelle notti d’inverno. Gli anni non erano numerati, erano intitolati. Per esempio, uno del gruppo poteva riferirsi alla sua età dicendo: “Sono nato quando Corvo rubò molti cavalli”. E così c’era l’inverno in cui “La tenda di Piccolo Castoro bruciò”, l’anno 1813 fu ricordato come “L’uomo con una pistola”, la prima volta che quella banda Sioux vide un’arma da fuoco. Il 1869 si disegnò come l’anno in cui “Il Sole morì” (l’eclissi di sole del 7 agosto). Un fenomeno particolare, un evento mozzafiato diventava il simbolo di un anno intero. La parte per il tutto. Le cose importanti della vita si giudicavano con la prova dell’accesso a quel grande calendario illustrato di famiglia. Come in tutte le cose circolari, l’inizio o la fine non erano molto rilevanti, così per gli indiani forse l’anno iniziava in aprile, con la nascita dei nuovi vitelli e la fine dell’inverno, ma questo entrava semplicemente nel cerchio della vita.

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