Ritorno a Milano

Testo di Cesare Alemanni
Fotografie di Luca De Santis

Nell’ottobre 2012 ho lasciato Milano, la città in cui sono nato e cresciuto, alla volta di Berlino, una metropoli che mi incuriosiva da tempo e dove ho vissuto e lavorato negli ultimi quarantotto mesi, tra piacevoli conferme circa la sua offerta – immensi spazi verdi, un lifestyle disteso, una proposta culturale molto ampia – e l’inattesa scoperta che, tutto sommato, la capitale tedesca non faceva fino in fondo per me. Ciò che credevo fosse un amore duraturo si è invece rivelato una relazione transitoria, bella ma anche sofferta, che, insieme al ricordo di splendidi momenti, mi lascia quello di diverse incomprensioni e la sensazione che forse davvero “there is no place like home”.

Per ovvie ragioni, in questi quattro anni sono tornato spesso a Milano e ho assistito, con lo sguardo di chi ha altri panorami negli occhi, ai suoi notevoli mutamenti. Visita dopo visita ho scoperto una bellezza e una vitalità che non saprei dire se ero io a non vedere in passato o se, come sostengono in molti, era la città a non possedere prima del suo recente restyling.

Quattro anni fa pensavo che uno dei difetti principali di Milano fossero le sue dimensioni. “Troppo piccola e stretta”, rimuginavo tra me e me, agognando le grandi Allee, le prospettive sulla Spree e gli Zwischenräume (letteralmente “spazi tra” i palazzi) di Berlino. Oggi, mentre mi accingo a ritornarci a vivere stabilmente, mi sembra che l’estensione relativamente contenuta di Milano sia invece una delle sue principali qualità. Ti permette di uscire di casa un sabato mattina di primavera e di girovagare a piedi senza una meta precisa, scoprendo angoli e dettagli a cui non avevi mai prestato attenzione, per poi ritrovarti, magari poco dopo il pranzo, a entrare in una pinacoteca senza che fosse nei piani, uscendone giusto in tempo per incontrare qualche amico per l’aperitivo o per la cena.

Piccoli lussi e abitudini che gli abitanti dei grandi sprawl metropolitani non conoscono, un pigro deambulare che non avevo mai saputo abbastanza apprezzare, finché non mi sono trovato a vivere in una città in cui ci si considera vicini di casa se si abita a quattro fermate di U-Bahn di distanza. Una Milano, quindi, di lievi escursioni sabbatiche, all’opposto di come la si immagina dall’esterno, di come la racconta la chiacchiera consueta, che la vuole città frenetica e sempre indaffarata, caotica e inquinata. 

Come non mancano di ricordarci le più recenti e boriose acquisizioni del suo “skyline”, Milano è innegabilmente anche queste cose – è pur sempre la capitale italiana di business, moda, design, comunicazione e finanza. Ma, appunto, non si esaurisce con la sua vocazione produttiva né con l’ostentazione delle sue novità da Expo.

Un’altra cosa che spesso lamentavo prima di andarmene è come la città fosse “tutta troppo uguale a se stessa”, priva dei contrasti e delle differenze tra quartiere e quartiere che si incontrano in altre metropoli. Ovviamente sbagliavo. Ora mi pare che a Milano, a fianco di un certo inevitabile conformismo, esista un’ampia forbice di contrasti, assicurata dalla convivenza di contesti di stratificata sofisticazione e oasi di sfacciata semplicità.

Un itinerario che amo, in tal senso, è quello che, allungando un po’ per passare dalla Chinatown di Sarpi, porta da Brera all’Isola, entrambi ex quartieri popolari, in tempi diversi diventati qualcos’altro. È una passeggiata di poco più di mezz’ora che è anche un percorso nella storia della città e di alcuni dei suoi quartieri più significativi: luoghi dove si sono sedimentati decenni, se non secoli, di trasformazioni e migrazioni interne ed esterne al tessuto urbano, e dove l’hip e lo chic dei nuovi inquilini in New Balance o Berluti ancora convivono con il tran tran di vecchi antiquari, mercati e trattorie. 

È una via alla gentrificazione – l’ormai famigerata gentrificazione – quella di Milano, a suo modo lenta e conservativa, diversa da come il fenomeno si manifesta altrove: a Londra, New York, o per esempio proprio a Berlino, dove, nel giro di dieci anni, il rinnovamento è passato come un bisturi cancellando quasi del tutto i precedenti connotati di Prenzlauer Berg. 
In questa lentezza, in questo riflesso quasi incondizionato di rispetto per il passato, Milano, che ama immaginarsi e raccontarsi come la più europea delle città d’Italia, rivela, per fortuna, il suo carattere arci-italiano. 
Lo stesso che i milanesi tradiscono nella gelosia con cui coltivano le loro tradizioni, i loro piccoli segreti sulla città.Che si tratti delle paste di Marchesi, dell’ossario di Santo Stefano, dell’eleganza di Villa Necchi Campiglio o di quella, discreta, del piccolo Parco Montanelli, ogni milanese ha una propria intima geografia di ciò che rende speciale la sua città.

Tempo fa vidi un documentario dedicato alla vita di Inge Feltrinelli, vedova di Giangiacomo e gran dama dell’editoria meneghina, a cui Milano deve molto. A meno di trent’anni, Inge – che era amica di Hemingway, Picasso, Warhol, Capote, e aveva frequentato le stanze più esclusive del mondo della cultura anni Sessanta – avrebbe potuto scegliere di vivere dovunque: New York, Londra, Parigi, Los Angeles. Scelse Milano, per amore di Giangiacomo ma anche perché, raccontava nel documentario, “negli anni Sessanta non aveva nulla di invidiare a nessuna città del mondo”. 

Quattro o cinque anni fa, quando Milano era in uno dei punti più bassi della sua sinusoide, nemmeno i più ottimisti avrebbero sottoscritto una frase del genere. Farlo oggi forse sarebbe comunque azzardato e prematuro. C’è ancora molto lavoro da fare. C’è per esempio da capire cosa decideranno di fare con gli ex-scali ferroviari i nuovi amministratori della città: se finalmente delle grandi aree verdi o ulteriori abitazioni. Questa e altre scelte ci diranno se Milano vuole continuare a uscire dalla sua comfort zone, come, da vecchio-nuovo milanese, le ho visto fare, da lontano ma con grande piacere, negli ultimi quarantotto mesi.

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