This Place is All About Good Vibes

Testo di Federico Pompignoli
Fotografie di Delfino Sisto Legnani

Fondazione Prada e l’ultima Milano

“[…] come i barbari fuori delle mura, l’informe, il residuo, il disordinato delle periferie, delle aree industriali dismesse, del territorio non pianificato insistono per partecipare al banchetto della cultura. Conferirne significato è il compito della politica, ritrarne le fattezze è il compito dell’architettura del prossimo millennio”. Così il professor Fulvio Irace in uno dei suoi articoli sull’inserto culturale de Il Sole 24 ORE descriveva le grandi trasformazioni in atto nella periferia della città contemporanea.

A Milano, come in molte altre città del mondo, si assiste ancora al fenomeno della riconversione di aree industriali dismesse. Nella zona sud, scalo di Porta Romana, a un paio di chilometri in linea d’aria dal Duomo, la presenza della cintura ferroviaria ormai abbandonata ha procurato una cesura così profonda nel tessuto urbano che, non appena si oltrepassa il cavalcavia, si ha l’impressione di addentrarsi in un comune diverso, un luogo senza tempo, silenzioso, dove lunghi muri di cemento fiancheggiano strade quasi deserte, le insegne luccicanti sono state sostituite da edere rigogliose e i grandi portoni di ferro mantengono ancora i binari a terra che li attraversano. In questo luogo l’atmosfera caotica del centro sembra essere stata sostituita da un set cinematografico di Pasolini dei tristi anni Sessanta.

Ma che cosa succederebbe se all’improvviso si scoprisse che, fuori dalle mura, ci attende qualcosa di totalmente inaspettato, che mette in crisi i valori che ne regolavano la vita al loro interno? Siamo ancora disposti ad accettare realtà differenti o la città contemporanea si regge solo sulle certezze consolidate dal tempo e dall’uso comune?
In una mappa turistica di Milano, infatti, a questo quartiere ai margini del centro storico spetterebbe un posto di diritto, identificato come il luogo in cui ammirare l’ultima vera Milano; una cartolina dell’ultima parte di città che ha mantenuto inalterati i principi che l’hanno generata: i grandi stabilimenti produttivi figli dello scalo ferroviario.

Una situazione ambigua molto simile a quanto accaduto a Berlino, in cui la costruzione del muro aveva fatto sì che la depressa economia della DDR mantenesse inalterata la condizione della città orientale alla fine della guerra. Un presupposto negativo che, tuttavia, una volta eliminato, ha generato un effetto dirompente: la città è stata consegnata nella sua forma più autentica mentre dall’altra parte del muro, a ovest, ci si affrettava a ricostruire velocemente e grandiosamente.

Qui, a Milano, ondate di turisti “cult” dovrebbero passare, per avere un diverso punto di vista di una città recondita e inusuale, e riflettere se per il futuro che incombe su questo quartiere (come già successo per la zona dell’ex fiera o per zona Tortona) non si possa barattare l’aumento vertiginoso dei prezzi al metro quadro o la comparsa di multisale ed edifici a uso misto, con una riflessione più profonda che possa dar luce ad alcune applicazioni di concetti alquanto insidiosi ma nuovi quali: autenticità, nostalgia, ambiguità e “anti”. Circa la nozione di autenticità e nostalgia, infatti, Svetlana Boym in The Future of Nostalgia afferma “[…] a prima vista, la nostalgia è il desiderio di un luogo, ma in realtà è la nostalgia di un tempo differente; il tempo della nostra infanzia e del lento ritmo dei sogni. In senso più ampio, nostalgia è la ribellione contro la moderna idea del tempo, del tempo della storia e del progresso”.

L’attenzione al concetto di nostalgia sulla città può avere conseguenze devastanti: una crescente resistenza ad accettare i cambiamenti e la modernizzazione nei contesti storici come inevitabile evoluzione; ristrutturazioni filologiche focalizzate nella letterale ricostruzione del passato; normative primitive che forzano i nuovi progetti ad assomigliare ai vecchi generando una indefinita minestra di “autenticità” passate e presenti.

L’autenticità di questo quartiere sta nell’accettare che il passato produttivo di questi desolati recinti e capannoni ci ha consegnato intatta una zona libera dal traffico, a misura d’uomo, e in cui i volumi abbandonati, grandi e “generici”, posso essere trasformati per dare vita a nuovi programmi.
All’interno di uno di questi recinti, lo spazio industriale è stato trasformato in un museo di arte contemporanea, la Fondazione Prada: un luogo produttivo elevato al rango di spazio pubblico per il loisir e la cultura. Quanto mai ardito come programma, ma d’altra parte cosa ci si potrebbe aspettare come risultato dalla collisione di due “entità”, quali Prada e OMA? Quale risultato potrebbe generare l’incontro/scontro tra chi ha iniziato la propria carriera proponendo borsette ottenute dalla lavorazione del nylon dei paracaduti militari e chi promuove da anni conferenze che hanno come prima slide la scritta ”challenge vs comfort”?

Entrambe le carriere sono state caratterizzate da una forte inclinazione all’“anti”, sia da un punto di vista culturale sia, conseguentemente, da un punto di vista estetico. Ricordo uno dei primi meeting avuto con la signora Prada. Le mostravo diligentemente, e con un certo orgoglio, le svariate opzioni sviluppate per sviscerare ogni possibile dubbio su scelte e combinazioni di materiali. A un certo punto incrociai il suo sguardo, tra lo scocciato e l’annoiato, seccamente mi disse: “Io non sono un architetto, ma sono molto interessata e attenta ai processi. Definiamo il processo quanto più chiaramente è possibile. Deve essere diretto ma mai ovvio, poi esteticamente vedremo”.

L’“anti” in questo caso passa per un modo profondo e rigoroso di concepire il lavoro e il progetto. Una guerra contro se stessi al fine di conquistare una condizione mentale di liberazione dagli stereotipi, dai dogmi, per poter fare solo ciò che il progetto richiede, non abdicando al senso morale, ma allo stesso tempo senza sentimenti e passioni dovute alle proprie aspirazioni, ai propri riferimenti e al proprio giudizio; perché è il giudizio che ci indebolisce.

Succede così che tutti gli spazi di una vecchia distilleria d’inizio Novecento vengano recuperati e trasformati in gallerie espositive, affiancati a tre nuovi edifici che li completano, aggiungendo nuove aree inedite per l’art display: un edificio basso a pianta libera, quasi completamente vetrato, un cinema trasformabile in palcoscenico all’aperto e una torre in cemento bianco alta 60 metri con gallerie espositive e un ristorante. Tutto questo lo si può notare e percepire passeggiando per gli spazi aperti del museo, aperti gratuitamente a tutto il pubblico. Lo spazio aperto appartiene alla città ed è stato disegnato come una vera e propria estensione della stessa. Il progetto lo si apprezza da qui. Il “dentro” degli edifici afferisce a un altro mondo, a un’altra scala, a un’altra categoria sociale – quella degli architetti, degli addetti ai lavori e dei critici.

All’esterno si può pensare che lo studio di Rem Koolhaas (OMA), solitamente sfidato dalle aspettative e dal fardello di svelare il prossimo edificio spettacolare, abbia deciso di intraprendere l’idea di deviare l’interesse verso un’interpretazione più sostenibile del contesto e verso una più delicata presenza dell’intervento, raggiungendo un grande risultato: meno ossessione con la necessità di modificare lo skyline delle città, e più attenzione alla conservazione, al riuso dell’esistente, sfida lanciata agli architetti con una serie di domande diverse meno incentrate sulla forma e più sul programma, i materiali, la storia, i sistemi e le tecnologie. L’implicazione è semplice: uno spostamento radicale dall’egocentrismo e dall’iconico verso l’invisibile e il contestuale. La preservation diventa quindi un atto politico che forza urbanisti, imprenditori, architetti e costruttori a considerare dei modelli alternativi di operare nel futuro delle città a partire dal loro passato, riutilizzando edifici esistenti al posto di costruire nuove strutture.

Nella sua ultima accezione e se la situazione lo richiede, la preservation può essere così rivoluzionaria da introdurre la possibilità dell’astenersi nel vocabolario dell’architettura, facendo nulla o quasi nulla, evitando di progettare e costruire il nuovo; strumenti tanto potenti tanto quanto i loro opposti.

La Fondazione Prada è dunque figlia del suo quartiere e di una visione di un’altra città, che ambiguamente accetta la diversità, l’eterogeneità, la coesistenza di pezzi diversi al posto della standardizzazione e dell’omogeneità del nuovo a tutti i costi. Un progetto che non può essere definito né pura conservazione, né nuova architettura, un ibrido insolito in cui i vecchi edifici sono fusi con i nuovi senza soluzione di continuità, ma in cui essi ancora mantengono la propria identità senza prevalere o soccombere rispetto gli altri.

È stata una decisione forte, lasciare di fatto che gli edifici esistenti e i nuovi si confrontassero apertamente, rifuggendo polverosi stereotipi di rispetto riverenziale e presunte originalità, scommettendo solo sulla capacità che tanti caratteri particolari, messi insieme in modo apparentemente casuale, non avrebbe generato una condizione di fastidio, bensì una sensazione piacevole, di genuina e ricca armonia.Lo stesso Rem Koolhaas mi disse una sera camminando per il museo: “This place is all about good vibes” (Questo posto è tutta una questione di buone vibrazioni).

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