Credo di aver subito una specie di maledizione, l’ultima volta che ho messo piede a Venezia. Era agosto e il sole ce la metteva tutta per sciogliere i corpi e le camicie e i pantaloni e le volontà. Erano anni fa, alcuni, ma non troppi. Ritornandoci, a febbraio, scopro una città con un altro volto: è nascosta nella nebbia, ha contorni sfumati, oppure è senza contorni e confini netti, non è fiaccante ma comunque inquietante. In realtà, arrivando a Venezia, era un’altra la domanda che mi sbandava in testa: qual è l’ingrediente che fa sì che alcune città sappiano generare ricordi più di altre?
Me lo chiedo perché il mio rapporto con Venezia è stato, sempre, di tipo turistico, ricreativo, in un certo senso poco personale. Me lo chiedo a causa di quella specie di maledizione: ci sono città in cui non ho mai vissuto a lungo che sono però riuscito a conoscere a fondo, o si sono aperte in modo naturale – hanno aperto le loro geografie, le loro emozioni – davanti a me. Accade con Londra, con Parigi, con Belgrado, forse anche con New York o con Addis Abeba: sono luoghi in cui mi oriento, nei cui palazzi riconosco una familiarità, di cui riesco a cogliere la quotidianità. Appena torno a Venezia, mi accorgo che qui non funziona. Eppure, di Venezia, di quell’estate, ho ricordi così vividi da sembrarmi tangibili. Ogni volta che mi capita di tornare con la mente a quei pochi giorni veneziani caldissimi, è come riviverli in tempo reale. Venezia genera ricordi, oppure li tiene imprigionati?
Automaticamente, mentre mi dirigo verso la Giudecca, mi rendo conto che più provo a pensarci più nascono nuove domande. È Venezia che tenta di confondermi? È qualcosa che c’entra con la magia? È qualcosa che c’entra con l’ologramma di Venezia nel mondo che è diventato un’immagine così permeante nelle coscienze collettive? Guardo i palazzi e ho la sensazione che Venezia abbia una vita misteriosa ed estranea alle vite che la avvolgono, come le foreste magiche di notte nei cartoni animati per bambini. Cerco, appena sbarco sull’isola, il luogo di uno di quei ricordi, il Milan Club Giudecca, e lo trovo con la vetrina uguale a come lo ricordavo anni fa, e ricordo la foto che scattai – la cerco e la ritrovo nella memoria dello smartphone – e ne scatto una uguale. Le confronto. C’è oggi come ieri la mia sagoma riflessa nel vetro. Nella foto del passato ce n’è un’altra, al mio fianco. È sfumata come un fantasma.
Mi accarezza l’idea di come sarebbe vivere a Venezia. Sarebbe anche un atteggiamento interessante, controcorrente, Venezia perde mille residenti all’anno e ora ne sono rimasti poco più di cinquantamila appena. Di nuovo mi scontro con l’inquietudine che mi comunica la città, e questa volta so che c’entra con uno stratificarsi millenario di passati che non conosco e ho la sensazione non riuscirei mai a possedere. Ci si abitua mai, a Venezia? Mi sento come Chihiro nella Città Incantata di Miyazaki, sospeso e allo stesso tempo prigioniero. Forse è quello che si prova nelle città portuali, eppure anche in questo caso Venezia è un porto diverso, non appartiene davvero all’epica mediterranea, non ne ha i caratteri, non ne ha gli ulivi, nemmeno le onde e le burrasche. La stessa acqua che cresce in silenzio e inesorabile sembra un sortilegio o una piaga biblica, una tortura, un’angoscia lenta di segno opposto rispetto alla violenza di una mareggiata. In Breviario mediterraneo di Predrag Matvejević, un atlante e una Bibbia di ogni sponda di questo mare, Venezia è citata soltanto pochissime volte, e soltanto di passaggio. Non è mediterranea, non è di questo mondo marittimo, non appartiene a nient’altro che a se stessa. Devono essere le lagune a produrre questo effetto: guardo le piccole barche dal fondo piatto che si muovono agili sull’acqua – mi è difficile chiamarlo mare – e mi ricordano le stesse barche viste sul lago Tana a Bahar Dar, in Etiopia, altro posto magico e umido e pieno di bellezza e truffatori, come qui, mi dico.
Evito di soffermarmi nei luoghi affollati e mi dirigo a nord verso Cannaregio, avanzando come se fossi cieco e guidato oppure calamitato, ritrovando un altro ricordo in una serie di cortili di per sé senza qualità. Una targa su un muro dice Corte de le Case Nove, non c’è nessuno intorno e rallento il passo, mi fermo, mi giro. Come se – di nuovo – ci fosse un glitch nel tempo rivedo le immagini di quell’estate: da lì arrivava il cane, grigio e piccolo e furioso, che mi correva incontro e non la smetteva di abbaiare, ricordo la mia paura e la mia immobilità, il vecchio seduto su una sedia di plastica a pochi passi da me – ci sono ancora, accatastate, ma senza vecchi, stavolta – che borbottava spazientito di andarsene, e lasciare in pace il cane, la mia rabbia.
Quando la giornata si fa avanzata e mi affaccio sul mare, vedo il cielo bianco farsi appena più rosa a causa del sole che si abbassa sull’orizzonte comunque nascosto. Potrei seguire il percorso dei ricordi e andare verso il Lido e imbarcarmi su un vaporetto per Pellestrina. Ritroverei la stessa stregoneria e mi sembrerebbe di nuovo di camminare nel passato, la strada sottile e dritta, la laguna da un lato, dall’altro le case colorate come dei pastelli a cera, la pigra idea di passare un’intera estate sull’isola senza mai muoversi, soltanto tra i ristoranti e la spiaggia. Ma Venezia mi catapulta indietro non solo nelle immagini, mi avvolgono anche le stesse emozioni e le stesse paure. Rientro nel presente soltanto quando il treno riprende la pianura, ho la sensazione che i sensi si riattivino intorpiditi come dopo una lunga immersione. Non ho risposte alle mie domande, ma conferme della sua magia.