Avrei dovuto incontrare la regista Lucrecia Martel a Salta, a pranzo, nel suo ristorante boliviano preferito il giorno del suo compleanno, ma alle 11 ho ricevuto da lei un messaggio col quale rimandava a più tardi la nostra intervista. Non avremmo assaggiato la specialità locale, la zuppa di arachidi, di cui mi avrebbe parlato in seguito.
Mi ha chiesto di incontrarla invece al Big Ben, un caffè-ristorante che prende il nome dal famoso orologio londinese. “Tipico argentino” mi ha detto. Ancora ispirato all’Europa. Nata e cresciuta nella provincia nordoccidentale di Salta – dove ha ambientato tre dei suoi quattro film – Lucrecia Martel ha acquisito notorietà internazionale nel 2001 con la sua prima pellicola, La ciénaga, l’intenso racconto impressionista di una famiglia della borghesia che si disgrega. Il debutto straordinario di Lucrecia Martel ha contribuito a rilanciare in modo influente il Nuovo cinema argentino, e ha introdotto alcuni temi sociali, una prospettiva femminista e una sensibilità estetica che hanno finito col caratterizzarne l’opera. Il suo ultimo film si intitola Zama, ed è stato accolto molto bene dalla critica che lo ha acclamato il miglior film del 2018: questo film drammatico in costume è ambientato nell’America Latina coloniale del XVIII secolo e vi ipnotizzerà, come è accaduto a me. I suoi film sono finestre spalancate sulle domande esistenziali dell’Argentina. Ti restano dentro e sono un must, se volete capire che cosa vi sia dietro la superficie di Salta, “La Linda”.
Lisa Rovner: Lucrecia, lei ha affermato che il suo modo apparentemente scollegato di raccontare una storia si ispira in parte all’abitudine diffusa in Argentina settentrionale di chiacchierare a ruota libera.
Lucrecia Martel: C’è qualcosa che non potrà non notare qui nel nord, se continuerà a visitarlo: alla gente piace davvero tanto parlare. Le conversazioni si protraggono a lungo, per il semplice piacere di parlare. Chiacchierare fa parte della cultura locale. Quando sono a Salta, vado sempre a letto alle 3 o alle 4 di notte. Sto sveglia fino a tardi e chiacchiero, parlo, con i miei familiari. Non sempre parliamo di cose importanti, ogni tanto accade, ma perlopiù ci piace chiacchierare di quel che capita e di come capita, e ridiamo tanto.
Chiacchierare è un tale piacere per tutti! E come risuonano le voci! Nella mia famiglia, da mia nonna a mia madre a mio padre, tutti hanno sempre provato un piacere immenso nel raccontare e inventare storie. Questa è la cultura nella quale sono nata e cresciuta. Le mie idee per i film non nascono mai da immagini, ma da conversazioni, chiacchierate, suoni. Forse da una scena, ma mai da un’immagine.
LR: Vive qui a Salta?
LM: Cerco di restare qui più a lungo possibile. La mia vita e il mio lavoro sono altrove, ma adoro stare qui. Dico sempre che a Salta ho un’idea nuova ogni tre minuti, mentre a Buenos Aires me ne viene una ogni due giorni. Fuori dall’Argentina, poi, non mi vengono nemmeno idee. Alcune persone si sentono stimolate quando viaggiano. Io viaggio molto perché il mio lavoro mi obbliga a farlo, ma mi sento ispirata più qui che da qualsiasi altra parte. Non so perché… Forse perché conosco bene il posto? Qui a Salta inizio sempre una nuova sceneggiatura. Questo è il luogo nel quale il mio desiderio di scrivere si risveglia.
LR: La sua attività di regista è iniziata con una videocamera VHS che suo padre portò a casa per la famiglia…
LM: Mio padre portò a casa una videocamera VHS, ma non la si poteva portare in giro. Era fissa perché molto pesante. Di conseguenza, buona parte di quello che filmavo restava fuori dall’inquadratura. Molte scene che filmavo erano fuori dall’inquadratura perché non riuscivo nemmeno a muovere la videocamera. Quell’esperienza mi ha insegnato che cinema non è soltanto ciò che è visibile, quello che è nell’inquadratura, ma anche tutto quello che è fuori di essa.
LR: Era ancora piccola durante la dittatura militare repressiva (1976-1983). Ne è stata influenzata nel suo lavoro di regista?
LM: Da bambini non abbiamo avuto una consapevolezza politica del conflitto in corso, ma ne abbiamo percepito la paura. E quando quella paura diventa onnipresente e permea tutto di sé, la avverti ovunque, in città, per strada, nella tua casa, e non sai perché, ma ti lascia un segno. Penso che, da questo punto di vista, quell’esperienza sia presente in tutto quello che realizzo.
Negli anni della mia adolescenza, le cose sono diventate più chiare. Sulla mia generazione questo ha avuto l’effetto di creare una grande sfiducia in quello che era detto a livello pubblico. Non ci fidavamo della televisione o dei giornali. Il Nuovo cinema argentino è nato proprio da questa diffidenza. La mia generazione ha avvertito un bisogno reale di tornare a raccontare le storie della quotidianità, le storie delle famiglie del quartiere, e di farlo usando spesso gente comune, attori non professionisti. Usare un linguaggio più colloquiale, preso in prestito dalla strada, è diventato il nostro modo di affrancarci dal rapporto macchiato di sospetto che avevamo con la lingua.
Mi interessano i personaggi che sono estranei ai limiti del potere. Gli spazi domestici sono perfetti per ambientare e per testimoniare le dinamiche del potere. In una casa coesistono classi sociali, i bianchi negano l’esistenza della popolazione indigena che di fatto vive insieme a loro. Le micro-dinamiche del potere in una casa riflettono ovviamente molte cose e molti aspetti del paese. Non per questo considero la casa una metafora del paese. Non lavoro mai con l’idea che una cosa sia metafora di un’altra.
LR: Si ritiene una regista di film politici? Pensa di essere una regista impegnata politicamente?
LM: Sì. Ho iniziato a girare film perché volevo prendere parte politicamente alla vita della mia città, della mia comunità e, forse proprio perché ho avuto l’esperienza di vivere la dittatura, per me era impossibile pensarci in termini di attivismo politico. Girare film è il mio modo di esprimere l’impegno nei confronti della mia comunità. E, anche se i miei film non parlano mai direttamente di questo, per me si tratta di un impegno onnipresente.
LR: Nei suoi film il sonoro fa venire voglia di ascoltare. Penso che ascoltare sia attivismo, lei che ne pensa?
LM: Certo. Tutto quello che ha a che vedere con il suono è eco della resistenza a un mondo che sta diventando sempre più strutturato dall’immagine, da ciò che è visivo. Non so perché, non ne sono sicura, ma a livello culturale l’immagine è una forma di predominio. Pensiamo alle telecamere di videosorveglianza: vedere è controllare. Quando vuoi sapere davvero che cosa sta accadendo, però, devi ascoltare. Se vedere è potere, dominare il mondo, ascoltare è una posizione più passiva nei confronti del mondo. Potremmo forse dire che è una posizione più femminile.
LR: Lei dice che essere donna, una regista donna, è un vantaggio perché noi donne siamo allenate al fallimento e a gestire le frustrazioni.
È esatto, in linea generale penso che questo ci abbia reso più forti. Le donne sanno come gestire le cose che non vanno per il verso giusto. Un uomo si spezza, una donna sa che doveva succedere.
Quindi, secondo me, questo ha resto noi donne più sagge e più forti.
Dopo la dittatura, Maria Luisa Bemberg ha realizzato un film di grande successo che parla di una ragazza del XIX secolo che si innamora di un prete, prodotto da Lita Stantic, quindi non ho mai pensato che per me sarebbe stato difficile inserirmi in questo settore. Sono cresciuta pensando che la regia sia un’attività da donne, una professione da donne, un mondo di donne.
In Argentina il femminismo esiste da lungo tempo, ma da parecchi anni non è più rappresentato soltanto da intellettuali e visionarie: è diventato un movimento popolare molto forte. È trasversale a tutti i partiti politici e annovera tutte le classi sociali. A questo proposito, è curioso notare che non c’è un’altra espressione politica tanto eterogenea in termini di classe sociale come quello che sta accadendo con questo movimento. Non so dire in che modo si evolverà tutto questo ma, per il momento, questo movimento di donne è condiviso da molte persone, è forte e in grado di attuare trasformazioni. È davvero incredibile, specialmente perché quello che è accaduto in Argentina ha avuto risonanze in paesi come Brasile, Bolivia e Cile.
LR: Torniamo a Salta: domani andremo a Cafayate. Qual è il posto che preferisce in provincia?
LM: Adoro le Valles Calcaquíes, ne amo ogni singolo angolo.
Salta è divisa in molte zone, ma per me il luogo più bello è lungo la strada 68 che va da Cafayate a Cachi. Il panorama della Quebrada de la Flecha è straordinario. Dà l’impressione di trovarsi su un altro pianeta. E la luce… la luce cambia il panorama.
Ogni volta che mi trovo qui a Salta, ci vado perché è un posto che adoro. Sa una cosa? Compri una cassetta o scarichi l’album di Mariana Carizo, una famosa musicista di Salta, una cara amica e grande femminista. È di origini indigene tradizionali, è nata molto vicino a Quebrada de la Flecha. Ascolti il brano intitolato Obras de Sangre… Quando percorre quella strada cerchi di riprodurre quel brano e vedrà come tutto combaci alla perfezione. Ah, un’altra cosa importante.
C’è un museo dedicato a James Turrell.
Sarebbe meraviglioso se potesse arrivare fino a lì.
E anche visitare tutte le piccole cittadine. Si porti dietro dell’acqua, si fermi, scenda dall’automobile e osservi come la luce cambia tutto il paesaggio.