Iguazú Mesopotamia argentina

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Juan Pablo Culasso è cieco dalla nascita, eppure è uno dei pochi birder capaci di identificare quasi tremila canzoni di settecento specie diverse. “Non essere in grado di vedere gli uccelli non significa non conoscerli.
Li osservo in un modo differente, attraverso le loro voci”.
Dall’adolescenza lavora alla registrazione e alla diffusione di suoni registrati in natura. Juan Pablo ritrae i suoni degli uccelli nelle Americhe.
La sua discografia è composta da dodici dischi che contengono registrazioni originali della foresta atlantica del Brasile, della giungla amazzonica, del Brasile occidentale e meridionale, dell’Ecuador, della Colombia, della California e del Minnesota (Stati Uniti), dell’Argentina. “Interpretare i suoni degli uccelli è una dimensione tanto importante quanto vederli. L’esperienza è organizzata come un laboratorio-clinica”.
A Iguazú ogni giorno, all’incirca alle ore sei della sera e del mattino, l’audio della selva misionera si alza bruscamente. Ipnotico frastuono composto da una stratificazione di versi, gridi, sonorità metalliche, pulsazioni elettroniche. Ogni giorno riprende da dove aveva lasciato, ognuno al suo posto, animali che possiamo solo intuire nella complicata vegetazione. La vista qui serve a poco, le orecchie sono il medium. 

“Si chiudano gli occhi, si presti attento ascolto e, dal più leggero soffio fino al più selvaggio rumore, dal più elementare suono fino al più complesso accordo, dal più veemente e appassionato grido fino alle più miti parole della ragione, sarà sempre la natura a parlare, a rivelare la propria presenza, la propria forza, la propria vita e le proprie connessioni, cosicché un cieco, a cui l’infinitamente visibile fosse negato, in ciò che è udibile potrà cogliere un infinitamente vivente”. (Johann Wolfgang von Goethe in La teoria dei colori)

Qual è il segreto per vivere nella selva? Il capo villaggio di una comunità di Mbya Guaranì, gli indiani scesi dal fiume Paraguay in Argentina, capisce la domanda al volo. Il segreto è rispettarla. La moglie Andresa scuote la testa in segno di grande affermazione, quasi volesse prendere la parola. Dobbiamo interromperci, i bambini sono impazienti, si sta facendo tardi per la canzone del mattino: ogni mattina e ogni sera, verso le nove, la famiglia si riunisce e in fila dal più giovane al più vecchio canta una canzone per ringraziare la giornata da vivere e quella appena vissuta, sempre nella selva. Non abbiamo mai detto queste cose alla stampa, non parliamo mai così apertamente: non mangiamo carne al sangue, non si deve mangiare carne al sangue di un animale, quel sangue inizierà a scorrere nelle nostre vene e ci trasformeremo in altro. Ad esempio? Una tigre. Un giorno una donna guaranì si innamorò di un guidatore di truck, un bianco, si sposarono, lui le fece assaggiare bistecca al sangue e a lei piacque, ne consumò ancora e ancora. Dopo pochi mesi si ammalò e in poco tempo morì. Non riuscirono a capire come salvarla e da dove arrivasse quel male. 

Gli indigeni non visitano mai le cascate, ci sono tribù che vivono tutta la vita a pochi chilometri dalla Gola del Diavolo, ne sentono il boato notte e giorno, ma non l’hanno mai vista. Sembra inconcepibile, ma una famiglia può essere così povera da non permettersi il biglietto di un autobus e l’ingresso al parco per tutti, perciò non si va. Allora si scende al fiume, che prima di infrangersi nelle cascate è di una tranquillità oziosa. Basta andare indietro una generazione e nelle cascate più piccole si poteva persino fare il bagno, prima del turismo di massa. Le Due Sorelle erano le preferite di Paula, la nostra guida nella selva. Si arrivava in bici e ci si portava uno spuntino da casa, panini con prosciutto e formaggio e sfoglie ripiene di dulce de leche, il thermos di acqua bollente per mescere la yerba mate, la bibita nazionale, il “tè dei gesuiti” addolcito con il miele, così si passavano le domeniche con i fratelli, nell’acqua argentea, combinazione della terra rossastra e della roccia scura di basalto. Se papà era fortunato, pescava un pacù, potente pesce d’acqua dolce del Nord dal corpo rotondo e dalla carne sapida e si era guadagnato la possibilità di un prelibato barbecue sufficiente per sfamare tutti.

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