Il volo Air Tahiti Nui da Los Angeles arrivò a Tahiti di notte e ci portammo a letto il profumo di fiori freschi di tiare, la nostra prima collana vegetale appoggiata sul comodino accanto all’iPhone, un buon odore che si addiceva ai maschi come alle femmine. Il cielo notturno tahitiano era sovraffollato di favole e creature marine. Il lungo pesce del cielo, te ikaroa o te rangi, così a volte chiamavano la Via Lattea.
Il cielo era uno specchio di un mare dalle molte isole. Sul fondale sabbioso strisciava una pastinaca, il corpo vellutato al tatto come una cappella ondulata di fungo di bosco ma enorme nelle misure, strisciava un’anguilla di fiume a zigzag tra le radici di una foresta di castagni tahitiani e finiva nella laguna, strisciava tra le mie tibie nude uno squalo lento. “Per me una cosa è fondamentale: non voglio che un mio giornalista debba scrivere di qualcosa che non gli interessi. La grande scrittura nasce da un’ossessione, non dall’obbligazione meccanica. Siamo un magazine di sorprese, non di costrizioni” rispondeva David Remnick, premio Pulitzer, direttore del New Yorker da quasi vent’anni, nell’intervista di un giornale italiano che mi ero portata in volo. Ero già in contatto con diversi scrittori esperti di Pacifico, alcuni ci erano andati proprio a vivere, e dopo pochi giorni a Tahiti sapevo che l’Oceania poteva diventare anche una mia ossessione. Isole attese, vallate, cime impennate, grotte austere, rive, grovigli distanti, fiori, orli, venti terrestri, uomini dolci, galli strambi, onde, maree puntuali, ritornelli sacri, cuori di galassia.
Una bussola stellare può dare la direzione. A Tahiti, a 17°S, le stelle sorgono e tramontano con un angolo di 17°, procedendo verso Nord. Ogni isola dei Mari del Sud ha una sua stella zenitale: ‘A’a, Sirio, la più brillante, è quella di Tahiti, per arrivarci basta seguirla. Per i polinesiani il cielo è come un atlante lucente perpetuamente dispiegato davanti ai loro occhi. Una carta stellare. Bisogna conoscere quante più stelle possibili per leggere l’oceano. E la distanza tra due isole s’inizia a contare a partire dalla notte. Come a dire: Venezia dista una notte e quasi un giorno da Patrasso. E così la dispersione delle loro isole nell’Oceano Pacifico, l’incapacità di un popolo di collocarsi in una terra più grande di un’isola, di vedersi parte di un arcipelago, una nazione, un continente, si annulla nella contemplazione di quella mappa globale, di un cielo d’isole. Non è più neanche uno sforzo d’immaginazione, è esattamente una visione.
A luglio a Tahiti la notte arriva alle 18:00 e le roulotte di Place Vaiete aprono i tavoli da picnic all’aperto, scaldano i wok e le griglie, chi comincia prima si riempie prima di clienti. Quella sera eravamo con Dimitri, giovane fotografo freelance nato a Tahiti, e aspettavamo i nostri chow mein special e Dimitri lo disse all’improvviso, con un impeto che sembrava quello di un ragazzo che deve convincere i genitori a lasciarlo partire per un viaggio matto che lo terrà lontano da casa a lungo. Con una premeditazione che capivo aveva tenuto in ostaggio la sua testa per diversi minuti, nei quali non aveva seguito il nostro discorso, ma si era concentrato sulla maniera di dire quello che stava per dire.
Sapete voi cosa avete? Che potete mettervi in macchina e semplicemente guidare, guidare, attraversare la Svizzera, poi la Germania, arrivare fino in Danimarca, cambiare maglione, gente, vedere cambiare quello che vi mettono nel piatto. Io qui per fare qualcosa di simile devo comprarmi una barca e prendere lezioni di navigazione e per molto tempo sarò nello stesso posto e mi daranno da mangiare pesce crudo al latte di cocco e spaghetti cinesi. “Quando si parte non si torna più, quando si nasce non si può più andar via. Prigione marina e mare autostrada. Del resto non è proprio il mare che rende un’isola un corpo a sé?”. Mi aveva riportato alle righe esatte del sardo Marcello Fois, che avevo sottolineato a matita. Mi aveva urlato che non avrei mai capito davvero cosa vuol dire nascere su un’isola in un mare di molte isole.
A Tahiti, il vento del Sud si chiama così perché soffia verso Sud, e quello del Nord soffia verso Nord. In Europa diciamo esattamente il contrario, cioè da dove proviene il vento, il vento del Sud viene da Sud, cosa che spiega uno dei tanti fraintendimenti e un errore madornale delle mappe dei cartografi al seguito dei primi esploratori occidentali. Più leggevo e più imparavo che il popolo polinesiano guarda dove vanno le cose, dimostra un’intenzione a prendere la possibilità di una direzione, che è un modo di vivere intero, una maniera di assecondare un movimento verso l’altro, un partire.
[1] Estratto da In Sardegna non c’è il mare di Marcello Fois. Edizioni Laterza, 2013.