Tahiti Grande e Tahiti Piccola

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Monirē (Lunedì).
Hervé sarebbe venuto a prenderci alle otto di mattina, lo aspettavamo nella hall del migliore hotel di Papeete, con quei doorman Big Jim, uomini giovani a piedi nudi e petto nudo, pronti a aprirti la porta del taxi sul loro pareo polinesiano a stampa floreale bianca e indaco. L’imbarazzo che provavo era quello di una madre per una figlia con una maglietta troppo corta in vita, una specie di rassegnazione verso la giovinezza. Allo stesso modo quella gonna maschile troppo corta mostrava tutti i muscoli delle cosce, allenate a muoversi disciplinate e forsennate al ritmo della danza locale.

Trovavo le loro coreografie elementari, ero una occidentale che aveva perso il senso del fondo primitivo dell’uomo e la spontaneità di un corpo nudo. Hervé veniva da Fatu Hiva, nelle Marchesi, l’isola più primitiva dell’arcipelago più primitivo della Polinesia francese. Era cresciuto nella nudità, solo una volta a Tahiti si era adeguato a quell’abitudine “d’importazione” di nascondere il corpo con abiti di foggia occidentale, mentre nel Pacifico era più una questione di vestirlo, ornarlo, disegnarlo. Gonne in fibre vegetali, pettorali in piume, denti di squalo, zanne ricurve di cinghiale, stuoie tessute con pandano e ibisco, conchiglie, semi, tatuaggi, foglie e fiori. 

Quella mattina era il nostro ultimo giorno a Tahiti, un lunedì, e non eravamo ancora riusciti a penetrare la valle di Papeeno. A Tahiti Nui, se non decidevi di darci un taglio, finivi per girare attorno all’isola, in tondo, come in una pista di atletica leggera: finivi per odiare l’isola. La strada era una sola e correva tra il lato mare e il lato montagna, “côté mer” e “côté montaigne”. E noi ormai volevamo solo entrare nella montagna. Hervé sembrava essere l’uomo giusto. Aveva una piccola compagnia di escursioni, fondamentalmente un pick-up bianco coperto, e un numero di telefono e se non rispondeva voleva dire che era nella montagna. Tutti comprendiamo una geografia assoluta, che è quella che si aggrappa alle cose naturali che vediamo attorno a noi. Il sole che sorge o cala, semplicemente. Ecco, il sistema linguistico tahitiano dei villaggi sembrava ancora fondarsi su un’opposizione fondamentale: terra/mare. Che poi non era mai un’opposizione. Entravamo nel cratere del vulcano spento e avevamo bisogno di parlare del mare. Hervé ci tenne a dire subito che era un navigatore, un uomo di mare, la sua T-shirt aveva stampata l’Hokule’a, la canoa tradizionale della Polynesian Voyaging Society dove era spesso imbarcato, quella piroga a doppio scafo hawaiana che per tre anni ha girato il mondo usando le stelle, gli uccelli, le onde e portando il messaggio malama honua, abbi cura della Terra. Il secondo comandamento di Hervé era: onora gli antenati. Mettersi per mare e coprire ogni distanza come avevano dimostrato di saper fare loro era uno dei modi per onorarli. 

Ogni estate Hervé portava un gruppetto di bambini di città a vivere senza genitori al villaggio di Fare Hape, nel centro di Tahiti Nui, un summer camp sui generis. Si dormiva divisi in una manciata di fare, le case tradizionali vegetali, per una settimana, il tempo minimo per inviare un messaggio: si può vivere ancora della natura. Il villaggio si sarebbe reso autosufficiente per l’estate a venire, aveva un giardino botanico ordinato e completo, un marae, una vasca di acqua di sorgente tra le rocce, una cucina attrezzata. E aveva i pompelmi dalla polpa rosa, le fette grandi come fette di anguria, che Hervé e il fratello portavano lassù ancora sottobanco dalle Marchesi, come a dire da un Eden dove la frutta ha un altro sapore.

Ogni bambino piantava un albero prima di lasciare Fare Hape. Ogni madre a Tahiti pianta ancora un albero quando nasce il suo bambino, lo pianta nel punto dove interra la sua placenta, il bambino e l’albero cresceranno insieme, si vedranno farsi grandi, l’albero darà frutti da mangiare, foglie per fare un tetto e legna per costruire una canoa, crescere in due è più facile. Il cordone ombelicale andrà in una canna di bambù o in una conchiglia e il padre lo depositerà sul fondo dell’Oceano perché protegga il nuovo nato. 

Hervé sembrava sapere che aveva la responsabilità di quell’ultimo nostro giorno a Tahiti e stava instillando nelle nostre teste una pletora di rituali della vita e di storie di come avevano avuto origine le cose. Principesse testarde che partorivano anguille, cieli-oceani d’acqua attraversati da squali e da grandi canoe che trasportavano le anime. Ogni cosa aveva un significato in lingua ‘reo ma’ohi, cioè conservava nella parola gli indizi per comprendere il mondo, come a dire che quando fosse mancato chi te lo poteva raccontare, la sua esperienza l’avresti trovata nel nome delle cose, di quel iore rosso come una fiamma che sbocciava annunciando che era tempo di ritornare a pescare in acque pescose. 

Matari’i i ni’a: a novembre le Pleiadi si alzeranno di nuovo in cielo e sotto questa costellazione tornerà il periodo di abbondanza, torneranno le piogge, la natura si mostrerà opulenta, le donne e le acque della laguna e della barriera fertili. Saranno mesi di esultanza. Invece noi eravamo in pieno inverno, nel momento della siccità, della penuria e l’equilibrio fragile della natura andava protetto. Se non fosse stato per la nostra visita al marae, non avremmo strappato quelle felci fresche per farne seduta stante una corona umida di bosco.

Ogni visita al marae porta e conserva un dono per il divino, un segno del passaggio e del ringraziamento di un ospite terreno alla natura e quindi agli dei: una foglia di banano posata sulla pietra, una collana di conchiglie, una corona di foglie fresche, l’acqua salata di mare conservata in una canna cava di bambù. 

Eravamo partiti da Papeete nella luce del sole del mattino, ma dopo il villaggio di Papeeno, dopo aver svoltato dove il fiume svolta e risale a monte, su quel pick-up dovemmo stringerci una coperta di lana attorno alle spalle. Non saremmo saliti oltre i 400 metri, e allora cos’era quel freddo, quell’aria di montagna alta. È inverno, ci ricordò Hervé. 

Io credo che quell’aria pungente fosse un incantesimo, un modo per zittirmi e dirigere la mente lucida a un pensiero raccolto. Hervé mi diede la corona e mi disse di posarla dirigendo una preghiera. Pregai per mio nonno, che era mancato da trent’anni esatti. Raramente avevo risvegliato il ricordo di lui, ma nel marae il mondo dei viventi si connette al mondo degli antenati e quel mio antenato, che avevo conosciuto e che per alcuni anni della mia vita era stata la cosa più cara che avevo, sembrava presente. Hervé era come un eroe prestigiatore e conosceva l’allineamento di quel marae con il sole, che sarebbe sorto da dietro la montagna a scaldarmi, nell’istante in cui io mandavo il mio messaggio su per le pareti della montagna. In un istante avevo dimenticato la mia vita terrena e il posto che occupavo. 

Uscimmo dalla valle prima che facesse sera e ci fermammo sul ciglio della strada di Papeeno da una giovane ambulante a comprare per centocinquanta franchi del Pacifico, un euro circa, delle grosse ciambelle tonde ripiene di cocco grattugiato. Il succo del latte di cocco era come una bagna fresca e zuccherina per quel pan brioche, l’interno ne era zuppo. Hervé ci stava riportando in hotel, guidava forte verso Papeete, e noi avevamo da fare con quel panino dolce, grande da impugnarlo con due mani, e con la soddisfazione adulta di essersi riconosciuti simili, noi e Hervé. Avevamo avvicinato intimamente un uomo e la sua valle, finalmente avevamo trovato Tahiti Nui.

Tāpati (Domenica).
Quel giorno avremmo incontrato Vaiana. Dopo la messa delle dieci della domenica mattina al tempio, ci mettemmo in macchina per raggiungere Teahupoo. L’istmo di Taravao era come un collo di bottiglia stretto per passare da Tahiti Nui, letteralmente “Tahiti Grande”, a Tahiti Iti, letteralmente “Tahiti Piccola”, e chi non l’aveva passato, chi non era sboccato di là, per noi non aveva visto niente. Prima dell’istmo c’era Vaiana e dopo c’era Tahiti Iti.

Lui, Vaiana, lavorava come cameriera nella Baie de Phaëton, una baia bizzarra, un porto con acque azzurre serafiche, velieri piccoli e alberi europei o nordamericani, una baia quasi alpina, che si addice più a ricordi d’Alaska che dei Mari del Sud. Dalla baia si potevano prendere due direzioni, la strada settentrionale correva asfaltata fino al villaggio abitato di Tautira, quella meridionale correva asfaltata fino alla spiaggia dei taxi boat e dei surfisti di Teahupoo. Ambedue erano la nostra idea di Tahiti e capimmo qui perché molti degli abitanti della penisola, la Presqu’île, non andassero a Papeete da anni e solo per sbrigare faccende burocratiche. Settanta chilometri dalla capitale, un’ora e trenta d’auto ovunque foste diretti, eppure non poteva esistere posto con un carattere più diverso da Tahiti Nui. 

Fermammo la macchina sul ciglio di una strada di campagna e uscimmo a camminare, ognuno per conto suo, passammo un tempo silenzioso e indefinito lungo una foresta di mape, i grandi castagni tahitiani, con le loro radici grandi e piatte come remi, fiancheggiammo una grande palude di ninfee e di palme e banani, al di là i terreni irrigati e le piantagioni di taro con le loro foglie a misura d’uomo, i campi con le piante più pregiate, gli ignami, le patate dolci. A volte trovavamo un’altra casa con un cane, un gallo, una canoa, un pick-up, un pinnacolo di fumo: l’unità familiare di queste terre oceaniche. Alcuni dicevano che la foschia del fumo che saliva dalle sterpaglie bruciate teneva lontane le zanzare, altri che quei bracieri domestici erano il modo più facile e vecchio di tenere ordinati i giardini, tutti dicevano che il fuoco era un segno di vita, di casa abitata dagli uomini.

“Pianta la mia testa e da essa crescerà un albero i cui frutti ti ricorderanno di me”. Noi ci ricorderemo per sempre di Vaiana, la cameriera dolce che vive a Tahiti Iti. In numerose isole del Pacifico, esistono delle persone, né uomini, né donne, metà uomo e metà donna. I mahu della Polinesia Francese sono femmine che abitano corpi di maschio. Figure comuni, niente di meno esotico e anormale: tutti hanno un mahu in famiglia. Si prendono cura dei bambini della famiglia, confezionano gli abiti e gli ornamenti migliori delle cerimonie, si dedicano al canto, sono spesso impiegati nell’ospitalità e nell’accoglienza. Esiste un “terzo sesso”, che rompe la certezza di un pensiero binario che divide il mondo in due generi, maschile e femminile. Accanto all’immaginario-fantasma di femminilità assegnato alla donna polinesiana, la vahine “classica”, e all’ideale palpabile di potenza muscolare del maschio, esiste la figura del mahu, una singolarità culturale che fonda la sua esistenza moderna su radici storiche e sociali antichissime. Che ha un ruolo sociale importante e riconosciuto sia nell’organizzazione famigliare che nella divisione delle responsabilità comunitarie. A Tahiti nulla strideva in quegli “uomini-dolcezza”, che vivevano circondati di estremo amore e rispetto.

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