Periferia Paradisiaca

Testo di Valentina Pigmei

“Se ci si potessimo sollevare, come un albatro ad altezze impossibili, dal centro del Pacifico, la terra apparirebbe quasi interamente blu”. 
Philip Hoare 

Per noi occidentali di terraferma l’Oceano Pacifico non è altro che una massa d’acqua sul retro del mappamondo costellata di isole remote. “Isole di cenere e di corallo”, le aveva chiamate il viaggiatore francese Aubert de La Rue. 

Proprio così: solo un susseguirsi di isole vulcaniche o coralline: è questo da un punto di vista geologico il “continente Pacifico”. La periferia della Terra. Una “periferia” che noi ci immaginiamo sempre paradisiaca: nel nostro immaginario europeo quella miriade di isole, isolotti, atolli che si estende dal Tropico del Cancro (Hawaii) fino quasi al polo australe (Nuova Zelanda) non è altro che una ininterrotta laguna blu dove la gente indossa gonnellini di paglia e collane di fiori. 

Naturalmente il Pacifico – una superficie di 165 milioni di chilometri quadrati ovvero due terzi del pianeta e venticinquemila isole – è una realtà ben diversa, con un’infinita varietà di stati, migliaia di lingue diverse, una storia complessa e sanguinosa fatta di scoperte – quasi sempre tardive e casuali – invasioni, colonizzazioni e rivoluzioni. 

Oggi il Pacifico “è un’assenza”, come ha scritto il premio Nobel Le Clézio in un libro essenziale per capire questi luoghi, Il continente invisibile (Instar libri, 2009). “L’Oceania è il continente invisibile. Invisibile, perché i primi viaggiatori che vi si sono avventurati non ne hanno colto la natura, e perché rimane ancora oggi un luogo senza riconoscimento internazionale, un passaggio”. 

Secondo Le Clézio il grande equivoco è dato dall’essere stata considerata la terra degli ultimi avventurieri, mentre in realtà non fu altro che il “campo di battaglia più esteso della storia”. Qui si sono affrontati tutti: francesi e inglesi nel Pacifico orientale; australiani a sud, Nuova Zelanda e Tasmania, americani a nord, olandesi e tedeschi nelle isole della Sonda e giapponesi in tutto il resto. 

Tutto questo conquistare e piantar bandiere ha reso il continente diviso frammentato e dunque “invisibile”. Le isole del sud sono state depredate, i boschi di sandalo rasi al suolo, le balene pescate senza ritegno, le tartarughe marine sterminate e degli uomini è stato fatto un serbatoio di schiavi – con la scusa dei blackbirders, una sorta di schiavitù volontaria. Così le isole del paradiso divennero presto un inferno di galeotti e prostitute. E, in tempi più recenti, un luogo ideale per test nucleari a cielo aperto, come quello tristemente  noto di Mururoa. Esiste oggi una coscienza pacifica, si chiede Le Clézio? 

La comune lotta contro le potenze coloniali sembra aver creato legami fra i popoli, di natura economica in primis ma anche a livello di memoria, di tradizioni antiche: la musica, le danze, le maschere, i tatuaggi, i miti che raccontano di lunghi viaggi attraverso l’oceano sconfinato. 

Perché l’unicità dell’Oceania è proprio questa, l’essere stata popolata da uomini che hanno affrontato incredibili odissee marittime, lunghe migrazioni via mare. E lo hanno fatto grazie a semplici imbarcazioni molto resistenti e in uso ancora oggi (dopo 10.000 anni!): le mitiche piroghe a bilanciere. 

Un’invasione relativamente “giovane”, basti pensare che l’arrivo sulle Isole Salomone da parte delle popolazioni indigene (austronesiane) avvenne solo nel 1200 dopo Cristo: prima di allora nessun essere umano aveva mai messo piede in queste isole. E l’occupazione delle Chatham è del Quattrocento, un secolo prima dell’arrivo degli europei. Alcune zone del Pacifico rimangono tra le meno esplorate del pianeta, alcuni abissi oceanici, scrive Philip Hoare nel suo magnifico The Sea Inside (Melville House), “sono meno mappate della luna”. E tre quarti delle specie animali devono ancora essere studiate e catalogate. 

Nonostante questo, racconta Hoare, l’Oceano Pacifico contiene le acque più antiche del mondo, perché le correnti sottomarine sono così lente che l’ossigeno è lì fermo nello strato intermedio da migliaia di anni. 

Molti studiosi, per la stragrande maggioranza francesi o australiani, hanno scritto del Pacifico: antropologi, geografi, storici, vulcanologi, viaggiatori. Si va da O.H.K. Spate, autore della monumentale Storia del Pacifico (Einaudi), alla più recente Storia dell’Oceania. L’ultimo continente di Giusti-Sommella-Cigliano (Donzelli), dal mitico viaggiatore Robert James Fletcher, che scrisse il suo Isles of Illusion nel 1923 (mai tradotto in italiano) a Jean Guiart, etnologo e oceanografo, che si occupò quasi solo di Oceania. 

C’è naturalmente Paul Gauguin che fece di Tahiti, e poi delle Isole Marchesi, il suo atelier. Noa Noa: profumo (Mattioli 1885, 2008) è il diario del pittore – scritto con l’aiuto dell’amico poeta Charles Morice – un libro insospettabilmente delicato in cui Gauguin scrive di miti, favole, profumi e grazia degli indigeni.

Gauguin racconta l’“indole generosa e ospitale dell’anima oceanica” e sottolinea l’“assidua” e “vivificante” “frequentazione della morte” di queste popolazioni. Gauguin, accusato forse a ragione di pedofilia per aver amato una polinesiana di 13 anni, svela che la prostituzione a Tahiti era però un “sacro dovere”.

Dopo l’arrivo degli europei “civilizzatori”, continua il pittore, la prostituzione non sarà più “obbligatoria”, ma ad ogni modo florida. Tanto deluso dai cambiamenti “benefici” portati dagli europei, il grande artista si trasferisce alle isole Marchesi, combattendo a fianco degli indigeni contro le usurpazioni delle autorità francesi. Gauguin è sepolto a Hiva Oa, vicino alla tomba di Jacques Brel. “Le isole remote, soprattutto quelle del Pacifico, sono per natura prigioni”, ha detto Judith Schalansky autrice de L’atlante delle isole remote (Bompiani), “circondate dalle mura di un mare ostinatamente presente; lontane dalle rotte commerciali, sono luoghi adatti per raccogliervi tutto ciò che è indesiderato, anomalo.

E in quei piccoli continenti, lontano dagli occhi del mondo, è facile violare i diritti internazionali. Pensiamo alle misteriose morti infantili a St. Kilda, o alla prassi dell’uccisione dei bambini a Tikopia”. 

Realtà e finzione sembrano molto ben intrecciate quando si parla di Oceano Pacifico: dai film catastrofisti come Pacific Rim (2006) al leggendario Bounty con tre diverse versioni. Forse è il senso dell’inatteso, della segretezza e inaccessibilità di certi luoghi. 

Ma il Pacifico è un luogo letterario per eccellenza grazie soprattutto all’ambivalenza morale che connotato questi scenari così estremi, quasi sempre “al limite”. 

In Pioggia di Somerset Maugham – il racconto che forse meglio di ogni altro condensa il fascino morboso dei Mari del Sud – si fronteggiano due personaggi memorabili: un missionario arrivato nelle isole per “inculcare negli indigeni il senso del peccato” e una prostituta che fugge dal suo passato e che il reverendo cercherà invano di convertire. Maugham è un geniale osservatore dell’alterità esotica di questi luoghi e di quella esistenziale e morale dei personaggi.

Come in tutte le storie “oceaniche” di Maugham – i suoi primi racconti Honolulu (1932), l’indimenticabile romanzo Acque morte (1932) il celebre La luna e i sei soldi, che racconta proprio la storia romanzata di Gaugin a Tahiti, e naturalmente I racconti dei mari del sud (in cui è contenuto Pioggia) – c’è sempre una sinistra consonanza tra la malvagità dei personaggi e la natura tempestosa e selvaggia delle isole. Perché se il paradiso è un’isola, lo è anche l’inferno.

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