Il pesce che cammina

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Questa è la vera giungla amazzonica, dove i delfini rosa d’acqua dolce portano gravidanze inattese, la notte è punteggiata dagli occhi rossi dei caimani, i riberenõs ti guardano passare oltre i loro villaggi, che hanno chiamato Buenos Aires, San Francisco e Bretagna, “icaro” è il nome che si dà alla canzone cantata o fischiata dai guaritori durante le cerimonie, è il suono al quale aggrapparsi per non cadere nel vuoto. Questa è la selva peruviana, dove ufficialmente ha inizio il Rio delle Amazzoni, dove tutto dipende dal grande fiume.

Correva giù dagli altipiani peruviani, per mille miglia, circa milleseicento chilometri, no alle pianure dell’Amazzonia. All’altezza di Nauta City, era il punto dove s’iniziava a dargli il nome di Rio delle Amazzoni. Lì incontrava il Rio Marañon, anch’esso fiume di montagne e ghiacci, e insieme, sotto il nome essenziale di Amazon River, continuavano a scorrere per altri quattromila chilometri, al ritmo di duecentomila metri cubi di acqua fresca svuotata nell’Atlantico al secondo. Il Rio Ucayali era un fiume naturale, senza barriere, condotti, dighe, artifizi, senza impatto dell’uomo. Un fluido di buona sorte, mi veniva da dire, da quando m’interessavo di curanderos e medicina. 

Una settimana prima il mio volo low cost mi aveva lasciato all’alba a Iquitos, tre ore scar- se da Lima. Non avevo visto nulla di Iquitos, non il mercato di Belen, che voleva farmi credere fosse un luogo di marciume e fetore, una carrozzeria dismessa di pesci e tronchi guasti, di baracche avariate, ora che la città era in secca. Voleva convincermi che, una volta nella riserva, Iquitos non mi sarebbe mancata, come non manca il caos di Roma sui pascoli gialli di Campo Imperatore. Eppure ero sicuro che a Belen avrei trovato tutte le piante inebrianti, tutta la ora dell’Alta Amazzonia che mi serviva per la mia ricerca. E la sera in città avrei bevuto una birra fresca in qualche veranda turistica sul fiume con qualche per- sona del posto abituata a fare domande a un forestiero e a proporgli di andare a pregare uno sciamano di prepararci dell’Ayahuasca l’indomani mattina.

Invece aveva guidato su strada per cento chilometri, diretti a Nauta, senza ancora farmi vedere il fiume. A Nauta, per mettere a tacere del tutto le mie domande su Belen, mi aveva preso per mano e mi aveva chiesto di seguirlo nel mercato mattutino. Sgattaiolavamo tra la folla calma in la indiana, come bambini nei lari alti di granoturco in agosto. Con un pugno di dollari la gente del fiume consumava la migliore colazione amazzonica prima della scuola o del lavoro, una patarashca cotta a carbone vivo e un drink fermentato di manioca della giungla. 

L’aria profumava di coriandolo selvatico, cipolla, limone peruviano e ají charapita. Non c’era nulla di pericoloso in quel posto, se non quel profumo afrodisiaco di erbe fresche. Un regalo degli spiriti delle piante. Mi sembrava che tutte le giovani donne locali stessero provando a sedurmi. Sentivo picchiare nelle tempie il ritmo delle lame di coltelli troppo grandi incidere precisamente la pelle dei pesci d’acqua dolce, spezzarne le piccole ossa. Le donne rispondevano al saluto e alle lusinghe della mia guida, in quello spagnolo che levigava la loro bellezza ruvida. Non alzavano gli occhi svogliati dal banco. Sapevano essere pruriginose, avrei voluto che mi guardassero. La musica paesana era un carillon esotico per i miei orecchi, i panettoni italiani con il nome di santi sconosciuti erano impilati nelle gran- di drogherie fuori stagione, all’imbarcadero i rimorchi scaricavano in fretta pesanti reti di patate andine e cereali, prima di immergersi di nuovo nella corrente. Fu allora che mi accorsi del fiume color Cola, grandioso, svelto, lustro, pacifico. Erano le undici di mattina nel nord-ovest del Perù e iniziava a fare davvero caldo.

Ero rimasto solo nella grande maloca di paglia del villaggio, svuotato anche dei bambini – dov’erano tutti? –, quando una brezza soave che non poteva essere dell’Amazzonia mi svegliò e capii che avevo dormito. Quel libro mi stava rubando i sogni. Avevamo ripreso la nostra navigazione lenta, controcorrente, seguendo il bordo di una riva alta e friabile come una Sachertorte pallida. Marañon e Ucayali non potevano essere più differenti, come lo sono troppo spesso i fratelli. Mi spiegarono che l’Ucayali tecnicamente era il Rio delle Amazzoni, per densità, temperatura, modo di fluire delle sue acque. Io lo amai dal principio, aveva una dolcezza e un carattere sovrano, mentre il Marañon sembrava piuttosto un’anima stagnante, con un eccesso di mistero, adatto a esseri più foschi. 

La maggior parte dei miei lettori continuava a credere che fossi in Brasile o al limite in Colombia. Gli amici mi scrivevano su WhatsApp – “Quando torni dal Brasile?” oppure “Sei tornato dal Brasile?” –, s’interessavano a me – “Ho scritto a Miltos e sono felici di ospitarti nella loro bella casa di Bogotà. Potrebbe scrivere qualcosa per il tuo magazine, se non ti fermi, passa almeno a trovarlo, da cosa nasce cosa”. Avevo trovato il mio nascondiglio in un’immagine del satellite che mostrava una macchia benedettamente verde, che sembrava ancora un bosco. Quel tredici percento di Amazzonia che appartiene al Perù e che è un’antica foresta inondata, con laghi, lagune, torrenti, acque a specchio, barche collettive, accampamenti provvisori di pescatori, villaggi di nativi, delfini rosa di fiume maledetti, pesci neri che camminano.

Pagammo la nostra amicizia con una Coca Cola in bottiglietta, fresca di refrigeratore. Lui si sporse dalla sua canoa affilata, l’afferrò con la mano buona, l’altra aveva un grosso taglio al pollice appena rimarginato, un morso di piranha. Lo incontrammo nel punto in cui l’acqua si poteva chiamare davvero nera, nel profondo della Riserva naturale Pacaya Sami- ria. È il nonno di Alex, mi disse la mia guida, non tanto perché volesse che lo sapessi, semplicemente per istinto, come quando si riconosce da lontano un amico. Alex l’avevamo lasciato stamattina alla scuola del villaggio, all’ora della ricreazione, faceva il capo la del suo gruzzolo di amici, avranno avuto otto anni, in qualche modo Alex ci aveva fatto capire che per chiedere una foto a uno degli altri bisognava avere il suo benestare. Alex è un nome proprio che si usa da secoli, significa “difensore dei propri uomini”.

Alla fine quello che voleva era posare per noi anche lui, sulla balconata di legno della scuola. Lasciammo il nonno di Alex là, calmo con la sua lancia di legno, di ritorno dalla pesca, come doveva aver fatto ogni giorno della sua vita negli ultimi ottant’anni, lo lasciammo in compagnia di piccole ninfee di fiume verde giada, di guizzi sonori di pesci a lo d’acqua e del riflesso perfetto di un anziano in quella giungla di specchi. 

Passammo otto giorni e otto notti sul fiume. Se fossimo restati un paio d’anni, avremmo visto Alex crescere, il nonno gli avrebbe fatto provare la sua prima ayahuasca appena compiuti i dieci anni e lì lo sciamano del villaggio avrebbe capito che il ragazzo aveva una tempra forte, capace di amministrare i sogni della medicina. Poi Alex avrebbe visitato la città, lasciato presto il villaggio, rinunciato alla sua occasione di diventare il prossimo sciamano.

Trascorsi la mattina nel mio caffè abituale in Miraflores, aspettando il momento di ripartire con il mio volo Lima-Milano. Ordinai una fetta di torta alle castagne, cioccolato e aguaymanto e un succo gelido di carambola con la sua stella galleggiante. Sapeva vagamente di quella colonia aromatizzata all’arancio, usata dai guaritori in tutto il Perù a mo’ di acqua santa e dalla mia prozia materna nubile per rinfrescare la grande camera matrimoniale, dal giorno in cui nacqui e molto prima.
“Credimi, il nostro mondo è molto meno doloroso del mondo reale”. Avevo visto Nocturnal Animals poco prima di arrivare in Perù e la conversazione tagliente tra la triste Susan e l’amico Carlos mi rimbombava nella testa da quella sera, cercando un posto dove realizzarsi. La mia vita attuale si svolgeva in un mondo decisamente meno doloroso della vita reale di molte persone. Viaggiavo, scrivevo e leggevo di ciò che mi piaceva, non avevo gli né piccoli né grandi, abitavo una casa in pieno centro con un affitto stracciato, sapevo amare. Eppure non mi convinceva che bastasse questa verità così banale a liquidare l’analisi di Carlos. 

Una coltivazione di banani, un orto, un pollo libero, una canoa, un uomo fermo sull’alta scarpata del fiume, un motore peki-peki che prosegue nella riserva, una sola zanzariera che veglia sopra a un’unica grande famiglia, sesso incluso, un falco, pesci della circonferenza di tronchi, frutti della selva, piccoli stormi di uccelli piumati neon, donne acerbe. Temevo che arrivasse in fretta il giorno in cui avremmo avuto bisogno di un altro mondo, perché questo se n’era andato, la foresta, gli animali, il suono della sera, l’isolamento felice, una comunità piccola, le ore lente, gli spiriti buoni, gli spiriti cattivi. Pregai quel ragazzo della giungla che mi faceva da guida di restare dov’era, di dimenticarsi delle coppie ricche che incontrava su quella nave da crociera, di non desiderare le loro vite dolorose.

Mi ricordai che un uomo seminudo, con una maschera da pesce, intento in una danza frenetica, mi aveva accolto prima di salire sulla nave. Il pesce è una figura ricorrente nella mitologia classica. Sopra tutti lo è il delfino, venerato dalle rive del Mediterraneo e del Mar Nero fino in capo al mondo. Un giorno persino Apollo s’incarnò in un delfino e quello divenne il suo animale sacro. Una metamorfosi divina o umana riempie il folklore dei popoli. Siamo fermi all’imbrunire all’origine del Rio delle Amazzoni, stretti nell’impugnatura salda e possente di una onda che ha per rami i fiumi Ucayali e Marañon. I delfini rosa chewingum di fiume nuotano attorno a noi in piccoli branchi, giocano nella corrente, qui più che altrove. Nella foresta pluviale del bacino amazzonico, i nativi possiedono migliaia di leggende su questo misterioso mammifero. 

La notte, delfini di fiume prendono forma umana e corteggiano le ragazze, le seguono nella selva e le seducono. L’immaginazione corre al servizio della realtà, così la leggenda servì a coprire le nascite inattese, prima delle incursioni dei missionari in luoghi e letti sbagliati, poi dei rapporti incestuosi in villaggi troppo piccoli. A ogni modo qui nessuna donna si trattiene troppo a lungo sulla riva del fiume a lavare i suoi panni e nessun uomo osa uccidere un delfino o guardarlo negli occhi. Il grande fiume culla la mia testa, affollata di bestiari fantastici.

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