La cosa che colpì di più il mondo, nella distruzione dei Buddha di Bamyan a opera dei Talebani nel 2001, non fu probabilmente la semplice perdita delle due statue colossali – in moltissimi si accorsero della loro esistenza soltanto all’inizio dei bombardamenti – ma, piuttosto, lo sgomento per la velocità con cui, nel giro di pochi giorni, fu possibile cancellare l’esistenza di monumenti che avevano resistito per 1800 anni.
Qualcosa di simile accadde quando l’Isis, nel 2013, distrusse il tempio di Baalshamin a Palmira, in Siria, che resisteva da, più o meno, gli stessi anni dei Buddha di Bamyan in Afghanistan. I fanatici dello Stato islamico lo fecero detonare dopo averlo riempito di cariche esplosive, documentando accuratamente ogni passaggio della demolizione, e la successiva, e definitiva, scomparsa della struttura. L’Unesco definì l’azione un “crimine di guerra”, paragonabile non nella portata, ma nel principio, ai più famosi eccidi del Novecento. Quello che era stato cancellato, però, non erano le vite di migliaia o milioni di persone: era piuttosto un simbolo, che in quanto tale conteneva, e rappresentava, un’insostituibile scorta di memoria. L’Isis e i Talebani sapevano bene che l’abbattimento di un monumento storico avrebbe scosso l’Occidente più di centinaia di stragi. Avevano ragione.
Questo dice qualcosa su molte cose, ma soprattutto sull’importanza, per l’uomo, della memoria conservata nell’architettura. L’atto supremo per annichilire un nemico non è soltanto lo sterminio, ma la cancellazione definitiva di ogni sua traccia monumentale. Anche in Germania durante la Seconda guerra mondiale venne fatto lo stesso (stiamo qui mischiando, grossolanamente, i buoni con i cattivi): non una singola architettura progettata da Albert Speer, braccio destro di Hitler e “architetto del Reich”, venne risparmiata dalla distruzione. I bombardamenti a tappeto degli Alleati devastarono intere città, cancellando senza pietà, e per sempre, ogni traccia degli antichi volti di Berlino, Amburgo, Dresda, Lipsia. Proprio Speer, tra l’altro, elaborò la Theorie vom Ruinenwert (Teoria del valore delle rovine), per cui gli edifici che avrebbero caratterizzato il Terzo Reich sarebbero dovuti essere pensati anche per la loro esistenza futura di rovine: una memoria di grandezza che, nella distruzione, non si sarebbe quindi perduta, ma anzi accentuata. Il modello di Speer, che trovò Hitler entusiasta, erano naturalmente gli edifici degli antichi greci, egizi e romani. Non avevano calcolato, in questo esercizio, la portata sterminatrice della furia anglo-americana.
La distruzione di monumenti, siti archeologici, architetture storiche, ma anche di intere città continua anche oggi, giorno per giorno, con attenzione. I principali teatri di questi annientamenti costanti, quando non sistematici, da diversi anni a questa parte, sono la Siria e l’Iraq. Alcuni anni dopo l’inizio della guerra dei ribelli contro il regime di Bashar al-Assad, dopo che le violenze avevano gravemente danneggiato, forse in modo irreparabile, la Grande Moschea di Aleppo (Moschea degli Omayyadi), percepii un’angoscia di tipo nuovo: la Siria, dopotutto, era stata una meta turistica frequentata in modo abbondante dal turismo europeo negli ultimi anni, arricchendo proprio, in modo colpevolmente inconsapevole, il regime assadiano. Eppure, le vie che avevo visto con i miei occhi, nelle fotografie di amiche e di amici, stavano scomparendo, insieme alle vite di chi le abitava e le frequentava. Per curiosità, andai a cercare i più importanti monumenti delle principali città siriane su Tripadvisor, il contenitore più “popolare” di recensioni turistiche al mondo, la cartina tornasole del volto più commerciale della globalizzazione. Notai un fatto curioso: era il 2015, e molte recensioni entusiastiche, che valutavano il sito quasi sempre con un voto di “cinque stelline” su cinque, erano state scritte soltanto dopo l’inizio della guerra. Era impossibile che quegli utenti fossero davvero stati in quei luoghi dopo il 2012: infatti, erano accorsi a scrivere recensioni entusiastiche, sull’onda dell’emotività, soltanto per lasciare una testimonianza scritta di un vecchio ricordo. Tutti i siti in pericolo, oppure già danneggiati e distrutti, erano caratterizzati dallo stesso fenomeno: ricoperti, virtualmente, di ricordi di viaggio, preoccupazioni per il conflitto in corso, o rammarico per la già avvenuta distruzione. Erano piccole memorie kitsch di un tempo scomparso, ma anche, talvolta, miniere di aneddoti, in cui compaiono personaggi, baristi o ristoratori di cui, oggi, è impossibile conoscere il destino: che fine avrà fatto Eyad Ebrahim, proprietario del ristorante “Warm Apple Pie”, nei dintorni di Palmira, distrutto dall’Isis nell’agosto 2015? Tripadvisor, in una surreale inversione dei ruoli, è diventato un libro dei ricordi del turismo occidentale. Un libro kitsch, certamente, ma contenente l’eco, angosciante, di destini spazzati via dalla storia.
C’è, tuttavia, chi combatte contro questa dispersione della memoria, cercando disperatamente, e ordinatamente, di tenere uniti i pezzi di ricordi per far sì, quanto più possibile, che niente venga disperso. Quella di Forensic Architecture (FA) non è un’attività dettata dalla semplice attività di ricordare, ma dall’obiettivo della giustizia, o della verità – che non sempre si realizzano equamente. Forensic Architecture è un’agenzia di ricerca, nata in seno alla Goldsmiths University of London, che investiga violazioni di diritti umani commessi da corporation, terroristi, Stati o forze di polizia, utilizzando, come strumento, l’architettura: tecniche di analisi spaziale, modelli digitali, ricostruzioni in tre dimensioni, ma anche ricordi, testimonianze umane. FA opera in tutto il mondo, ma più spesso in teatri bellici come, appunto, la Siria, in cui non è possibile condurre ricerche di persona. Per questo gran parte delle prove che utilizza per le sue indagini vengono dall’infinito, e inestimabile, archivio digitale a disposizione dell’umanità oggi: immagini satellitari, internet, fotografie o video amatoriali, archivi storici. “Quando qualcosa viene distrutto, o viene costruito, o quando una battaglia ha luogo in una precisa area, tutte queste cose lasciano tracce”, mi dice il ricercatore di Forensic Architecture, l’israeliano Ariel Caine.
L’agenzia ha, recentemente, lavorato a uno dei più atroci stermini dell’epoca moderna, quello perpetrato dallo Stato islamico contro la comunità yazida del Sinjar, nell’Iraq settentrionale, al confine con la Siria. Qui, nel giro di pochi giorni, le milizie di Daesh assassinarono oltre 5mila persone, costrinsero altre decine di migliaia alla fuga, e presero come schiave migliaia di donne. I templi yazidi, sulla catena montuosa del Jebel Sinjar, vennero sistematicamente fatti saltare in aria. Forensic Architecture, utilizzando immagini scattate da droni, satelliti amatoriali costruiti con aquiloni, e fotografie tradizionali, hanno creato un dettagliato archivio delle violenze e distruzioni di Daesh – fosse comuni comprese – salvate dall’oblio, e che potranno essere usate nelle richieste di supporto e nei processi contro i membri del gruppo. “È stata una decisione precisa quella di distruggere i templi in cima alle montagne”, racconta Caine, “anche perché erano sulle cime delle alture: erano presenti anche visivamente, si vedevano dalle zone circostanti. Farli detonare fu come una decapitazione. La decapitazione dei templi dalla cima della montagna. Hanno cancellato la presenza degli yazidi anche dal panorama”.
Il processo del ricordo è fondamentale, nell’attività di Forensic Architecture. Spiega ancora Caine: “La storia degli yazidi è stata poco raccontata dalle organizzazioni ufficiali. Ma la distruzione dei templi, e lo sterminio di tutte queste persone, in una cultura che è basata fondamentalmente sull’oralità, significa eliminare completamente la memoria della vita com’era”. La memoria, dalle recensioni di archeologie distrutte alle investigazioni più complesse, non si rivolge mai, soltanto, alla salvaguardia del passato, ma contiene sempre il germoglio del futuro. “La memoria degli eventi è nelle rovine”, mi ha detto Ariel Caine, “e noi siamo delle specie di anatomopatologi degli edifici”.