Tre anni sui confini tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano

Pensieri di regia di Gianfranco Rosi

PIÙ TEMPO PASSAVO IN QUELLE TERRE E MENO CAPIVO

Annullare la geografia era quasi un’esigenza. Queste storie si svolgono su distanze immense, non c’è una zona precisa. Si va dalla Siria all’Iraq, dal Kurdistan al Libano. Unire in una narrazione questi spazi enormi, con radici anche diverse, era un’impresa impossibile. L’idea di annullare la geografia dei luoghi era un’idea iniziale, poi, chiaramente, quando abbiamo fatto il montaggio e quando il film ha avuto la distribuzione nelle sale, mi è stato chiesto, con grande rispetto devo dire, se forse il pubblico dovesse essere aiutato con dei riferimenti. Io credo che non cambi molto, anzi forse un po’ confonde, ma forse, istintivamente, ognuno di noi si sente un po’ più protetto nel sapere dove si trova. 

Il film parte da una mappa geografica molto forte, perché ho fatto otto mesi di ricerche prima di cominciare a girare. Ho dovuto incontrare prima i luoghi, luoghi che ho chiamato gli “assoluti”. L’Isis si stava sgretolando, c’era un minimo di speranza verso un futuro, è in quel momento che ho iniziato il film. Sapevo molto poco di quelle regioni, di quei conflitti. E più tempo trascorrevo in quelle terre, meno capivo. Quindi ho deciso di togliere qualsiasi riferimento politico, ho deciso di seguire semplicemente, come ho sempre fatto nei miei film, le storie dei personaggi che incontravo. 

I primi otto mesi sono stati viaggi lunghissimi, senza cinepresa, alla ricerca degli incontri, sempre molto casuali,  – a volte un frammento, uno sguardo, una situazione – che sarebbero poi diventati la narrazione cinematografica. Perché è dall’incontro che nascono le mie storie e il tempo del film: il tempo degli incontri, del loro sviluppo e dei rapporti che si creano con i personaggi.

L’APPUNTAMENTO

Qualcuno mi ha domandato come sia riuscito ad avere la fiducia di chi incontravo. Oggi ho trovato la risposta per la prima volta. All’inizio ero sempre senza cinepresa, non volevo consumare le storie, sentivo che dovevo sempre scappare. Mi dicevo adesso succede qualcosa di incredibile e io non ho la cinepresa, non posso filmare. 

Erano quindi degli appuntamenti volanti, innamoramenti molto forti. Con Alì, con il cacciatore delle paludi. Sono sempre stati incontri molto potenti e profondi. Io davo loro un appuntamento e dicevo tornerò fra tre mesi, tra due mesi. Quando tornavo poi davvero, era come se dicessero allora non mi ha tradito, allora ti consegno la mia fiducia. E lì si aprivano con una disponibilità totale.

Un mio maestro ripeteva sempre che quando giri devi sapere quando iniziare e quando andar via. È così, è molto difficile mettere la cinepresa. A volte mi dicono sei invisibile, ma non sono assolutamente invisibile, anzi, c’è una telecamera molto ingombrante da inserire e ci sono scelte molto grosse da prendere. Ogni tanto viene vista come finzione, ma non c’è mai finzione, perché i personaggi sono assolutamente se stessi, io non ho mai scritto una riga e non ho mai detto loro cosa fare, però ho passato molto tempo con loro, fino a percepire i momenti in cui tirar fuori la cinepresa.

LE PRIME STORIE CHE HO INCONTRATO

Il primo incontro che ho avuto è stato con la voragine, quindi l’incontro con uno spazio. C’era una luce incredibile, quasi apocalittica. Questa cascata d’acqua e questa strada che si era sgretolata a causa delle piogge torrenziali dei giorni precedenti. Non era stata una bomba, ma la conseguenza di una mala manutenzione. Era iniziata come una buca di un metro quadro e dopo un’ora, due ore, era diventata quasi un lago. 

Poi ho incontrato un telefonino, la disperazione nella voce di una ragazza. Stavo girando dei luoghi molto generici, a un certo punto mi si è avvicinato un ragazzo giovane, la moglie era stata rapita dall’Isis. Mi ha invitato a casa e mi ha fatto ascoltare i suoi messaggi devastanti da un cellulare. Io non capivo la lingua, ma sentivo la disperazione. Era stata una delle diecimila donne yazide rapite dall’Isis, il cui destino tragico era quello di finire schiave del sesso o uccise. 

Il ragazzo non voleva farsi filmare per motivi di sicurezza e mi ha consegnato il telefono. Per tre anni l’ho tenuto con me. Ogni tanto tornavo lì, che voleva dire fare otto, dieci ore di macchina e passare attraverso territori non sicuri, farsi accompagnare da scorte diverse. E ogni volta non riuscivo a sviluppare la storia. 

Dopo tre anni ho fatto l’ultimo tentativo, sono tornato e il ragazzo mi ha detto guarda, mi sono sposato, per me è una storia finita, ho perso speranza di rivedere mia moglie, adesso ho una nuova vita; però so che la madre è stata liberata un anno fa e adesso si trova in Germania. Sono riuscito ad avere il suo numero di telefono e il 28 ottobre, prima del lockdown, attraverso delle persone influenti della comunità yazida, riesco a contattarla. Lei mi dice puoi venirmi a trovare a Stoccarda. Pensare di girare una scena a Stoccarda era la follia pura, ma io dovevo conoscere la persona a cui la ragazza si rivolgeva.

E quindi, dopo tre anni, incontro questa mamma in un appartamento di Stoccarda. Per ore e ore mi racconta tutta la storia e io ascolto. È stato uno degli incontri più devastanti della mia vita, mi ha lacerato completamente. 

Erano le quattro di pomeriggio, nevicava e io non sapevo cosa fare. A un certo punto la donna dice sei qui per girare una scena con la voce di mia figlia, me lo hai detto al telefono. Io questi messaggi li ho persi, voglio ascoltarli. 

Si siede sul divano in camera, io avevo già la cinepresa pronta. Lei ascoltava, non succedeva nient’altro. Poi è scesa una lacrima. Una scena di una sintesi totale. Non c’erano domande, non c’era nulla. C’era una voce che avevo trovato tre anni prima. Si chiudeva il cerchio. Sono riuscito a montare questa scena durante il lockdown. Per tre anni ho avuto questi messaggi in testa, ma non sono riuscito a usarli, avevo provato a inserirli fuoricampo, ma non funzionavano. Penso che sia una delle scene più forti del film, più drammatiche, più casuali e più dettate dal destino.

LA GIUSTA DISTANZA 

Ogni volta che metti la cinepresa tutto cambia, la realtà si trasforma, chi sta davanti si trasforma. Soltanto in quel momento io riesco a capire il film, perché in astratto non riesco a comprenderlo. Soltanto quando guardo dentro il finder (mirino) riesco a capire se è giusto quello che sto girando, se appartiene a quello che ho girato prima e, soprattutto, se c’è la verità. La verità è sempre dettata dalla distanza che tu metti tra la cinepresa e il soggetto che stai filmando. Questa è una delle cose forse fondamentali nel documentario. Bastano a volte pochi centimetri di differenza e racconti un’altra storia. La grande sfida è saper trovare la giusta distanza. 

Quando io sono lì riesco a capire e anche a decidere quando chiudere. A Stoccarda, ho girato cinque minuti, otto minuti, praticamente un piano sequenza poi ho detto basta. C’era tutto, assolutamente tutto, perché avevo già il montaggio in testa. La voce che appare come un fantasma e finalmente la mamma che la ascolta.

Ogni tanto la donna mi chiama. Proprio una settimana fa mi ha detto che forse la figlia è ancora in Siria. L’Isis ora sta crescendo di nuovo, si è rafforzato durante questo periodo, perché la coalizione internazionale si è molto indebolita.

Io penso che questo sia l’ultimo film che testimoni il Medio Oriente o il Medio Oriente così come era in quella transizione tra Isis e qualcos’altro, c’è una sospensione. Sono riuscito a girare il film subito dopo l’Isis e subito prima del Covid. La pandemia cambierà profondamente la realtà politica e geopolitica di quei luoghi. 

È in atto una rivoluzione dei giovani. Si vede anche nel film alla fine, nel teatro del manicomio, con l’annuncio di nuovo stanno uccidendo i nostri giovani, con l’alcol, col gas. C’è una forza enorme adesso delle forze giovanili sia in Libano che in Siria, non è una primavera araba, è un’altra cosa. C’è proprio questo senso di ribellione contro la corruzione. E una povertà immensa, persone che erano della classe media non hanno più soldi per mangiare. Il Libano è in ginocchio, l’Iraq è in ginocchio, la Siria è in ginocchio. 

CONFINI

Una volta trovati i luoghi, devo trovare i personaggi che riflettono l’intensità di quel luogo attraverso la loro quotidianità. È la storia della quotidianità di queste persone, vittime della storia, vittime di una storia che parte dal 1916, quando le potenze coloniali tracciarono a tavolino confini inesistenti, i confini che hanno cominciato a creare la lacerazione politica e sociale che ci stiamo portando avanti. Forse anche per questo sentivo l’esigenza di annullarli, i confini. 

Perché poi erano dei confini interiori, della gente che incontravo, si trattava della suddivisione tra la vita e l’inferno. Quindi il confine è il margine della storia, è la stratificazione della storia dei personaggi. Il dolore di una mamma curda è uguale al dolore di una mamma siriana.

SAPERE DOVE SI TROVA UN RICORDO 

Io sono stato al fronte quando c’è stata l’invasione dei turchi in Siria. Pensavo che fosse una cosa che dovessi documentare. Dopo una settimana non se ne era più parlato, anche se la situazione era solo peggiorata. Mi sono reso conto che la guerra è strategia. Succede qualcosa di enorme un giorno poi per un mese non succede più nulla. Poi un attacco, poi un accordo, poi ci si allontana, ci si avvicina. È tutto nei meandri di chi la gestisce: i russi, gli americani, i siriani. Questa è la guerra adesso, non c’è la battaglia, e se c’è, dura pochissimo. 

Ma è come un’onda d’urto che arriva molto lontano e raggiunge il quotidiano delle persone. Questo è ciò che ho voluto raccontare. Non mi interessava raccontare il conflitto in sé, come non mi interessava raccontare la violenza. È un film di guerra in cui la guerra la si percepisce a distanza, perché è il quotidiano che prevale. Nelle città devastate, le zone distrutte sono grandi forse cinque chilometri quadrati, il resto della città vive e sopravvive al quotidiano, perché c’è una forza, anche di accettazione, incredibile. È un film sulla memoria, su quello che lascia la guerra nelle persone. 

Ci sono tre prigioni in Iraq, prigioni costruite da Saddam per lo sterminio dei curdi. Una a Erbil e due nel sud. La prigione di Erbil l’ho vista un giorno passando sull’autostrada. Il mio assistente mi ha accompagnato a visitarla e ho trovato un vuoto incredibile. Poi sono passato tante volte, avanti e indietro, avanti e indietro ma non capivo come girare, dicevo non posso filmare un carcere vuoto. Ho pensato di usare delle voci, sono andato negli archivi per vedere se c’era del materiale dello sterminio. Non esiste più nulla, è stato tutto distrutto. 

Un mattino, tornando lì per l’ennesima volta, ho incontrato delle donne che stavano facendo le prove per l’arrivo del Primo Ministro, era la celebrazione del trentennale. Sei, sette donne sedute, con delle facce pazzesche. Mi sono avvicinato e il mio assistente mi ha raccontato la loro storia. Ho spiegato loro che era importante raccontare la storia dei curdi, perché già la stiamo dimenticando. Si sono convinte, così siamo ritornati ancora. Non avevo assolutamente idea di come girare. 

Ho chiesto voi ve la sentite di entrare? Hanno detto no, sono trent’anni che non andiamo lì dentro. Poi hanno parlato tra di loro e mi hanno detto va bene, entriamo.  Hanno iniziato a camminare e io ho iniziato a filmare questi passaggi. Una di loro era stata in quel carcere con il marito e i figli. Tutti erano morti, lei era l’unica sopravvissuta. Era molto anziana, ha detto ritorno domani, è troppo forte emotivamente, ho visto la cella di mio figlio. Me l’ha mostrata e ha detto domani voglio stare qui. 

Il giorno dopo, avevo messo la cinepresa nella cella, lei è entrata e, a un certo punto, ha iniziato questa nenia. Non capivo cosa dicesse. Non capivo assolutamente nulla. Ho filmato la sequenza, poi ho smesso. Lei è rimasta da sola. Io sono andato via e quando sono tornato era attaccata al muro, ho spostato la cinepresa. Poi è rimasta lì dentro e quando sono tornato ancora era seduta per terra con le fotografie in mano, è rimasta così tutta la giornata. Così con grande discrezione sono riuscito a filmare questi tre momenti, senza sapere ancora una volta cosa stesse succedendo. 

La maggior parte di questo film l’ho capito al montaggio, mentre giravo non avevo la traduzione. Non mi interessava nemmeno sapere il dettaglio delle parole. Solo dopo ho colto il senso di quella scena. Quindi anche allora è stato un rimandare, però ero convinto di avere qualcosa di estremamente forte, di universale. 

DA SOLO, ASPETTAVO

Ci sono state varie tappe di montaggio, perché vi sarete accorti che nel film non c’è una giornata di sole. Anche la meteorologia faceva parte della struttura narrativa. De Seta aspettava settimane e settimane per girare, io aspetto settimane e settimane per avere la luce giusta. Perché il cinema è luce e la scelta di luce. Esco continuamente, a volte faccio anche finta di girare.

All’inizio avevo deciso che il film fosse girato tutto al buio, in notturna, e poi nella penombra, poi dalla penombra sono passato alle giornate di nuvole e alle giornate cupe. A volte sono stato due settimane per filmare una scena soltanto, soprattutto per i paesaggi. Quando avevo tempo ed ero da solo, aspettavo. 

Io detesto filmare, quindi forse è solo un modo per rimandare (ride, ndr). Rimandi, rimandi, rimandi. E poi quella luce è giusta e allora scatta quella cosa meravigliosa, una specie di trance. Inizi a lavorare e c’è la totale improvvisazione, perché ti muovi con chi sta davanti alla macchina. Succede spesso con le nuvole o con la pioggia, perché le nuvole poi nel film diventano una specie di coro della tragedia greca, qualcosa che sta dietro e che aiuta la narrazione. Quel giorno deve assolutamente funzionare tutto. A volte succede, a volte no. Ma quando accade, è qualcosa che tu non hai mai immaginato.

LA PALUDE

C’è una luce, che è la luce dell’eco e la luce della palude. Ho incontrato questo personaggio così per caso, stavo andando da Baghdad a Bassora, nel sud, dove sono morte tre milioni di persone nel conflitto iraniano-iracheno. Un luogo come gli altri, un altro “assoluto”. Cercavo dei personaggi, delle situazioni. Un viaggio difficile con i vari check-point, tutti ti domandano perché sei qui?Un giorno, dopo otto ore di viaggio lungo strade pessime, ho visto passare una piccola moto, una faccia incredibile e queste mani da uccello. 

Il mio assistente mi ha detto he is a hunter! (è un cacciatore). Allora siamo tornati indietro, gli abbiamo chiesto cosa facesse, dove stesse andando. Ci ha raccontato che era un cacciatore, che cacciava nelle paludi, di notte. Perché di notte?gli chiedo.Perché ci sono gli uccelli, questo è il periodo della caccia. Vado di notte perché ci sono i fuochi e gli uccelli arrivano. La luce è perfetta, è tutto rosso. Ancora una volta, stavo andando da un’altra parte e ho detto tra tre mesi tornerò. Sono tornato, sono stato a casa sua. Un altro appuntamento non mancato. Ho avuto la sua totale disponibilità e ho iniziato a seguirlo nel suo quotidiano, un quotidiano che poi, per lui, era la notte.

In quella zona, al confine con l’Iran, c’è una situazione di coprifuoco e avere i permessi è stato difficilissimo. Quando finalmente li ho ottenuti, ho scoperto che valevano solo di giorno, così ho dovuto aspettare un’altra settimana. Nel frattempo io ero sempre con lui, lo seguivo, lo osservavo, vedevo come si muoveva. Ma non giravo, non portavo neppure la telecamera con me, sapevo che quella era una scena notturna. Finalmente abbiamo avuto i permessi e siamo andati con lui. Nel frattempo il periodo della caccia era finito. Filmavo l’attesa. Era un’attesa meravigliosa, il suo sguardo, la palude, era un luogo capovolto, un mondo che bruciava. La luce era pazzesca, un rosso che sembrava di essere su Marte, gli spari costanti. Io trascorrevo le notti così, in questo posto che era un altro pianeta e qualsiasi cosa filmassi lì, assumeva un’altra dimensione. Questo è stato il luogo dove abbiamo rischiato di più. Una volta siamo stati vicinissimi al rapimento, siamo dovuti scappare a nuoto, abbiamo abbandonato la barca. Il giorno dopo siamo riusciti a recuperarla insieme a tutto il materiale per fortuna. Ci siamo fermati per una settimana, poi abbiamo continuato a girare con lui per altre due settimane, con la polizia che ci seguiva a distanza. Per me quel luogo era una metafora perfetta, la metafora di tutto il film: il mondo che brucia, la guerra che senti a distanza e questo senso di serenità, di pace nei personaggi. Il cacciatore non diceva una parola. Come Alì.

RICUCIRE IL PRESENTE E IL FUTURO

Una volta che il film finisce trovi tutte le risposte che vuoi. E, se vuoi, le risposte sono tutte nello sguardo di Alì, alla fine. Lui che aspetta che arrivi un cacciatore, per passare una giornata a fare il cane da riporto in cambio di tre dollari o cinque dollari, una condizione che nessun bambino al mondo dovrebbe vivere. In quel momento c’è tutto, il brivido, la totale incertezza verso un futuro, incertezza che oggi trova affinità con il periodo che stiamo vivendo anche noi, per la prima volta. Questo non sapere esattamente quello che succederà domani è per Alì una condizione di vita permanente. 

ANCHE TU UN GIORNO, PATRIA MIA, AVRAI UN DIO 

Durante il periodo dell’Isis le persone andavano anche a rifugiarsi nel manicomio, perché l’Isis è arrivata a pochi chilometri da Baghdad. Gente che durante l’invasione americana ha avuto dei traumi molto profondi, e il manicomio di Baghdad era diventato una specie di luogo infernale. Anche lì, era complicato trovare come raccontare questa storia. Era difficilissimo filmare i matti, come filmare i bambini e filmare la morte. Sono le tre cose che non andrebbero mai filmate, dicono. Io purtroppo ho filmato tutte e tre le cose nei miei film, ma finora sono sempre stati dei punti di arrivo, il manicomio invece è stato un punto di partenza.

I permessi sono arrivati quando ho scoperto il teatro. Ero andato nel manicomio tante volte, poi un giorno ho sentito delle voci, gente che rideva. Sono entrato e mi sono seduto nella sala e ho guardato la registrazione delle prove. Il medico mi ha spiegato che si trattava di una terapia per i pazienti e che lui si divertiva a scrivere pièce, opere teatrali. Raccontavano la storia del Medio Oriente. Our homeland (la nostra patria), mi ha detto. 

Ho letto la traduzione del testo, era di una bellezza incredibile, era esattamente la storia che non potevo raccontare perché avrei dovuto fare interviste o correvo il rischio di essere didascalico. Quello era il fil rouge che mancava al film. Ho seguito queste prove per un mese. Ho chiesto anche di poter filmare i pazienti che memorizzavano le proprie parti. Mi hanno risposto che avrei potuto farlo, se fossi stato attento a non mostrare anche gli altri, se avessi tenuto la luce bassa. Quando sono andato per filmarli nelle proprie stanze e nei corridoi è andata via la corrente per tre giorni, così sono riuscito a girare tranquillamente.

Il teatro è stato una rivelazione, in un secondo momento ho capito che era la parte politica e storica del film. Era un materiale d’archivio incredibile, dalla colonizzazione alla rivoluzione dei giovani di oggi, ovviamente in estrema sintesi. In America hanno colto molto la similitudine con quello che sta succedendo nelle loro piazze. 

LA SINTESI

È stato molto difficile trovare il momento in cui lasciare una storia ed entrare nell’altra, perché bastava raccontare due secondi in più e poi non potevi più lasciare quel personaggio. Già nel girare, c’era questo senso di sottrazione costante, quel trovare qualcosa di profondamente piccolo, dove non c’era un prima e non c’era un dopo, ma si percepiva il prima e il dopo. La ricerca era proprio trovare cosa filmare ogni volta, come nel telefono, come per Alì. Alì è una sintesi, il ragazzo si alza la mattina, fa vari mestieri, torna a casa e riprende. Come per il cacciatore che va nella palude di notte, quell’attesa. Nel montaggio ancora di più, occorreva trovare questo senso di passaggio tra un personaggio e l’altro, tra un luogo e un altro, così distanti, tra culture così diverse, tra lingue diverse. Senti l’iracheno, senti il libanese, senti lo yazida. Etnie diverse, conflitti diversi, drammi diversi. Quando li unisci in un racconto in cui si passa da una storia all’altra, quella storia appartiene anche alla storia successiva e viceversa, come due note che dialogano tra di loro. 

E poi sono sempre più le scene che non filmo, che quelle che filmo. Perdo tante cose, come le perdi nella vita. E come le perdi nel montaggio. Perché hai ottanta ore di materiale e il film sono cento minuti. In ogni caso, tutto quello che tu lasci fuori fa parte del film, come in un fotogramma. Tu devi essere in grado anche di capire quello che c’è fuori dai bordi del fotogramma e quello che c’è dietro e lì la sintesi. Quando parlo di sintesi intendo questo. E la trovi solo stando molto tempo lì. Il mio maggiore investimento per questi lavori è il tempo.

LA VERITÀ 

Per me è importante arrivare alla verità. Per questo ho bisogno di passare tanto tempo con i personaggi. È come il ritratto di un fotografo: più conosce il proprio soggetto, più è in grado di capire che quel fotogramma è legato a quell’espressione. C’è il prima e il dopo. L’essenza di ogni storia è lì: in Alì, nel cacciatore, nelle donne curde, nella ragazza rapita e nella mamma che ascolta la sua voce. Sono tutti personaggi in grado di trasmettere una specie di universalità, attraverso dettagli piccolissimi. Alì non parla mai, però i suoi occhi valgono cento interviste, valgono mille parole. E soltanto frequentandoli a lungo, riesco a capire dove mettere la macchina e cosa filmare. Anche se dovesse accadere all’improvviso la cosa più eclatante vicino a me, io non sarei in grado di filmarla. Riesco a girare soltanto quando ho consapevolezza del luogo e della vita delle persone. Persone con cui ho vissuto, ho mangiato, ho dormito. Solamente così capisco qual è quel frammento di vita che ha un’importanza universale. È questa la parte più difficile: trovare la verità.

(Il testo è tratto da “Lezione di cinema con Gianfranco Rosi per Notturno”, ospitato da Anteo Palazzo del Cinema, Milano, 16 settembre 2020)

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