Massa e Individuo

di Federico Rampini
Fotografie di Luca De Santis

Il reportage nasce da una ricerca fotografica, condotta attraverso lo strumento di Google Earth. L’indagine si focalizza su luoghi dove l’uomo occidentale ha un accesso limitato e filtrato dalle immagini rintracciabili sul web. Le fotografie ritraggono il territorio e il popolo siriano tra il 2008 e il 2020.

Proviamo a spremere in pochi istanti il condensato di ciò che l’Oriente rappresenta per noi. La spiritualità ha un posto importante, è là che siamo andati a cercarla spesso. Soprattutto negli ultimi tre secoli, da quando la rivoluzione industriale, il consumismo, la competizione per arricchirsi, hanno stravolto le nostre vite. Dunque l’Oriente è anima, l’Occidente materia. Là c’è il regno del silenzio, di qua regna il rumore. In Asia vi è ricerca del senso profondo della vita, che qui viene sommersa e avvilita nella corsa del topo in gabbia, l’uomo moderno alienato, sepolto sotto l’oppressione delle cose. 

Continuiamo questa introspezione, cercando tutto ciò che l’Oriente reale o immaginario ha sedimentato nella nostra anima. C’è un’idea di umanità primordiale – l’India come origine delle nostre popolazioni, etnìe, lingue e civiltà. La Cina e il Giappone come l’Altro assoluto, civiltà buddiste e confuciane che un papa polacco definì “religioni senza Dio”. Misticismo nichilista. Comunione con la natura. 

A proposito di natura, laggiù in fondo al nostro subconscio collettivo giace anche un’idea dell’Oriente come terra della sensualità erotica, dove i corpi sono liberi di esprimersi e gioire, non repressi dal senso del peccato e da una morale sessuofobica. 

Non tutto ciò che è custodito negli archivi segreti della nostra memoria storica è positivo. Dalle viscere del subconscio collettivo emerge anche il “dispotismo orientale”, l’idea che l’Asia è quella parte del mondo dove la comunità prevale sull’individuo, anche schiacciandolo. I doveri verso gli altri vengono prima dei diritti. Paternalismo autoritario. Grandi imperi che comandano su masse sterminate, da cui esigono obbedienza assoluta. 

Tutto questo è l’Oriente. Solo di recente si è aggiunto un significato nuovo: da qualche parte in Asia avete visitato il laboratorio della modernità, là si è spostato il dinamismo, l’innovazione, la costruzione del futuro. Per la nostra generazione quest’ultimo episodio è uno strato sottilissimo, un’impressione che si è aggiunta solo da pochi anni, sull’idea ancestrale che avevamo dell’Oriente. (Ben diverso era il nostro senso comune ai tempi del Rinascimento, mezzo millennio fa, quando l’Asia aveva inventato tutto prima di noi).

L’Oriente è un luogo dell’anima oltre che della geografia. Della nostra anima: lo abbiamo costruito noi. Da più di duemila anni ce lo rappresentiamo, ne abbiamo fatto un mito, una costruzione culturale. A cominciare da Omero e da Alessandro Magno. Il fascino formidabile che esercita su di noi è ben comprensibile. Da Oriente ogni mattina si alza il sole, e da laggiù sono arrivate verso di noi a ondate le orde umane che ci hanno invaso, conquistato, civilizzato. Qualche volta abbiamo restituito il colpo, andando a colonizzarli noi; ma nei tempi lunghi dei tre millenni ha prevalso l’onda contraria. Per ovvie ragioni: l’Europa non esiste, geograficamente è la piccola propaggine periferica di una enorme massa terrestre che è il continente asiatico. 

Aprite un atlante geografico, osservate com’è minuscola l’Europa. È anche indistinguibile, inseparabile, nulla ci divide veramente dalla nostra terra-madre che è il blocco asiatico. Eurasia, infatti, è l’unica definizione sensata. La concentrazione umana è sempre stata maggiore a Est. 

(Ci fu qualche invasione da Sud coi primi ominidi africani; coi cartaginesi; da Nord coi vichinghi, i normanni, gli svevi, ma fu poca roba rispetto ai popoli delle steppe che con regolarità implacabile divoravano le grandi pianure dalla Mongolia e dall’Asia centrale per conquistarci). 

Proprio perché siamo più piccoli, confinati su questa penisola europea stretta fra Mediterraneo, Atlantico e mari nordici, cominciammo a formarci un’idea dell’Oriente basata sulla sproporzione. La loro immensità doveva trasformarsi in un valore negativo. Le grandi battaglie dell’antichità, fra greci e persiani, oppongono “i nostri” – pochi liberi e forti – a delle autentiche maree umane. Di recente perfino Hollywood ne ha fatto uno stereotipo, rinnovando per le masse contemporanee un mito ancestrale. Già affiora negli storici greci dell’Antichità quest’idea che noi siamo individui, capaci di eroismo, loro sono masse. Noi in embrione abbiamo un’idea dei diritti e delle libertà; gli orientali sono eserciti disciplinati e obbedienti, dominati da imperatori semidèi, con potere assoluto sui sudditi. 

Ho seminato confusione geografica: di quale Oriente sto parlando? La Cina ne è la realtà più antica e più grossa, senza dubbio. Con le sue filiazioni culturali – Giappone Corea Vietnam Myanmar appartengono anch’esse alle due tradizioni parallele buddista e confuciana – la Cina rappresenta il polo più estremo e più denso dell’Asia. Però noi l’abbiamo scoperta tardi. Il vero incontro diretto tra noi e la civiltà cinese avviene ai tempi di Marco Polo (cioè l’altroieri, alla fine del XIII secolo). Prima la maggior parte dei nostri rapporti coi cinesi erano indiretti, gestiti da civiltà di mezzo come la Persia e l’India. Quando noialtri eravamo ellenici o latini, Oriente significava Asia Minore. Cominciava con la costa turca. Idee e valori, scoperte scientifiche e prodotti, sete e spezie, ci giunsero a lungo dalla remota Cina tramite la mediazione del Vicino Oriente. Per questo l’idea dell’Oriente comincia a prendere corpo già a partire da Istanbul; anche se metà di quella città è in Europa. I turchi vennero proprio dalla Cina, gli ottomani erano all’origine uno di quei popoli delle steppe che traversarono l’Asia intera per spingersi fino a noi.

Molte di queste civiltà di mezzo, dal VII secolo in poi furono conquistate dall’Islam. Presenza ingombrante in molti sensi. Dalle conquiste arabe o mongole fino alla fine dell’Impero ottomano, l’Asia che incombeva su noi europei era anzitutto quella musulmana. La questione islamica tinge di pregiudizi positivi il nostro primo approccio religioso alla Cina: i missionari cristiani vanno a cercare nell’Imperatore celeste un alleato nelle guerre contro i Sultani. I primi brandelli d’informazioni che riceviamo dall’Estremo Oriente sono traduzioni simpatizzanti di Budda e Confucio, per ragioni squisitamente diplomatiche. È sorprendente rileggersi oggi la battaglia dei gesuiti in difesa dei “riti cinesi”.

Prima che l’Oriente sia per noi un sinonimo di spiritualità, ascetismo, distacco dalle cose terrestri, diventa invece il luogo della modernità, della saggezza, della cultura, del buongoverno. Una parte dell’Illuminismo francese – Voltaire in testa – ammirava l’Impero Celeste. Da là erano venute scoperte importanti, per esempio negli strumenti di navigazione, che avevano consentito di esplorare nuovi continenti. La stampa e la polvere da sparo erano anch’esse cinesi prima che europee. Soprattutto Voltaire s’inchinava rispettosamente davanti all’istituto degli esami per i mandarini: la Cina imperiale selezionava gli alti dirigenti della sua pubblica amministrazione in base a concorsi pubblici, meritocratici, mentre nell’Ancien Régime francese le cariche di governo venivano vendute al migliore offerente oppure ereditate dai rampolli della nobiltà.

Regno del silenzio, dello spirito, della trascendenza, l’Oriente lo diventa per noi dopo la prima Rivoluzione industriale. È soprattutto il Romanticismo tedesco, nell’Ottocento, a imporre due convinzioni: che l’India è la culla primordiale di tutte le nostre civiltà; che il buddismo è un antidoto ai mali della modernità. L’Asia è reinventata, riscoperta e rilanciata in una chiave nuova: dopo i Romantici tedeschi arrivano Nietzsche e Schopenhauer. Poi Hermann Hesse col Siddharta, romanzo iniziatico che forma generazioni di giovani europei e americani. Un filo congiunge il Siddharta ai poeti Beat degli anni Cinquanta; alla Summer of Love di San Francisco (1967) dove un’intera generazione di giovani americani scopre il sitar di Ravi Shankar e lo yoga; l’anno dopo c’è il viaggio dei Beatles in India alle sorgenti del Gange. Ancora più a Est, il Giappone ci influenza in modi più sottili.

È il minimalismo della sua architettura, del suo design, che conquista per esempio Steve Jobs (fondatore di Apple) e con lui il mondo tecnologico della Silicon Valley californiana. Insieme col sushi o con la dieta vegana, “zen” diventa un aggettivo corrente nel linguaggio di tutti i giorni in America fin dagli anni Novanta. Un modo di concepire la vita. L’idea è che dietro l’universo delle forme giapponesi ci sia anche un sistema di valori, dove possiamo trovare una serenità perduta.

Ma lo stesso Giappone ci costringe a fare i conti con una realtà rovesciata; è un paradosso che la Cina vive in maniera ancora più evidente. Queste due civiltà (che diventano anche “nazioni” solo per scimmiottare un’invenzione dell’Occidente) oggi ci hanno raggiunto o superato in molti campi della tecnologia e dell’economia. Il miracolo economico giapponese noi tendiamo a situarlo negli anni Cinquanta; in realtà era cominciato nella seconda metà dell’Ottocento con la riforma Meiji. Il Giappone si era deciso allora a imitare in molti campi l’Occidente. I suoi modelli erano l’industria inglese e l’esercito prussiano. Ci riuscì così bene che fu la prima potenza asiatica a sconfiggere nell’èra moderna un impero europeo, la Russia zarista (1905). Al miracolo economico giapponese seguirono quelli di Corea del Sud, Singapore, Taiwan. Tutti con la stessa ricetta: prendere dall’Occidente il meglio, in campo economico, scientifico, tecnologico. Infine è toccato alla Cina e anche lei ha ripetuto l’exploit, su una scala immensa. Ha copiato molti ingredienti del capitalismo americano. Si è omologata a noi per l’urbanistica delle sue città; per i modelli consumistici della popolazione; perfino per la dieta alimentare. Ha per lo più abbandonato l’acupuntura e la medicina tradizionale, per dotarsi di ospedali con apparecchiature occidentali. In molti campi il boom cinese degli ultimi trent’anni è semplicemente l’innesto di un modello global-occidentale su una popolazione di un miliardo e 400 milioni di persone, che aveva già avuto tradizioni mercantili e imprenditoriali. Questo ci spiazza, però. Mentre noi inseguivamo un mito dell’Oriente, loro si sono costruiti un Occidente-modello. Ci hanno studiati, spesso con più attenzione e più umiltà di quanto noi studiamo loro. Il risultato dà le vertigini. Dov’è finito l’Oriente che abbiamo vagheggiato per generazioni? È sommerso sotto strati di “occidentalismo” che hanno sfigurato e deturpato le loro civiltà? O invece rimane qualcosa di profondamente diverso tra loro e noi? Qual è la vera identità degli uni e degli altri? 

Sono domande che ci stiamo facendo da duemila anni.

Non ci sono valori da una parte e disvalori dall’altra. Tra noi e loro è in atto da due millenni un gioco di specchi rovesciati, immagini manipolate. Occidente e Oriente si fanno un’idea di sé grazie alla contrapposizione, a volte immaginaria. L’identità che diamo all’Altro, per uno scherzo della storia, a volte contribuisce davvero all’immagine che gli orientali hanno di se stessi. Ma è un gioco dove forse si stanno invertendo i ruoli, e presto sarà l’Oriente a dirci chi eravamo, chi siamo noi.

(Questo testo è liberamente adattato dall’autore, dal suo ultimo libro “Oriente e Occidente”, Einaudi 2020).

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