La strada per il sole con Tetsuji Matsubayashi

Testi di Paola Corini 
Fotografie di Luca De Santis

Avevamo fatto tardi a Kyoto, su un piatto di soba freddi al tè verde in una trattoria di famiglia vicino alla stazione. Ci avevano riempito le tasche di cioccolatini al latte per il viaggio, incartati a uno a uno come caramelle. Erano un paio d’ore scarse d’auto fino a Murō. Attraversammo Nara col tramonto, un abito nuziale estivo si muoveva tra le colline dei cervi, lo sposo e il fotografo si vedevano appena. Un nebbia spessa come cotone era scesa sulla foresta che imboccammo per raggiungere il villaggio di Fukano, nella luce del giorno sarebbe potuta apparire una strada malmessa in collina, stanotte sembrava un mistero da superare troppo velocemente per provare arrivare da Tetsuji-san a un’ora decente. 

Sicuramente avevamo perso il bagno delle cinque, prima della cena, la tinozza di cipresso giapponese sarebbe rimasta vuota. Tetsuji era arrabbiato con noi. “Aspettava il vostro arrivo con grande attesa”, ci disse il figlio maggiore. Poi sparirono per preparare la nostra cena, restammo soli con la teiera in ghisa sbuffante sul braciere quadrato al centro della stanza maggiore di questa villa tra le risaie, con il tetto d’erbe palustri come si vedeva una volta nelle campagne e che adesso è diventato costosissimo rifare. La nostra camera era detta kura ovvero capanno e aveva una stanza segreta accessibile con una scala a pioli di legno, i materassi erano già stesi, con la trapunta di piuma invernale, e per imbrogliare il jet leg ci portammo di sopra un grande libro sui ninja, che pare si allenassero nelle foreste dietro le nostre spalle. 

L’indomani sarebbe venuto il maestro di shaku-hachi, il flauto giapponese di bambù, che Tetsuji stava imparando a suonare per la sua prossima vita. Poi la moglie Hiromi ci avrebbe permesso di assistere alla preparazione quotidiana della composizione floreale per il tokonoma. Aveva un catino tondo, delle forbici robuste, un bel ramo di pino e dei gigli locali, il lilium japonicum o sasa-yuri delle foreste di bambù della zona. Quel vaso aveva qualcosa del Natale cristiano che stava per arrivare e della primavera gentile che le risaie aspettavano. Ma soprattutto l’indomani mattina Tetsuji ci avrebbe portato sui sentieri dei monaci che seguivano l’antica dottrina Shugendo come lui, un’antica forma di ascetismo delle montagne e di buddismo esoterico. “Dopo sette giorni nella foresta, l’uomo ritorna selvaggio”, ci disse. Ci aspettava in auto alle sei, brinata dopo la notte sottozero, vestiva il suo abito più classico, nel baule della fuoristrada la grande conchiglia rosata che avrebbe suonato prima di entrare nel bosco e prima di lasciarlo. La eco è chiamata in giapponese ko-dama, “spirito degli alberi” e quella conchiglia risuonò tra tutti i tronchi magri e umidi di Akame, rimbalzò sulle acque delle quarantotto cascate, protette dalle divinità della sorgente. 

A mezzogiorno ci misero davanti il nostro vassoio di cibo Zen, nella locanda buddista affacciata sul fiume, alla destra del ponte che portava al bellissimo sacrario di Muro-ji. “L’atto del cibarsi deve perdere il suo aspetto pesante, grasso, materiale per trasformarsi in una comunione con la natura. Fondamento del pasto è il riso; candido, bollito in una pentola in cui non si mettono altre vivande per non inquinare il sapore ed il profumo, servito da un recipiente in legno odoroso di pino o di cryptomeria, esso deve saper di granaglia, di campo, di cibo dell’uomo, come avviene da noi per il pane sano e forte delle campagne. Le altre vivande, che sono come il companatico, vengono servite in recipienti di porcellana, di terraglia, in scatolette od in coppe di lacca, ma sempre con misura, mai più d’alcuni bocconi, come stami o pistilli al centro d’una corolla, circondati, vestiti di spazio” 

Ore giapponesi, Fosco Maraini, Casa Editrice Corbaccio.

Il fascino del Muro-ji stava nel fervore buddista Shingon delle origini, nel suo carattere storicamente “liberale” nell’acconsentire l’accesso alle donne nei suoi spazi di preghiera quando il Monte Kyoa era famoso per la regola “No Women Allowed”. Nella più piccola e vetusta pagoda, appena sedici metri, cinque piani vermigli su uno sfondo di bosco. Nella statua di Shaka Nyorai che non si poteva fotografare: il “Buddha dell’Illuminazione”, Tesoro Nazionale, risalente al periodo Heian, secolo VIII per intenderci, circondata dai Dodici Generali Celesti, dodici guardiani che controllano dodici direzioni, ognuno con un animale come piccolo ornamento e simbolo in cima al capo.

Quella notte nella mia stanza segreta sognai una foresta purpurea. Eravamo in tre, io, mio marito e un’amica più giovane, camminavamo su una radura in montagna non so dove, avevo la netta impressione fosse pieno giorno, ci muovevamo come fosse giorno, ma in un paesaggio completamente buio, poi alzai lo sguardo e vidi queste chiome di alberi indaco estremamente luminose, alte, materne. Nella foresta il monaco Tetsuji mi aveva chiesto se avevo mai sentito parlare di questi suoni-qualcosa. Aveva detto così: ci sono suoni che sentiamo con il nostro udito, lo scroscio della cascata, il saluto di un passante, e poi ci sono suoni che possiamo arrivare sentire con un po’ di allenamento e sono suoni che non passano attraverso le nostre orecchie ma attraverso la pelle. Nella foresta più il corpo è nudo, più la pelle è esposta, più ampia gamma di suoni possiamo ricevere. Io quella foresta-indaco l’avevo sentita sulle punte delle dita, nelle pieghe dei gomiti.

La villa Sasayuri-ann ha la fortuna di essere rivolta a est, per essere precisi è situata a 34°59’ di latitudine nord, circa cinque chilometri a settentrione del tempio di Murō-ji. Sulla stessa latitudine, lungo l’asse est-ovest posto a 34°32’ nord, sorgono molti siti archeologici, tra cui Ise, il monte Miwa e l’isola di Awaji. Nel giorno dell’equinozio di primavera e in quello dell’equinozio d’autunno, questi posti sono allineati lungo la Via del sole, dall’alba al tramonto.

Altre Storie Da

Giappone