Sud Italia

Dialogo tra due meridionali transfughi
Vincenzo Trione e Franco La Cecla
Fotografie di Luca De Santis

Caro Vincenzo, da palermitano nei confronti di un napoletano come te ho una serie di questioni che mi stanno a cuore e che tu, da nativo della capitale del meridione, puoi forse chiarire meglio di quanto io, impantanato nel baillamme emozionale siculo, sia capace. La prima riguarda cos’è cambiato, dopo la virulenza di questi mesi, per noi che abbiamo scelto Milano come luogo dove “fare cose”. Ti dico subito che per me è cambiato molto, vedo Milano come un luogo che mi dà più dubbi che certezze. Forzato a restare a Palermo durante il lockdown ho cominciato a pensare che c’è una dimensione di bellezza naturale e storica a cui mi riesce difficile rinunciare. Penso: ma Milano, a prescindere dalla rete di rapporti che offre, cosa dà a chi ci vive? La sua geografia, il suo clima, i suoi monumenti sono l’effetto di un calcolo sbagliato. Il posto è infelice, l’inquinamento inguaribile, la città cresciuta con un’idea di mediocre efficienza o di snobismo di lusso che poco ha a che fare con il resto del paese magnifico che vi sta intorno. Dimmi che ne pensi e poi ti snocciolo le altre questioni.

Caro Franco, anch’io avverto una sensazione simile. Sono a Napoli e tutta la vita sembra più distesa, più ricca, i rapporti soprattutto non sono marcati da quell’ansia di affermazione che fa sì che si debba parlare solo e prevalentemente del fare. Qui c’è una dimensione quotidiana che dà spazio a ben altro. Ho letto un intervento di Nicola Lagioia che rimarcava questo carattere diverso del Sud: più si va verso Sud, più i nostri pensieri si fanno leggeri. Ora Milano sembra davvero un pugile suonato. Forse questa idea che si debba sempre essere performanti ha a che fare con una sorta di complesso alla Rocco Siffredi: un’ansia perenne da prestazione. Dopo la pandemia, questa ansia suona sempre meno sensata.

Eppure, io come settantenne e tu come cinquantenne siamo la dimostrazione che a noi il Sud non ci è bastato. Siamo andati a cercare altrove un luogo che ci liberasse dalle nostre appartenenze che erano simpatiche ma a volte davvero costrittive. Io me ne sono andato a vent’anni, tu un po’ più tardi. Non è che siamo veramente degli emigrati, Milano ci ha dato l’impressione di una città che non ci richiedeva un’adesione e un’appartenenza. 

Sì. Milano è un assemblare differenze, nessuno è un emigrato, è una piazza in cui ci si gioca come individui. Le cose però sono cambiate. Dopo noi, sono arrivati i nuovi diplomati del Sud, quelli che avevano deciso quasi di default che non c’era niente da fare in Campania, Puglia, Sicilia, Calabria e che erano venuti a Milano per partire da subito in mezzo alle correnti dove sembrava che si creasse il presente. Ora la pandemia li ha fatti scappare e anche loro come te sembrano pieni di dubbi sul tornare.

Ecco, perché effettivamente qualcosa si è rotto, per loro, per gli stranieri, i tantissimi cinesi che erano venuti a studiare a Milano. E non è chiaro se questa rottura potrà essere superata. È come se improvvisamente si fosse rivelata l’evidenza di quello che il mito di Milano, quello che si era ingigantito negli ultimi anni, nascondeva. Chi pensava che Milano fosse l’avanguardia delle città europee ha scoperto di trovarsi dentro un giocattolo vecchio, non adeguato alle sfide eco-sanitarie, alla vivibilità, un posto che non ti difende, che non ti offre la ricarica, ma che invece è pericolosamente legato a una logica post-industriale finita. 

Sì, questa cosa del mito mi turba. Milano ha costruito il mito di una città autonoma dal resto del paese, un volano che aveva senso da solo, l’idea di un luogo dove le idee vengono pagate e hanno sempre un po’ il carattere della inessenzialità. Un design interessante, ma svincolato dai più grandi e più urgenti temi del nostro tempo. Ecco, il culto della propria mitologia ha staccato Milano dal sistema paese e il paese oggi sembra avere messo da parte questo luogo ancora un po’ infetto.

Come meridionali non ti sembra che l’Italia del nord non abbia avuto mai molta intelligenza nei confronti del Sud? Voglio dire, e qui stanno altri dubbi, la Francia dell’Ottocento aveva una visione di Napoli ben chiara per cui Eiffel ci lavorava come a Parigi. Napoli è stato il sogno mediterraneo dell’Europa, così come la Sicilia è stata il sogno delle aristocrazie ebraiche, svizzere, austriache, tedesche dell’Ottocento. L’Europa sognava il Mediterraneo attraverso il Sud d’Italia, lo ha insegnato a Garibaldi e a Cavour che ne hanno fatto tesoro. Oggi il nord d’Italia non ha alcuna visione del Sud del paese.

È vero, se guardi agli imprenditori del nord che, nel post-covid, potrebbero investire massicciamente nel Sud, perché oggettivamente ci si vive meglio, non lo fanno. Gli industriali e gli imprenditori del nord non hanno una visione del paese, pensano al Sud in termini ridicolmente folcloristici, turistici, mafiosi – tra l’altro sapendo che i bubboni del Sud, dall’ndrangheta alla camorra, sono ormai ben impiantati al nord. 

Parliamo di qualcosa di più specifico. Secondo te Milano rimane un posto importante per l’arte contemporanea? 

La mia impressione è che Milano sia meno produttiva di Napoli da questo punto di vista. A Napoli ci sono artisti, botteghe, studi che producono opere interessanti e molto europee. Forse Napoli è l’unica città d’Italia dove l’arte si è manifestata con maggiore forza proprio nelle fasi in cui la classe politica è apparsa meno attenta a difenderne le ragioni. Ma forse Napoli è anche l’unica città del nostro Paese nella quale l’arte tende a “normalizzarsi” nel momento in cui le istituzioni mostrano maggiore attenzione nei confronti dei suoi “diritti”.

Milano non ha un vero museo di arte contemporanea, il ruolo delle istituzioni pubbliche è incerto e latitante, e alla fine la Fondazione Prada sembra essere uno dei pochi posti dove avvengono situazioni interessanti. C’è un impaccio qui, una mancanza di circolazione, di confronti, di dialoghi. Non c’è una dimensione pubblica dell’arte contemporanea.

E dunque che possiamo fare? Io credo che ci sia bisogno di una radicalità mai come adesso. Essere severi con Milano, “oublier Milan”, e porsi la domanda: siamo sicuri della sua centralità, oggi, con il cambiamento climatico, la sfida cinese verso una modernizzazione urbana? Shenzhen è bruttina come Milano, ma ha un parco di auto tutte elettriche (per venti milioni di abitanti). E soprattutto un programma di rinnovamento ecologico generale. Sembra invece che Milano voglia farcela con qualche aggiustatina, come se gli allevamenti di maiali che la circondano, i fumi tossici che la raggiungono perfino dalla Bulgaria fossero inesistenti. Forse bisognerebbe chiuderla questa città, spostarla altrove, e lo dico come un ex entusiasta del clima multietnico che vi si respirava. Bisogna essere radicali, cambiarla radicalmente o in effetti il “pugile suonato” come lo chiami tu continuerà a prendere ganci fino ad attendere l’uppercut finale. 

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