Immaginate la versione immortale di un’iride blu.
Poi, Capri, Ischia e Procida, in fila, a spartirsi la luce sul pianoro dell’orizzonte, come pupille. Punta Lagno, piena estate. Una discesa al mare, appartata e silenziosa, era ogni giorno l’anticamera dei miei bagni.
Narrano che anche gli dei, per salire all’Olimpo, percorressero un sentiero poco distante da qui, che da Agerola, sui Monti Lattari, raggiungeva Positano, lo stesso che pare li conducesse anche dritti all’arcipelago de Li Galli.
Li Galli: tre scogli brulli e misteriosi tra le cui acque Ulisse sfidò le Sirene. Da qui nominate “Sirenuse”, rocce fertili non solo per la fantasia dei poeti arcaici, ma anche di quella di geografi, conti, perfino stelle della danza. “Un paesaggio primordiale da Genesi, da primo giorno della Creazione”, per riprendere la descrizione che Raffaele La Capria fa dell’arcipelago ne La costa delle sirene (a cura di Vincenzo Proto, Electa Napoli, 1992). Non è affatto leggenda che Léonide Massine si innamorò della maggiore delle tre, tanto da volerla acquistare a ogni costo. Le isole “appartenevano alla famiglia locale dei Parlato, che vi si recavano solo per la caccia di quaglie in primavera”1. E ancora: “Fui sopraffatto dalla bellezza della vista sul mare, col Golfo di Salerno che si estendeva in lontananza. Con Paestum a sud e i tre faraglioni di Capri all’estremità settentrionale del Golfo, essa possedeva tutta la potenza drammatica di un dipinto di Salvator Rosa”. Massine sognava di elevare quello scricciolo di terra a luogo di culto, un omaggio alla danza, alla pittura, alla musica, e così fece, o quasi. Quando acquistò Li Galli, agli inizi degli anni venti, a Positano parlavano di lui come del “russo pazzo che ha comprato un’isola rocciosa dove solo i conigli potrebbero vivere”. Si racconta anche che Antonietta Parlato, dopo la vendita, andasse in giro urlando: “Aggio trovato ’u pazzo chi s’è accattato ’u scoglio”. Non fu facile certo addomesticarla, ma neppure troppo difficile per un personaggio come lui, se pensiamo che per esempio fu Le Corbusier a mettere mano al progetto della sua villa. Dopo la morte di Massine, fu Nureyev a farne il proprio eremo creativo. Imbandì l’isola di echi d’oriente, mosaici, tanti tappeti e iniziò alcune opere che lasciò incompiute, a causa della sua scomparsa prematura, avvenuta nel 1993. A prendersene cura fu poi l’attuale proprietario, hotelier sorrentino, che, insieme alla moglie, collezionista impegnata nella promozione dell’arte contemporanea e fondatrice del progetto Fiorucci Art Trust, continua a illuminare il destino di queste rocce. Oggi Li Galli resta un sogno, una leggenda, ma è innanzitutto una casa, una casa aperta ad accogliere amici, intellettuali, artisti, un luogo di cultura e evasione, ancora una volta nutrito dal felice dialogo tra arte e natura.
Come ogni genere di via che conduce all’acqua, benché non divino, il mio pendio evocava una certa suggestione. Quella profondità peculiare data dalla prospettiva duttile della riva, quando la meta ultima è proprio una sponda terrestre, ovvero un nuovo confine. Dopo la curva a gomito, non si aveva altra scelta che tirar dritto sulla strada asfaltata. A sinistra, un crocevia di intimità umane, oltre i cancelli delle villette a schiera, offriva molteplici opportunità di fuoco per gli occhi. Seconde case, spazi carichi di aspettative. L’angolo di una tavola apparecchiata per il pranzo, teli bianchi sui divani fiorati, secchielli sbiaditi dalla tigna del sole. Mai un uomo, solo le sue impronte e porzioni di inquietudine appese sui rami di bouganville.
Oltrepassato il breve bosco di pini, il terreno diveniva massimamente ripido e sterrato, Uno zig-zag di scalini scandiva la discesa orlata di ginepro, leccio e ragnatele a drappo. Eccolo, l’anfiteatro di roccia e gariga, di una dolcezza brutale e arcaica. E a largo, le onde: l’aria enigmatica di giovani femmine. Diventavano trasparenti solo nel salto finale, quel via vai di spume marine verticali, irrequiete come fiamme. Gli scogli di Punta Lagno erano in qualche modo i miei Li Galli, culla immaginifica e vanesia. Un luogo così diverso da me ma anche così mio, da non aver bisogno di nulla tra le sue braccia.
Alle due l’ombra era un orlo striminzito oltre il profilo dei massi. Per farne un riparo, occorreva rannicchiarsi, diventare tutt’uno con la parete, abbracciare le pietre. In quelle ore roventi, capitava che nell’aria salmastra si sciogliessero dosi massicce di elicriso e tutte le estati del Mediterraneo risorgessero nel baleno del pomeriggio campano, per poi svanire all’istante, poco più che miraggi olfattivi. Non erano scogli affollati, ognuno poteva scegliere il proprio posto nella platea vuota. I ragazzi più giovani stendevano i teli al centro, sulle superfici più lisce e accoglienti, non curanti del sole cocente. Si trattava perlopiù di corpi pallidi e ossuti. Spesso, con andature marziali, percorrevano il piccolo molo a piedi nudi e si lanciavano in aria, con la stessa svogliatezza con cui li si poteva immaginare dare baci sul collo. Voli puri, che scolpivano in aria virgole perfette. Altre giovani dall’aspetto meno occidentale, erano solite restare in acqua a lungo, tenute a galla dal pacato ripetersi di lentissimi gesti medusici. C’era anche chi nuotava senza sosta, in su e giù. A tessere una danza orizzontale, che il mare sembrava voler innalzare al cielo, sventolare in alto come un trofeo.
Io portavo con me le cose che avevo appena letto, le ripetevo in apnea, le recitavo nella vaghezza di brevi abissi cobalto. “Solo una parola. Solo una preghiera. Solo un movimento dell’aria. Solo una prova che ancora vivi e aspetti. No, nessuna preghiera, solo un respirare; nessun respirare, solo un essere pronti; nessun essere pronti, solo un pensiero; nessun pensiero, solo sonno tranquillo.”2 L’acqua raccoglieva tutto e, al pari di uno specchio, di uno sguardo, di un obiettivo, ci restituiva una sua versione di noi. Poteva essere un ritratto nitido in un attimo di calma o solamente un riflesso screpolato, che quasi passava inosservato. E viceversa, anche noi, maturavamo una nostra visione di acqua, di Mediterraneo. Scriveva Pessoa: “Ciò che vediamo. Non è ciò che vediamo, Ma ciò che siamo”.
Ricordo che poco prima del crepuscolo il mare aveva sempre minuti di allegria dolente. Quasi per scrollarsi di dosso noi bagnanti, scimmiottava i primi passi di una tempesta nella luce metallica del golfo. Allora eravamo tutti fratelli di pari entità, tutti figli minori. Il sole scompariva tardi nell’occhio ceruleo e l’indomani si levava altrove, ma tornava sempre a governare i piccoli orti di Massa, con la periferia del suo primo bagliore.
1 La mia vita nel balletto, edizione italiana a cura di Lorena Coppola, Fondazione Léonide Massine, 1995
2 Il silenzio delle sirene: scritti e frammenti postumi (1917-1924), Franz Kafka, Feltrinelli, 1994