Groenlandia e Canada Artico

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Nel mondo degli Inuit esiste un patto tra il cacciatore e la preda ed è quello per cui la preda si offrirà a quel cacciatore che saprà avere rispetto per la sua anima e la lascerà migrare. Un orso polare vola, ha la forma fisica di un piccolo amuleto scavato nell’avorio con lo scheletro inciso sulla schiena e tinto di ocra e mi viene offerto da una anziana donna – è poco più che un souvenir per turisti?

Mi dice: “Scheletro e anima sono la stessa cosa, migrano oltre l’esistenza terrena”.  Prima dell’arrivo dei missionari, della moneta e dei turisti gli amuleti erano elementi della vita di tutti i giorni.

I successi e i fallimenti dei mortali dell’Artico hanno bisogno di spinte e protezioni e un laccio di pelle di animale si cuce in un vestito, se ce n’è bisogno. È responsabilità degli sciamani confezionare amuleti e volare dove sono le soluzioni alle tribolazioni umane. Ecco, viene verso di me, tiene stretta tra i denti a mo’ di dentiera una specie di pettine d’osso, che riproduce spaventosamente bene l’arcata dentale inferiore di un orso polare con le due estremità “canine” fuori misura.

Una carcassa di narvalo sbatte sorda contro la nave, le orche hanno perso interesse, distratte dal nostro arrivo o da qualcosa di più crudele di una carcassa di narvalo senza unicorno, e il branco adesso finge di farci strada fuori dal fiordo. Da cosa ci state allontanando? L’acqua sulla riva della spiaggia ribolle, un’orsa e due cuccioli camminano in fila indiana, si vedono quasi a occhio nudo – cosa sta succedendo esattamente? Non riesco a prendere sonno, l’immaginazione che la memoria produce mi aggroviglia la mente. 

Diciamo pure che non ha senso dormire ora, su questo siamo quasi tutti d’accordo: i passeggeri della nave non chiudono le tende neppure la notte, soprattutto non vogliono sprofondare nel sonno, amano che la mente intorpidita si ipnotizzi davanti alla sfilata suprema degli iceberg – i più piccoli non sono i più insignificanti, i più irregolari scoppiano fragorosamente in forme note del mondo naturale o in puri mostri. Ci tormentiamo nell’assenza temporanea di loro, gli icerberg.

Immobili nelle lenzuola calde delle nostre cabine calde, vagoliamo là fuori, a un palmo di mano, tra qualche ora di blu notte e nelle possibili veglie arancioni di mezzanotte, albe premature per occhi “mediterranei”. Ci aggiriamo accecati nelle nebbie mattutine, che attraverseremo in tute ingombranti di uomini freddolosi su gommoni moderni. Ma la meraviglia e il dubbio sono ottime guide e avere avuto per antenati degli esploratori forse è servito. Grande orso polare, prendi in spalla la mia anima e falla volare, superiamo le casette di legno colorate del villaggio, amabili solo all’apparenza, i cespugli benigni di camomilla spontanea che invadono a mazzi le slitte inutili l’estate, sono canti di Sirene e io accetto la loro trappola, l’inganno.

Lasciamoci dietro i container di merci, i corvi neri e le strade di fango imbruttite dall’assenza di neve. Orso polare, dimentichiamo che aspetto ha il mare navigabile e raggiungiamo il deserto di ghiaccio, dove abiti e fiorisci, perché è lì che tutti vogliamo andare: ci vogliono andare i cani, che ululano perché torni il freddo e con lui il momento di stipare le slitte, tirare, correre, partire. Il freddo che a noi pare intollerabile è il regno, un oceano di ghiaccio lambito da continenti, e gli uomini che vi abitano più vicini ricordano bene un pezzo del vecchio mondo e posseggono vagamente un pezzo del nuovo. O viceversa. 

Solo gli spiriti dell’aria conoscono
ciò che incontro dietro il monte,
ma comunque io spingo
i miei cani ancora avanti,
ancora avanti,
ancora avanti!

Da Knud Rasmussen, Il grande viaggio in slitta

Stiamo scivolando nell’autunno nel fiordo Qaumarujuk, qui e là la superficie del mare è già tutta un cristallo di ghiaccio, una lastra sottile e fragile come pasta sfoglia, che con il vento e il gelo si ispessirà velocemente. Dicono che l’autunno non esista nell’Artide, che le brevi estate siano un battito di ciglia e con quello successivo ritorni l’inverno. Siamo a fine agosto e il termometro segna un grado Celsius. Il ranuncolo glaciale resiste e il cespuglio di mirtillo blu vira colore al rosso bruno. Stiamo navigando da dodici giorni nella Baia di Baffin, dalle sponde della Groenlandia nordoccidentale a quelle del Nunavut, la grande “nuova” regione canadese di isole e arcipelaghi settentrionali riconosciuta al popolo indigeno Inuit nella primavera del 1999. In balia di iceberg frutto di fantasie e di ice pack in metamorfosi.

Possiamo fare slalom in mezzo agli iceberg, ma non rompere il ghiaccio. Per questo motivo non proseguiremo nel Lancaster Sound oltre Devon Island, a imboccare definitivamente il passaggio a Nordovest, rimarremmo bloccati e dovremmo chiedere l’intervento di una rompighiacci canadese (e fare la figura dei turisti in crociera). “Dobbiamo prendere una decisione e l’ho presa io per voi”. “Non vi porterò a Beechey Island e non raggiungeremo Peel Sound”. “Possiamo trovare un varco e arrivarci, ma quella stessa strada stretta di mare si chiuderà dietro di noi”, ci dice il Capitano. Sulla mappa è la mossa di un sasso rosso che la natura-bambina potrebbe spostare per gioco o strategia e incastrare il nemico e non c’è ragione perché non lo faccia. “Non disperate, vedremo ghiaccio, incontreremo ghiaccio”, conclude e si porta via un applauso.

Giorno di navigazione. Per la stessa ragione non faremo tappa a Ellesmere Island, che diventerà la terra promessa e negata a noi e i nostri compagni di spedizione. Il giorno seguente non ancoreremo a Savissivik. L’aria è avvolta da turbinii di fiocchi di neve, il radar mostra la nave circondata da una gang di iceberg. Facciamo inversione a U, si tira dritto verso Upernavik. Giorno di navigazione.

Si narra che il greco Pitea, navigatore e scrittore greco di Marsiglia, fosse partito nel IV secolo a. C. per una spedizione di sei anni e, superato lo stretto di Gibilterra, raggiunto la Bretagna e le miniere di stagno della Cornovaglia, si fosse inoltrato a nord dell’Atlantico e con un ultimo strappo di sei giorni avesse raccolto notizie sull’isola di Thule, là dove nessuno mai era arrivato, nel punto dove terra, mare e cielo apparivano come la stessa cosa e non era possibile proseguire. Il “polmone del mare”, l’aveva chiamato. Oggi sappiamo come quel suo lontanissimo Nord non poteva essere l’Artide, più probabilmente la Scandinavia, resta il fatto che, ovunque Pitea fosse davvero arrivato, esiste a queste latitudini un luogo di biancore muto e inaccessibile che sale da terra e scende dal cielo e infreddolisce gli esseri umani. 

Quando i primi missionari danesi arrivarono a cristianizzare il popolo Inuit verso la fine del Settecento descrissero l’inferno come un posto evidentemente bollente, senza calcolare che agli Inuit sembrava assolutamente un paradiso ed era lì che volevano andare come prima scelta. Più tardi il commercio avrebbe intaccato definitivamente la purezza del loro credo, che si potrebbe superficialmente riassumere nel fatto che gli animali erano uomini, solo una specie diversa di uomini, in particolare l’orso polare che era forte, poteva reggersi su due piedi e cacciare come un Inuit faceva.

E credettero che le imbarcazioni europee dei primi esploratori e coloni fossero uccelli e le vele le ali e gli domandavano da dove venivano. Il nostro paradiso artico aveva la geografia fantastica di Croker Bay e di un bicchiere di cioccolata al latte bollente. “Cioccolata calda e biscotti, Madame? È gratis e lo sarà sempre!”. Da oltre tre ore eravamo incollati al Deck 5, quello davanti al ponte di comando, che aprivano ai passeggeri solo alcune ore del giorno per avvistamenti di balene, orche e orsi polari o per momenti di navigazione “panoramica”.

Era una giornata di sole e cielo terso, non sentivamo freddo e a passo d’uomo penetravamo Croker Bay, fiordo della costa meridionale di Devon Island. Le pareti di roccia alla nostra destra erano alte e tornite di tracce seriali e quel color senape compatto pareva averci trasportato in una crociera sul Nilo. “La donna con un tatuaggio sul mento” è come soprannominano questo posto e le sue rughe. Più avanti si aprivano delle valli brune profonde e quasi solcate da un sentiero battuto, sembravano steppe mongole, dove cavalli e falchi erano semplicemente scappati avanti oltre il nostro campo visivo. L’acqua del fiordo era così calma e setosa che acquietava la mente. Avanti di qualche miglio, che sembravano pochi passi, stavano le pareti severe e solenni di due lingue di ghiacciaio da sedurre lentamente con il nostro avanzare. 

Altre Storie Da

Groenlandia