Knud Johan Victor Rasmussen

Testo di Paola Corini
Fotografie di Luca De Santis

Oh senza padre e madre, 
Oh piccolo caro, tutto solo, 
dammi 
i tuoi stivali di caribù. 
Portami un regalo, 
una bestia di quelle 
con cui si prepara una succulenta zuppa di sangue; 
una bestia di quelle
delle profondità marine
e non delle pianure terrestri.
Piccolo senza padre e madre,
portami un regalo.

Across Arctic America di Knud Rasmussen.

I bambini danesi e groenlandesi credono che Santa Claus abbia un capanno estivo a Spraglebugten Bay sull’isola di Uummannaq sulla costa occidentale della Groenlandia e vi mandano lettere. Ci si arriva incamminandosi in direzione della montagna “a forma di cuore di foca”, una roccia spoglia, prominente e isolata, che da nome all’isola e alla cittadina di Uummannaq. Qui tutti riconoscono la forma di un cuore di foca, ne cacciano duecentomila l’anno, la pelle si commercia e, più a nord si va, più la sua carne si mangia ancora.

La montagna, e quella di Uummannaq in particolare, ha per così dire una portata magica: connette con il mondo di sopra – quello della Luna, del Sole, dei pianeti, delle stelle e di altre forze e spiriti dell’aria – con il mondo di sotto, dei mammiferi marini, dei pesci e degli abissi dell’oceano.

Una poesia in forma di preghiera silenziosa saliva alla montagna dalla voce di un bambino Inuit e un giovane esploratore la udì e la trascrisse in Kalaallisut, che parlava da quando aveva imparato a parlare, poi la scrisse anche in danese, poi qualcuno la trovò e la tradusse per noi in inglese perché ci arrivasse tutta la spietata dolcezza della vita di un bambino nell’Artico. L’esploratore si chiamava Knud e all’età di sette anni aveva guadagnato il possesso della sua prima slitta da neve con cani da slitta per aver riportato in paese un cacciatore ferito, guidandolo a casa dagli orli del ghiaccio dove cacciava animali marini.

In Groenlandia il trasporto avviene in maniera diversa da tutto il resto del mondo nordico, per via del clima e della geografia: l’81% della terra è coperto di ghiaccio e ne restano libere solo le coste, non ci sono ferrovie, non esistono strade a collegare paese a paese, uomini e merci si spostano per mare o per aria, nei distretti più remoti dell’Alto Artico le navi arrivano solo dalla primavera all’autunno, le motoslitte e le slitte trainate da cani sono le nostre automobili e l’inverno si guida sul ghiaccio marino. Knud Johan Victor Rasmussen era nato in Groenlandia da un padre missionario danese e una madre Inuit, una eschimese, una “mangiatrice di carne cruda”, appellativo solo storicamente ammissibile per indicare gli indigeni Inuit, he chiamano Inuk un uomo e Inuit, suo plurale, gli uomini, il popolo, l’umanità.

In tutta la Groenlandia nell’anno 2017 Inuk resta il nome più diffuso dato ai neonati maschi. Era il 1886 a Jakobshavn, oggi Ilulissat. Due anni dopo Knud aveva nove anni e il danese Fridtjiof Nansen passò alcuni giorni ospite nella villa rossa dei Rasmussen, aveva venticinque anni e si era appena conclusa un’avventura. La sua attraversata interna dell’isola in sci da fondo – dove per isola si intende la Groenlandia – da est a ovest, sapeva di leggendario già sulla carta e anche dopo che i piani e l’itinerario furono stravolti. Si dice che a quel tempo gli inglesi amassero lamentarsi copiosamente e altrettanto copiosamente scrivere delle sofferenze incontrate dalle loro squadre nelle esplorazioni polari, mentre per i danesi sarebbe stato umiliante anche solo riportare di aver patito il freddo. Fridtjiof fece passare la sua come una scampagnata estiva su sci tra amici, impegnativa e ambiziosa ma pur sempre “in good spirits”, ovvero animata da animi costantemente allegri. 

Al tempo era campione sciatore e pattinatore, aveva l’inclinazione a distinguersi, in ogni campo si esprimesse e più avanti furono la scienza e la diplomazia. Il suo record di latitudine Nord fu probabilmente da lui stesso archiviato come una medaglia giovanile. Il ragazzo danese si distinse subito anche agli occhi di Knud-bambino, che intravide il proprio futuro e in quell’estate decise che da grande avrebbe imitato Fridtjiof Nansen, a modo suo. Nella seconda metà del Novecento partirono in tanti, con la scusa di andare a investigare della scomparsa di Franklin e compagni, avvistati per l’ultima volta nella Baia di Baffin nel luglio del 1845. I leader delle spedizioni assecondavano soprattutto una propria personalità, spesso un’ambizione patriottica – un primato inglese sembrava necessario – mentre gli Inuit, arruolati nelle loro squadre per l’ovvia capacità di vivere e viaggiare su quel deserto freddo, non si capacitavo della volontà di arrivare a tutti i costi al Polo Nord. Il movimento è sempre stato una componente della vita artica. Gli uomini seguono gli animali. Gli uomini europei inseguono qualcosa di incomprensibile per la gente locale. 

Compiuti trent’anni, Knud era un bravo etnografo, autore e interprete e per primo spostò l’attenzione dalla geografia alla storia umana. Voleva incontrare loro, “La Nuova Gente” di Thule, il popolo misterioso dell’estremo nord di cui aveva sentito tante storie da piccolo, gli insediamenti umani isolati al nord della Groenlandia, piccole comunità tagliate fuori anche della rappresentanza nei comitati danesi locali dalla banchisa che solo a giugno diventa una lastra di pezzi mobili, di vetri in frantumi. 

Nel 1910 Knud stabilì la stazione Thule a Cape York, come base delle sue sette esplorazioni artiche in slitta trainata da cani. Dopo aver interrogato le comunità della Groenlandia, il sogno di Knud si era fatto grandioso e si estendeva a campionare e ascoltare tutti i popoli Inuit di Canada, Alaska e infine Siberia, da dove tutti erano partiti. Lunga 142 cm, larga 56 e alta 70, 25 pezzi in totale, la slitta era il mezzo di trasporto e di comunicazione invernale, la casa mobile dei cacciatori. Knud stava semplicemente imitando lo stile dei suoi antenati. E stava, primo fra tutti, ricongiungendo e trascrivendo connessioni e somiglianze. Gli uomini seguono gli animali. Knud seguiva gli uomini, trascriveva le loro abitudini, le leggende, i canti, le poesie, le loro preghiere. 

Il primo di settembre del 2018 è un sabato e la villa rossa dei Rasmussen a Ilulissat, ieri Jakobshavn, che oggi è la casa-museo del nostro idolo, è chiusa ai visitatori nel weekend. Non sembra possibile, proviamo a forzare la porta. L’estate artica dura troppo poco e tra poco finiranno di arrivare le navi del porto. Restiamo sulle scale a sbirciare le finestre del primo piano, ma si intravede solo il girevole di alluminio con le cartoline. Ci voltiamo verso il mare, verso gli iceberg più grandi del nord della Terra. Da quelle finestre, nelle giornate terse come questa, la mamma di Knud doveva fissare per ore la bellissima chiesa di legno nera sulla sua destra, in prima fila davanti agli iceberg. Aspettava il ritorno di Knud, che forse nelle giornate d’estate come questa si incamminava verso l’antica valle degli uomini Inuit ormai abbandonata, proprio alla bocca del ghiacciaio dove nascono gli iceberg, passando dalla grande valle dei cani da slitta ululanti e poi facendosi strada a zig zag nella tundra morbida fino ai tumuli di pietre, molto prima che vi costruissero per noi una passerella in legno e dipingessero dei bolli blu per marcare il sentiero. Con una buona vista già dal sentiero vedeva gli spruzzi d’acqua delle megattere a caccia di facili crostacei nella bassa marea del fiordo. Con un buon udito poteva sentire uno sciacquio subacqueo tra i ghiacci, una misteriosa pinnata di foca o di chissà quale creatura marina che riusciva a farsi strada nel mondo di sotto. Ci incamminiamo verso la chiesa, è chiusa. Fortuna che nel villaggio più polare della Groenlandia, Qaanaaq, 77° parallelo Nord circa, 890 miglia nautiche dal Polo Nord Geografico, c’era Aleq a aprirci la stazione commerciale “Thule”, quella originale di Knud Rasmussen e Peter Freuchen, che innalziamo a più piccolo e insieme più prezioso museo locale, con quel pezzo di meteorite di Cape York e una collezione ordinata di arti e mestieri dei giorni pre-europei dell’isola più grande del mondo. [2] Liberamente tradotto dal libro Across Arctic America di Knud Rasmussen.

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