Scrivo “Último Porto” su Uber e quello posiziona la destinazione su una piattaforma merci in mezzo al Tago. Mia moglie sbircia il telefono. “Sei sicuro?” “No, ma provarci costa niente”. Quasi niente: l’Uber portoghese è il più economico di tutta Europa. Non è un buon segno per il paese: dimostra che dalla crisi qui tanta gente è disposta a lavorare per due spicci. Pochi degli autisti di Uber sono padroncini: la gran parte guida macchine di flotte, guadagnando uno, due euro a corsa. Altro che rider del food. Non è un buon segno per il paese, ma è una grande fortuna per il turista: un viaggio difficilmente costa più di cinque euro, dunque provare a vedere com’è l’Último Porto non minaccia la mia indole ligure.
Arriva João, che ha recensioni entusiastiche sull’app: “Muito simpático, boa conversa, carro imaculado e ótimo condutor!”. Ci carica sul suo carro imaculado in Praça do Império a Belém. Eravamo in questo quartiere all’estremità occidentale della città per tre motivi: perché c’è una delle piazze più grandi d’Europa e su di essa affaccia l’esuberante Mosteiro dos Jerónimos; perché mia moglie voleva assolutamente vedere il Padrão dos Descobrimentos, il monumento alle scoperte, la mastodontica scultura che rappresenta una caravella con Enrico il Navigatore proteso verso l’Oceano Atlantico; perché io, che penso solo al cibo, volevo provare i celeberrimi pastéis de nata – i cestini di sfoglia riempiti di crema all’uovo che sono il dolce nazionale – nel loro tempio, la pasticceria Pastéis de Belém.
João ha una Renault Mégane scura, come quasi tutti gli autisti sotto padrone, ed è di un garbo rilassante, tratto comune a tanti condutores di Lisbona. Dell’Último Porto non ha mai sentito parlare. E peraltro gli sembra piuttosto improbabile che si possa mangiare lì dove gli segna l’app: è una piattaforma per container. Io dico: “Va be’, proviamo”. Lui concorda: “Proviamo”. Guardo nello specchietto mia moglie e i nostri due figli seduti sul sedile posteriore per cercare conferme. Non le trovo. Gente che non ama l’avventura. Poveri di spirito. João parte e il carro imaculato percorre il luminoso lungofiume, transita di fronte al nuovo, avveniristico Museo di Arte, Architettura e Tecnologia, poi passa sotto il ponte XXV de Abril – quello che sembra il Golden Gate ed è intitolato alla data della “loro” liberazione, il 25 aprile 1974, il giorno della “Rivoluzione dei garofani” contro Salazar –, entra nella città sfiorando l’LX Factory, il grande spazio industriale che fu tipografia e ora è uno dei cuori della Lisbona creativa, e finalmente ridiscende verso questa lunga banchina costruita in mezzo al fiume.
È una piattaforma per container e ha tutto l’aspetto di una piattaforma per container.
Una distesa di cemento con sopra ammassate centinaia di container.
Oltre i container ci sono le gru per spostare i container.
E una nave attraccata. Portacontainer.
João percorre la strada di servizio che corre lungo i container e mi guarda interrogativo. Io sbircio lo specchietto. Inquadra mia moglie: la situazione è grave ma non seria. Uno dei due figli, che intercetta il mio sguardo e dice: “Quando mangiamo?”. Io con il mio miglior portoghese provo a rassicurare tutti, João compreso: “Ve beh, provemos”. Il momento si fa ulteriormente critico quando da dietro una pila di container della Merks vediamo levarsi una colonna di fumo. Alè, pure l’incendio di sostanze chimiche. Velenose. Letali. Finiremo come The Toxic Avenger. Diventeremo mutanti portoghesi.
Invece quella colonna è un segno di vittoria: João supera l’ultimo blocco di questi enormi lego stipati di merci misteriose e proprio lì, accanto ai cassoni, ci sono tre enormi griglie sulle quali sfrigolano teste di pesce e altri oggetti non meglio identificati. Cibo. Mi sento sollevato. E fiero: come un esploratore che abbia scovato, dopo tanto viaggiare, quel che cercava. Mi immagino al posto di Enrico il Navigatore e la mia famiglia con João dietro, nella medesima posa del Padrão dos Descobrimentos.
“L’Último Porto, I suppose” dico a Joao, parafrasando Henry Stanley, quando nel 1871 incontrò in Tanzania il professor Livingstone, scomparso da un lustro. Mia moglie odia le mie battute da sfigato ma curiosamente non la sottolinea: è piuttosto sollevata che ci sia del cibo per sfamare le creature. Usciamo dall’aria condizionata e posiamo il piede su Marte. Questa è la temperatura. Ma non importa: l’Último Porto, che pensavamo un luogo di fantasia come Macondo, come Cose Preziose, come il Bar sotto il mare, esiste. La corsa con João – attesa 2 minuti, 4,9 chilometri percorsi, 17 minuti di viaggio – c’è costata 6,75 euro. In Italia avremmo pagato circa il doppio. Con un taxi, naturalmente: in Italia Uber è proibito.
L’Último Porto è realtà. Aveva ragione Diego Rossi, cuoco dalle braccia grosse ma dal cervello fino dell’osteria Trippa di Milano, che perentorio mi disse: a Lisbona DEVI andare all’Último Porto. Diego è rock e saggio, e io amo la gente rock e saggia al contempo: quelli solo saggi sono noiosi, quelli solo rock sono pericolosi. Rock lo è sicuramente anche l’Último Porto: oltre alle tre griglie di cui dicevo, c’è una distesa di tavolacci affollati e un basso fabbricato innestato tra uffici della capitaneria, della dogana o di altre cose che potrei dirvi se sapessi leggere le targhe in portoghese. E ancor di più la lingua mi servirebbe per leggere il menù, che ci arriva su un foglietto appena riusciamo a ritagliarci spazio a sedere, sotto i grandi ombrelloni. Ma, diciamo la verità, un goloso non ha bisogno di parole: gli bastano gli occhi.
Mi alzo, e con la determinazione di Enrico il Navigatore vado alle griglie, dove una signora refrattaria come pietra cuoce meraviglie. E stranezze. “Cosa sono?” Le chiedo. “Ovas grelhadas!” mi dice, e sono le sacche ovariche, le medesime che noi prendiamo da tonni o muggini per far la bottarga. “Quella?” indico una testa di pesce sulla brace. “Cabeça de corvina!”, la “corvina” è l’ombrina. “Cabeça?” chiedo io. Lei a gesti mi spiega che la testa è squisita, si mangia praticamente tutto. E quella? “Cabeça de garoupa!”, la “garoupa” è la cernia. Non so se avete presente le cernie: la testa è più grossa di quella del mio primogenito. Una griglia è interamente occupata da enormi calamari d’un mattone vivido, panciuti come seppie. “Calamari?” dico io, “chocos!” fa lei. Poi branzini, sogliole, naturalmente sardine (qua sono il piatto nazionale). Una griglia è per la carne. Quello? “Picanha!”, il codone di manzo, il taglio squisito che si mangia in Brasile. È tutto cotto “no carvão”, sul carbone.
Di fronte a tanta bellezza vengo colto dalla sindrome di Stendhal. Devo sedermi, ma prima ordino tutto. Non proprio tutto: vedo passare un vassoio di vongole enormi. “Che è?” chiedo al cameriere. “Amêijoas à Bulhão Pato” dice quello e si riveleranno le migliori vongole della mia vita, semplicemente passate in padella con olio, vino, pepe, limone, tanto coriandolo (qui sempre utilizzato al posto del prezzemolo). Le prendo! Prendo tutto, voglio tutto, lasciatemi qui, questo è il paradiso. Complice le brocche di sangria bianca colme di frutta dimentico ogni cosa, mia moglie, i miei figli, la mia vita precedente, persino i container: ora ci sono solo io, le griglie, le creature degli abissi che mi si offrono come a Nettuno. La bocca mostruosa della cernia canta una canzone dolce, le vongole sbattono le valve come nacchere e io sono felice di felicità pura. Ora capisco perché l’hanno chiamato Último Porto: una volta attraccato qui, nessuno vorrebbe più salpare. Le sardine sono le mie sirene, io il loro Ulisse. Adeus, amigos, adeus. Viaggiare così è viaggio.