Questa è la prima mostra che lei ha organizzato in un museo importante e che non prevede una performance iniziale. O meglio: un atto performativo ci sarà, ma sarà collegato maggiormente alla fine della esposizione. Celebra il ritorno del Narciso di Caravaggio a Roma, dopo essere stato esposto con altri capolavori storici presso il Castello di Rivoli nell’ambito di una mostra. Anche se inizierà senza una performance, però, lei sta riempiendo l’esposizione di nuovi disegni incredibili che agiscono come performer. E anche i personaggi dei dipinti sono, come Narciso, dei performer.
Mi piace l’idea di questi ospiti che entrano in sala sotto forma di personaggi nei dipinti. Avere il Caravaggio nella mia mostra è l’esaudimento di un mio sogno assoluto.
Una volta lei mi ha raccontato di non aver firmato per realizzare soltanto performance. Quindi, fin dall’inizio, c’era la percezione che lei stesse lottando con questa identità.
Quando ho detto di non aver firmato per questo intendevo dire di non aver firmato per un unico tipo di espressione artistica. Voglio solo essere un’artista. Voglio abbracciare l’aspetto performativo del mio lavoro come un contro-altare ai disegni, ai dipinti e alle sculture. E mi piace davvero molto l’idea che apriremo l’esposizione senza un evento live sotto forma di due persone che entrano nello spazio artistico come guardie, facendone entrare poi ancora altre.
Quindi all’improvviso lei sta prepando una importante esposizione in un museo senza anima vivente. Si tratta di una scelta notevole, da parte sua. In un certo senso, è come se il corpo umano scomparisse, mentre non scompare perché è all’interno delle rappresentazioni che riempiono lo spazio. Nell’epoca del Covid, il corpo è qualcosa di assai problematico. Tutti hanno paura dell’epidemia. Nella sua mostra il corpo scompare perché lei teme che i performer si ammalerebbero?
In parte sì. Ma c’è anche dell’altro e ha a che vedere con l’aspetto e la scomparsa del corpo, due cose a tal punto in stretta relazione che non possiamo pensare all’uno senza pensare anche all’altra. Pertanto, io credo che nella mostra vi siano l’assenza e la presenza del corpo. Le sculture – letti altissimi che sovrastano lo spazio – lasciano intendere che su di essi possa essere sdraiata una persona e che sia impegnata a immaginare o sognare o dare l’impressione di essere osservata. Si tratta di un’immagine molto forte. Con i disegni, rafforzo questa impressione, anche se non la formulo nello stesso modo. Non possiamo più stare insieme come prima. Le immagini nelle mie opere sono immagini di contatti, di tatto, di unione. Non sempre c’è qualcosa di tenero, in essi, o che riguarda il tatto. È un po’ come ballare, come far cadere l’altro, come trovarsi in contatto fisico e assai vicini. E non penso che questa immagine implichi la stessa cosa di prima del Covid, quindi non voglio fare una performance adesso che dica: ‘Non mantengo la distanza, sono molto vicina’. Non mi interessa fare polemiche.
Intende dire che non vuole creare una performance che lasci intendere che le persone sono molto vicine e si toccano?
Esatto. Non voglio che questa unione sia l’immagine di un mondo che oggi non è più tale. E mi piacerebbe evitare di incoraggiare una trasgressione. Oggi unione è un termine dal significato diverso. Dovrebbe essere preso sul serio, è un termine molto reale, che ha bisogno di essere differenziato, che richiede coraggio, una nuova consapevolezza e una nuova forma. Da un lato ha a che vedere con la rappresentazione, dall’altro per niente. Non dovrebbe essere dato per scontato.
In pratica, lei sostiene che in questo periodo di distanziamento fisico e sociale imposto dalla legge, qualora lei presentasse l’immagine della vicinanza fisica con una performance questa diventerebbe una sorta di immagine superficiale di trasgressione?
Proprio così. Che cosa vorrebbe dire se permettessi quel tipo di fisicità che provoca la caduta di gocce di sudore da un performer su un altro? Sarebbe come se i performer stessero creando le loro regole da soli in modo arrogante. Devo ancora capire come far funzionare queste immagini di unione nella performance. Infatti, penso che possano funzionare, ma l’unione non è qualcosa che si possa creare all’improvviso su un mezzo di comunicazione digitale e così pure nemmeno un incontro in due stanze su un dispositivo. Penso di produrre un’arte migliore con la pittura e il disegno.
Ma la performance ci sarà: riporta il quadro del Caravaggio a Roma. Da un certo punto di vista, si tratta di uno scambio.
È quasi come portarlo a casa in una marcia funebre.
Quindi l’immagine di unione è la marcia funebre. È un tipo diverso di unione connesso all’assenza del corpo, perché il corpo è morto. Quindi è unione, ma al tempo stesso anche perdita di unione. Una delle cose che sembrano accadere sempre nelle sue performance, in particolare nel Faust della Biennale di Venezia del 2017, è la gente che impazzisce per lei su internet. Tutti vogliono scattare foto e postare, postare, postare. In pratica, con i telefoni cellulari della gente si crea una produzione enorme di immagini.
Penso che in questo periodo prevalga un sentimento di nostalgia che ha a che vedere con il desiderio di preservare qualcosa del passato. C’è una sorta di bisogno reale di aggrapparsi a qualcosa e per la gente che scatta immagini del Faust è come se ci fosse il desiderio di tenere qualcosa da portarsi a casa. È come l’opera di Felix Gonzalez Torres, dagli show del quale è sempre possibile portare a casa qualcosa. Assistiamo alla scomparsa della materialità effettiva, quindi la gente si crea questi archivi di tutte le immagini che scatta con il telefono cellulare e le incornicia.
Nelle sue performance, lei usa il cellulare, giusto? Per dare indicazioni e istruzioni alla gente? Per mandare messaggi?
Sì, e spesso la gente lo sottolinea, perché vuole riportare il concetto di opera d’arte al suo creatore, all’ ‘autore unico’. È strano, ma a partire dal momento in cui hanno luogo non sono più il creatore di nulla quando facciamo performance. Penso che questo spieghi perché mi piacciono le performance: perché restano aperte. Si fanno da sole. Esiste dunque un momento di possibilità in cui può accadere qualsiasi cosa, anche una perdita di controllo, una svista. La comunicazione per sms è una comunicazione in due direzioni. Si potrebbe quasi pubblicare quello che ci si comunica in chat e ne verrebbe fuori un articolo. E davvero accade in entrambe le direzioni. Ma la gente vuole individuare il genio unico. Di sicuro non sono io.
Capisco. La gente vuole vedere l’autore nascosto sullo sfondo, quasi fosse un deus ex machina. Ma è pur sempre un modo di parlarsi per mezzo delle mani. Intendo dire toccandosi, letteralmente. Una cosa che volevo chiederle a questo proposito è sulle mani che compaiono nei suoi disegni: spesso lei disegna queste mani enormi e talvolta fanno gesti plateali. Si tratta di qualcosa di unico. Nessuno nella storia ha mai fatto disegni simili. Noi teniamo sempre in mano i nostri telefoni, che hanno componenti che chiamiamo anche “touch screen” e hanno più cose a che vedere con le nostre mani che con i nostri occhi, da un certo punto di vista. Sono diventati le nostre antenne. Un po’ come dice Beatrice Colomina: ormai la nostra è la specie dell’Homo Cellular. Stiamo diventando quasi degli insetti, perché abbiamo sempre in mano queste antenne. Anche lei la pensa così?
Penso che in qualche modo questo si manifesti nelle immagini delle mani. Ma quando inserisco una mano in un disegno, ciò appiattisce molto l’immagine. Talvolta, quindi, queste mani alludono a come noi ci mettiamo in relazione tra noi e appiattiamo la nostra imagine. Non appena una mano indica un’altra persona, non appena entra in relazione con un altro personaggio o un’altra parte dell’immagine, è come se chi indica e chi è indicato fossero sullo stesso piano. Forse, ciò è vero di tutte le immagini nelle quali sono presenti mani e occhi. Guidano l’osservatore verso l’immagine. Nelle immagini di figure e costellazioni, ho sempre pensato che fossero le mani e gli occhi a dare loro prospettiva.
Lei graffia anche i suoi dipinti. Questo rende l’impressione di una mano-strumento.
Il tocco dell’artista è lì, in quei dipinti gestuali. Nelle performance, le altre persone creano l’immagine ed è quasi come se l’immagine dell’artista fosse eliminata, perché io non vi prendo parte. Ma i quadri e le performance sono estremi molto strani che, in un certo senso, hanno bisogno gli uni delle altre. Non può esserci uno se l’altra manca.
- Anne Imhof, Sunset, 312, 2019.
- Untitled, 2019.
Courtesy the artist and Galerie Buchholz, Berlin/Cologne/New York.