Sono nella mia stanza di hotel a Nairobi. Siamo in tarda mattinata e da qualche ora gli animali che popolano la città africana hanno smesso di cantare per cedere il turno ai rumori del traffico. Apro il portatile e mi connetto. Finalmente ho una connessione a Internet che funziona. Ho un appuntamento con Jerry Brotton, professore di studi rinascimentali all’Università Queen Mary di Londra e grande appassionato di cartografia, tanto che ha scritto La storia del mondo in dodici mappe (Penguin Books, in Italia edito da Feltrinelli).
(Suono di Skype che tutti conoscono…)
Jacopo: Ciao Jerry. Qui Jacopo, da Nairobi. Finalmente ci siamo. Come stai? Mi senti?
Jerry: Ciao Jacopo! Eccoci, ti sento benissimo. Davvero sei a Nairobi!? Che combini laggiù?
Jacopo: Sembra fatto apposta, ma mi trovo qui – tra le altre cose – per esplorare l’uso delle mappe come mezzo per raccontare storie nei media africani, e insegnare ad alcuni giornalisti africani degli elementi di cartografia digitale. Ma veniamo a te. Sei un grandissimo appassionato di mappe. Viaggi tanto perché ti piacciono le mappe, o ti piacciono le mappe perché viaggi tanto?
Jerry: Ho sempre viaggiato e tuttora, appena posso, viaggio. Sono adulto e ho tre figli, ma ancora è così. La mia passione per le mappe è sempre stata legata a doppio filo a quella del viaggio. Anche se le mappe ci isolano in qualche modo dal viaggio, spogliandolo di tutta la fatica che il viaggio fisico richiede. Mi viene in mente Tolomeo, che senza muoversi dalla biblioteca d’Alessandria ha scritto Geografia, la prima grande opera di cartografia della tradizione greco-romana. Le prime mappe geografiche erano basate quasi esclusivamente sui racconti dei viaggiatori, tanto che lo stesso Tolomeo usava continuamente la parola akoé (letteralmente, “sentito dire”) – come per instillare un dubbio e far emergere le inesattezze di fondo di ogni mappa.
Jacopo: Proviamo a rigirare la questione. È vero che il viaggiatore è veicolo di parzialità e il suo racconto – per quanto accurato – tralascia inevitabilmente tasselli fondamentali della realtà. Ma se fossero proprio le mappe a portarci fuori strada, ad allontanarci dall’essenza delle cose? A pensarci le più belle sorprese arrivano quando si viaggia senza mappa (oggi dovremmo dire senza smartphone). Viaggiare fuori rotta è un’esperienza che incute timore, ma che rimane molto affascinante.
Jerry: In Amazzonia eravamo gran parte del tempo disconnessi. Seguivamo il ritmo della vita locale, nella foresta, insieme alla comunità indigena che ci ospitava. Regala un senso di liberazione, vivere senza mappe. Ritengo fondamentale l’esperienza di viaggiare fuori rotta. Nel villaggio avevamo un’ora di corrente elettrica al giorno, e appena arrivava sembrava di vedere persone in crisi di astinenza che ottengono finalmente una dose. Internet di per sé è un’enorme mappa del mondo, se ci pensi, e ne siamo tutti dipendenti.
Jacopo: Navigare su Internet ci dà la sensazione di poter viaggiare dalla nostra poltrona di casa. Sei in metropolitana a Roma, prendi lo smartphone e con Google Street Maps puoi camminare per le vie di Nuova Delhi. Ma il paradosso è proprio qui. Da un lato Internet ci aiuta a viaggiare, dall’altro limita la nostra libertà.
Jerry: Nel mio libro prendo in analisi Google e Apple. Quello che sta succedendo ora è preoccupante. Queste grandi aziende producono profitti con la pubblicità e le applicazioni geografiche che sviluppano (come Google Maps) rientrano in questa logica. Quasi tutti i dati che circolano su Internet contengono informazioni geografiche che possono essere utilizzate per fini commerciali. Fino a poco tempo fa gran parte della cartografia ufficiale era finanziata da soldi pubblici. Google ha rotto questa tradizione.
Jacopo: Capisco perfettamente le tue preoccupazioni. Le mappe sembrano prendere le sembianze di un terreno di battaglia dove si scontrano poteri opposti. È sempre più semplice mappare un territorio, pensiamo alla diffusione dei droni o all’accesso facilitato alle immagini satellitari. Da un lato questa privatizzazione delle mappe può essere preoccupante. Dall’altro vorrei spezzare una lancia a favore della tecnologia e pensare ai suoi usi positivi. Mi viene in mente OpenStreetMap.org, un’iniziativa collaborativa per creare mappe a licenza libera del mondo.
Jerry: Assolutamente. L’uso delle mappe in realtà può essere molto progressista, pensiamo alle mappe per comprendere la diffusione dell’HIV in alcune regioni dell’Africa sub-sahariana o all’uso dei droni per mappare la deforestazione nel Borneo. Tutto dipende da che uso si fa della tecnologia e da quali interessi serve. Molte mappe vengono utilizzate per difendere l’ambiente o i diritti umani o migliorare la salute pubblica, ed è bene sottolineare questo punto.
Jacopo: Come spieghi nel tuo libro le mappe hanno cambiato natura: dalla pietra all’argilla, dal papiro alla carta stampata, fino agli inafferrabili pixel. Questo evidenzia come la mappa sia un oggetto con una forma e un contenuto, che può essere deliberatamente adattato a qualsiasi scopo. Si può mappare il cosmo e l’origine del mondo, l’influenza di una superpotenza politica o i flussi migratori nel mondo.
Jerry: Nel ventesimo secolo abbiamo testimoniato a un uso propagandistico della cartografia. Pensiamo alle carte prodotte durante le guerre mondiali e alla guerra fredda. Quello che è vero è che una mappa è sempre una proposta, in qualche misura soggettiva, che può servire la religione, la scienza, la politica. Sempre una rappresentazione parziale del mondo, ma tutti aspetti fondanti di una cultura. E se uno riesce a capire il senso profondo di una mappa, allora può capire come una società percepisce se stessa.
Jacopo: Io adoro andare alla ricerca di atlanti polverosi nei mercati. Domanda di cui già so la risposta: anche tu vai a caccia di mappe?
Jerry: Ovviamente sì. Entri in una libreria dell’usato, trovi una vecchia mappa e ti chiedi “cosa pensavano le persone quando fu prodotta questa mappa?”. In un festival di letteratura una volta un partecipante mi ha detto: “il titolo del tuo libro è sbagliato… Doveva essere intitolato La storia delle mappe in dodici mondi”. L’ho trovato molto acuto. Ogni mappa nasconde un mondo. Una mappa è una finestra in un mondo, e quando prendi in mano una mappa antica inizi un viaggio nello spazio e nel tempo. E poi ti dà una visione del mondo dall’alto. Guardiamo una mappa e sognamo. Una mappa può condurci verso il mondo utopico che sognamo.
Jacopo: Scendiamo ancora di più nel dettaglio. La mia mappa preferita – ma domani potrei cambiare idea – è l’America Invertida di Joaquín Torres-García, designer, pittore e imprenditore uruguaiano nato a Montevideo nel 1874. La sua mappa, opera d’arte e parte del suo manifesto politico, rappresenta l’America Latina al contrario di come siamo abituati, con il Polo Sud in alto e la linea dell’Equatore in basso. Il disegno di Torres-García lanciava un messaggio di autodeterminazione del Sud verso il Nord del mondo, dicendo “il Sud è il nostro Nord”. Qual è la tua mappa preferita?
Jerry: La mia preferita è quella di Diogo Ribeiro, pilota e cosmografo portoghese che ha lavorato per il regno di Spagna tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo. Ai tempi di Ribeiro Spagna e Portogallo si contendevano il controllo delle isole molucche dell’arcipelago indonesiano, al centro della rotta per il commercio delle spezie. Le due potenze tracciarono una linea verticale al centro dell’oceano atlantico e decisero di spartirsi il mondo: l’emisfero occidentale alla Spagna, quello orientale al Portogallo. Il dubbio sull’appartenenza delle isole Molucche sorse nel 1522. Il re di Spagna Carlo V allora ingaggiò Ribeiro per produrre una mappa del mondo che rappresentasse le isole Molucche ai due estremi della carta, facendole cadere sotto il dominio spagnolo. Una mappa stupenda, e inattaccabile dai cartografi del tempo. Le misurazioni moderne hanno poi smentito Ribeiro, ma ci sono voluti secoli per svelare questo straordinario inganno cartografico.