Jacopo Ottaviani: Insomma, tu dopodomani te ne vai in Afghanistan, io tra due settimane vado a Odessa. Tre mesi fa ero a sudare nelle foreste del Borneo e tu in giro nello Xinjiang, in Cina. Perché lo facciamo?
Stefano Liberti: Secondo me ci sono due ragioni ambivalenti: c’è il desiderio di fuggire dalla monotonia della quotidianità; e poi c’è il desiderio di fuggire da se stessi. C’è a volte la volontà di esporsi a cose nuove, l’eccitazione di perdersi nella differenza, e altre volte quello di fuggire da un radicamento. Oppure negarselo, perché tutti ne abbiamo uno. Fa parte della cultura in cui siamo nati e in cui siamo immersi.
Desiderio, fuga, radicamento, smarrimento, differenza. Parole la cui sola pronuncia innesca un brivido in noi viaggiatori, vero?
È così. Ora poi sono un po’ più grande – ho quarantatré anni – e ci faccio un po’ i conti, è diverso. Ma a vent’anni è un’altra cosa. Fai un certo tipo di viaggi, dopo ne fai un altro tipo. Dipende dall’età, intanto. Si cresce, insieme ai viaggi.
Vero anche per me che mi avvicino ai trent’anni. Ne sono passati esattamente dieci dal mio primo vero viaggio: un interrail in Scandinavia, la cosiddetta “zona B”, subito dopo il liceo. Un mese in giro con mio cugino Luca. Ancora ricordo con commozione quei luoghi. Libro di Jack Kerouac in borsa, quaderno, macchina fotografica. Su trenta notti ne passammo solo dieci in ostello: le altre per terra, in treno, sul ponte della Viking Line che collega Stoccolma a Helsinki, su una panchina o a casa di sconosciuti.
Anch’io ho l’interrail nel cuore. Non avevo ancora diciotto anni e partii per un giro in treno per l’Europa. Poi tornai a Roma e decisi subito di farne un altro, cambiando le date scritte a mano sul biglietto. Già, ai miei tempi i biglietti si scrivevano a mano. Finii in Francia, lungo la Loira, poi a Berlino, infine ad Amsterdam per salutare due amici. Il controllore scoprì che il biglietto era stato truccato, mi chiuse in una cella per qualche ora, e soprattutto requisì i biglietti.
Non mi restava che cercare un passaggio per l’Italia. Trovai un camionista di Salerno che mi prese a bordo e passai tre giorni con lui. Apparteneva a una classe sociale totalmente diversa dalla mia, ancora mi ricordo quando mi chiese: “Ma se usciamo ad Anversa, stiamo qualche giorno e andiamo a puttane?” E io risposi, guarda, a me tra tre giorni ricomincia la scuola…
Avevi diciassette anni. Ora ne hai più di quaranta. Che è successo nel mezzo, tra quel primo interrail e il viaggio che ti aspetta tra una manciata di ore, in un paese come l’Afghanistan?
Ho viaggiato molto. A ventitré anni sono stato per tre mesi e mezzo in Messico. Poi ho fatto l’Erasmus a Parigi. Anche lì avevo un rapporto con una rete di camionisti. Ricordo che quando litigavo con la mia ragazza a Roma gli facevo un colpo di telefono e scendevo con loro nella capitale per continuare a litigare. Non esattamente una cosa da tutti.
L’autostop è una grande lezione di vita: finisci con gente con cui normalmente non spenderesti due minuti per starci insieme magari diciassette ore, chiuso in un abitacolo. Piano piano sviluppi l’abilità di essere persino sincero, persino naturale. Una capacità che mi è tornata utile nel lavoro di reporter e scrittore, negli anni in cui ho viaggiato in Africa, per esempio sulle rotte dei migranti. E ancora oggi, nella vita di tutti i giorni.
Conoscere l’altro, perdersi, dicevi all’inizio. Ma non c’è il rischio di smarrirsi sul serio e non ritrovarsi?
Dipende. Non direi, o almeno non del tutto. C’è questo doppio movimento: viaggiando rischi di diventare un disadattato nel tuo ambiente sociale, soprattutto se sei circondato di persone stanziali. Ma allo stesso tempo viaggiando ti ritrovi più a tuo agio nel mondo. Credo che l’umanità si divida ormai in due macro-categorie: gli stanziali e, per così dire, i cosmopoliti.
Parliamo di fuga.
Noi siamo animati da una profonda inquietudine, che poi è la benzina dei nostri viaggi, siamo vorticosamente alla ricerca di qualcosa.
Il viaggio lascia spazio alla fascinazione, all’immaginazione, all’imprevisto. Il pericolo, situazioni che non decripti subito.
Penso alla Cina. Ricordo l’ultima volta che ci sono stato. Volevo affittare una macchina ma non me l’hanno concessa. “Tu non sai leggere”, mi ha detto il noleggiatore.
E aveva ragione, e forse era proprio quello che cercavo.
Il viaggio è uno stato d’animo, non se ne sfugge. Da che nasce, non lo so.
L’eterno dilemma sul libero arbitrio. Nature vs Nurture, dicono gli anglofoni. Sarà che ereditiamo la nostra irrequietezza da qualche oscuro antenato? Certamente i nostri percorsi di crescita personale hanno avuto il loro impatto. Ma secondo me un po’ ce l’abbiamo nel sangue.
A me ha fatto impressione un libro che ho trovato rovistando tra le carte di uno dei miei nonni che non ho mai conosciuto. Era sulla Libia. Poi ne ho trovato un altro sulla navigazione e sull’Ordine di Malta. Doveva essere una specie di spia, sicuramente un curioso. Nella mia vita ho ritrovato quindi ossessioni simili – ovviamente declinate in maniera diversa perché i tempi sono diversi – in un parente lontano, che non ho mai conosciuto.
Quella del viaggio è una dimensione esistenziale. La nostra vita è un viaggio, se ci pensi. Non è solo una questione di mobilità, di trasferimento fisico dei nostri corpi. È un rapporto dialettico tra noi e la realtà in cui siamo calati. È un’empatia. E un privilegio.
C’è un quadro astratto al Centre Pompidou di Parigi. È di Jean Dubuffet e s’intitola Le voyageur sans boussule, il viaggiatore senza bussola. La prima volta che lo vidi – andavo spesso nella biblioteca del Pompidou a studiare durante l’Erasmus – rimasi circa un’ora ipnotizzato davanti questo quadro assurdo. Ci tornavo ogni volta che potevo.
Perché viaggiamo? In che direzione andiamo? Corriamo dietro il senso della vita. Ma non lo afferriamo.
Secondo me l’uomo è veramente un viaggiatore senza bussola.